ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PROCESSUALE PENALEIN PRIMO PIANOMisure cautelari

In tema di sequestro preventivo per equivalente di beni conferiti in trust – Cass. Pen. 15804/2015

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Cassazione Penale, Sez. II, 16 aprile 2015 (ud. 25 marzo 2015), n. 15804
Presidente Petti, Relatore Rago, P.G. Spinaci

Massima

E’ legittimo il sequestro preventivo per equivalente di beni conferiti in trust dal disponente (nella specie indagato per reati di associazione a delinquere, per reati tributari, per bancarotta fraudolenta e riciclaggio), nell’ipotesi in cui emergano diversi elementi fattuali che rendano evidente la volontà meramente frodatoria (sotto il profilo della simulazione) di sottrarre i beni alla pretesa ablatoria dello Stato. Assumono a tal fine rilievo elementi quali la costituzione di un trust che vede come beneficiari gli stretti familiari del disponente, la natura gratuita dell’atto, la natura di atto unilaterale non recettizio, che esime il Pubblico Ministero anche dal provare l’intento fraudolento (e dunque l’accordo simulatorio fittizio o reale che sia) nei confronti dell’avente causa di un negozio bilaterale, la natura di negozio fiduciario del trust, che lo assimila, mutatis mutandis, all’interposizione reale, le conseguenze pratiche e fattuali (nel caso concreto i beni di proprietà dell’indagato soggetti a confisca sono rimasti sempre in ambito familiare) ed il periodo in cui viene effettuata la modifica rilevante per escludere ogni potere di ingerenza del disponente.

Il commento

1. La Corte di Cassazione, nella pronuncia in oggetto, ha affrontato un interessante caso concernente la possibilità di applicazione del sequestro finalizzato alla confisca su di un trust costituito proprio allo scopo di sottrarre determinati beni alla possibile applicazione di eventuali misure cautelari reali.

2. La vicenda in esame prende le mosse dalla decisione del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma di disporre il sequestro preventivo per equivalente di vari beni di proprieta’ dell’imputato, accusato di una ingente serie di reati (tra i quali si rammentano, in particolare, associazione per delinquere, reati tributari, bancarotta fraudolenta e riciclaggio).
Tra i beni sottoposti al vincolo dl sequestro, rientravano le quote di una s.r.l. e due immobili di proprietà di tale società ma gestiti per il tramite di un trust.
In particolare, viene evidenziato come le quote della società Beta e i due immobili di proprietà della stessa erano gestiti dalla società Alfa, in considerazione del fatto che tale società e i suddetti immobili alla stessa conferiti in trust appartenessero all’imputato.
Il Tribunale della Libertà confermava la decisione presa, evidenziando inoltre come, nonostante il trust fosse stato costituito nel 2007, venne sottoposto da parte dell’imputato a modifiche già quattro anni dopo, proprio al fine di sottrarre a se’ qualsivoglia potere di ingerenza.
Tale azione costituiva, secondo i magistrati, l’evidente spia di un astuto espediente criminale, soprattutto in considerazione del fatto che, anche a seguito di accertamenti operati dall’Agenzia delle Entrate, era emersa da parte del reo un’ ingente opera di emissione di fatture per operazioni inesistenti e di attività distrattive aventi tutte ad oggetto gli immobili di cui sopra.
La situazione finora delineata, a parere dei giudicanti, denotava la presenza di una serie di chiari indici dimostrativi del fatto che l’imputato continuasse ad esercitare una effettiva ingerenza sulla s.r.l. e, di conseguenza, sul trust, entrambi a lui direttamente riconducibili.

3. La Suprema Corte con la pronuncia in analisi coglie l’occasione per meglio delineare i possibili mezzi fraudatori utilizzabili dal reo al fine di sottrarre i propri beni dalla minaccia della confisca, inquadrandoli in quattro categorie.
a) Meccanismi di interposizione fittizia: rientrano in questa prima categoria i casi in cui il bene, anche se formalmente intestato a terzi, risulti comunque far parte della sfera di disponibilità effettiva del reo. Gli ermellini specificano, inoltre, che cio’ puo’ configurarsi sia nella fase dell’acquisto come anche nel caso di vendita del suddetto bene.
b) Meccanismi di interposizione reale: si rientra in tale seconda opzione qualora il reo intesti o trasferisca il bene al terzo inteposto, ma con un accordo fiduciario in base al quale tale bene deve essere detenuto, gestito o amministrato da quest’ultimo nell’interesse e secondo le direttive del dominus [1].
c) Meccanismi di segregazione attuati con lo scopo di istituire una gestione controllata (e, pertanto, garantire la salvaguardia) dei patrimoni in essi conferiti. In questa terza ipotesi vengono ricomprese la costituzione del trust e del fondo patrimoniale, consentite poichè finalizzate alla salvaguardia di interessi ritenuti meritevoli di tutela da parte del nostro ordinamento.
d) Atti di alienazione di beni a mezzo dei quali l’indagato/imputato pone in essere atti non simulati in qaunto il terzo acquista realmente il bene. Si tratta di situazioni in cui l’agente decide di alienare i propri beni ad un terzo mediante monetizzazione al fine di sottrarli, così, alla confisca.
Ad esclusione di quest’ultima categoria, nelle altre tre ipotesi le indicate operazioni possono essere poste nel nulla proprio a causa della loro natura elusiva, sempre che venga appurato che l’imputato/indagato fosse nella disponibilità dei beni al momento del provvedimento di sequestro/confisca.

4. Per fare ciò, tuttavia, la Pubblica Accusa dovrà dimostrare l’esistenza di una situazione di palese incompatibilità tra intestazione formale ed effettiva disponibilità del bene in capo al reo, “sicchè possa affermarsi con certezza che il terzo intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al solo fine di favorire la permanenza dell’acquisizione del bene in capo al soggetto indagato e di salvaguardarlo dal pericolo della confisca”.
Il Supremo Consesso sottolinea chiaramente, infatti, come ci si trovi di fronte alla necessità di coniugare due posizioni assolutamente antitetiche.
Da una parte la pretesa accusatoria, che con la richiesta di sequestro mira ad applicare le disposizioni normative che prevedono la confisca dei beni nei confronti di coloro che si siano resi colpevoli di determinati reati, al fine di tutelare preminenti interessi pubblici. Dall’altra parte, vi si contrappone nettamente il tentativo del terzo che, invocando la propria buona fede, vuole conservare la disponibilità del bene pervenutogli dall’indagato/imputato in quanto divenutone legittimamente proprietario.
In tale situazione, nonostante l’apparente rispetto delle regole ordinamentali, emerge l’improbo compito della Pubblica Accusa di dimostrare come tali beni, in realtà, non siano del terzo, ma nella disponibilità dell’indagato/imputato “a qualsiasi titolo”[2].
In ossequio al principio della distribuzione dell’ordine probatorio, per dimostrare ciò il Pubblico Ministero dovrà servirsi non di “circostanze sintomatiche di mero spessore indiziario”, quanto piuttosto di elementi gravi, precisi e concordanti, idonei a suffragare, anche indirettamente, la propria posizione [3].

5. Tuttò ciò premesso, la Suprema Corte passa poi ad applicare queste precisazioni al trust, non prima però di averne brevemente delineato i caratteri essenziali.
Tale istituto, di derivazione anglosassone e recentemente introdotto anche nel nostro ordinamento, è un rapporto giuridico costituito da un soggetto (settlor), mediante atto inter vivos o mortis causa, al fine di porre taluni beni sotto il controllo di un trustee nell’interesse di un terzo beneficiario o per una specifica finalità. I beni del trust sono intestati a nome del trustee o di altri per conto di questi, ma costituscono una massa distinta ed autonoma rispetto al patrimonio del trustee stesso. Quest’ultimo dovrà, inoltre, amministrare, gestire e rendere conto al costituente delle proprie attività dispositive sui suddetti beni secondo le indicazioni impartitegli dal dominus [4].
Ciò che ai magistrati preme ancora una volta rilevare è come il presupposto necessario per la validità del trust sia la perdita di disponibilità in capo al disponente di quanto egli decida di conferire in trust. In mancanza di tale requisito, pertanto, tale istituto risulterà nullo (c.d. sham trust), con conseguente perdita di tutti i suoi effetti segregativi, in quanto evidentemente costituito per meri fini frodatori [5].
Il trust, difatti, è un istituto particolarmente duttile, che può essere utilizzato per il raggiungimento delle più varie finalità, tra le quali, purtroppo, anche di natura illecita.
La Corte di Cassazione giunge a sostenere come sia irrilevante, pertanto, che l’indagato/imputato costituisca un trust, qualora tale strumento venga impiegato all’unico fine di sottrarre i beni alla confisca. L’ordinamento, infatti, non può consentire nè ammettere l’utilizzo di un lecito istituto giuridico per eludere norme imperative, tantopiù in maeria penale dove tali disposizioni sono poste a presidio di essenziali esigenze di pubblica protezione.

6. Si permetta solo una breve considerazione a margine della suddetta sentenza.
Una situazione similare era già stata affrontata, sul versante civilistico, dai giudici di Piazza Cavour nella pronuncia n. 10105/2014 (richiamata, tra l’altro, anche nella sentenza oggi in analisi). In tale occasione, nello specifico, il trust era stato costituito al fine di eludere le procedure liquidatorie di una società [6].
La Corte di Cassazione con l’occasione stabilì come non fosse possibile il riconoscimento di un trust nell’ambito di una procedura fallimentare di una società per la liquidazione dei beni aziendali ai creditori, qualora l’insolvenza della stessa fosse preesistente alla creazione del vincolo, con conseguente nullità dell’atto di trasferimento dei beni al trustee ex art. 1418, comma 2, c.c.
Gli ermellini ben sottolinearono come, in virtù della sua natura di negozio astratto, il trust potesse venire sfruttato per i più disparati scopi, e, pertanto, la sua valutazione di liceità dovesse basarsi sull’analisi delle concrete circostanze di utilizzo.
Ciò che difatti rileva per la validità del trust non è tanto la sua semplice creazione in conformità alle disposizioni normative, quanto piuttosto l’attuazione concreta del programma per il quale è stato costituito.
È, pertanto, assolutamente necessario non soffermarsi alla causa astratta quanto, invece, analizzare attentamente la causa concreta del regolamento.
Quest’ultima, spiegano i giudici, deve essere sottoposta “a un vaglio particolarmete attento e, in caso di esito negativo, il trust non sarà riconoscibile, non potendo l’ordinamento fornire tutela ad un regolamento di interessi che, pur veicolato da un negozio in astratto riconoscibile in forza di convenzione internazionale, in concreto contrasti con i fini di cui siano espressione norme imperarive interne”.
In altri termini, quindi, il suddetto istituto può certamente venire utilizzato a fini di valorizzazione dell’autonomia negoziale (e, conseguentemente, per snellire ed accellerare le procedure giudiziarie), ma non può in alcun modo trovare riconoscimento nel nostro sistema giuridico se sfruttato quale espediente per aggirare l’applicazione di disposizioni ordinamentali.
E se ciò vale per la salvaguardia di interessi privati (nel caso di specie, il pagamento dei creditori), tanto più dovrà valere in ambito penale, dove entrano in gioco interessi pubblici di rango elevatissimo.
La sentenza n. 15804/2015 rappresenta, pertanto, il logico (e necessario) complemento anche dal punto di vista della tutela penalistica di principi già vigenti sul versante civilistico.


[1] Tema già affrontato, tra le molte, in Cass. 41051/2011 (nella quale, nello specifico, la Suprema Corte confermava il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente a carico di un evasore fiscale che aveva distribuito le quote della società ai suoi stretti congiunti, mantenendo, però, di fatto il controllo dell’ente).
[2] Riprendendo una precedente pronuncia, la Suprema Corte specifica come per “disponibilità” debba intendersi “la relazione effettuale con il bene, connotata dall’esercizio di poteri di fatto corrispondenti al diritto di proprietà (Cass. 22153/2013)”.
[3] Tra i vari elementi che la pubblica accusa può utilizzare a sostegno della propria tesi, i supremi giudici, riprendendo quanto già in precedenza espresso (cfr., ex multis, Cass. 11732/2015, Cass. 3990/2008, Cass. 27556/2010), ricordano a mero titolo esemplificativo “a) la parentela e la convivenza fra il dante causa e l’avente causa […]; b) la vicinanza temporale tra l’atto di spoliazione e il momento in cui il dante causa ha avuto cognizione che, presto, i suoi beni sarebbero stati aggrediti dal Pubblico Ministero; c) la mancanza di disponibilità economica da parte dell’avente causa che giustifichi l’acquisto a titolo oneroso; d) […] la disponibilità di fatto del bene trasferito a terzi; e) la gratuità dell’atto”.
[4] Gazzoni F., “Manuale di diritto privato”, Edizioni Scientifiche Italiane,XIV edizione, pag. 985.
[5] Cfr., tra le tante, Cass. 21621/2014, Cass. 13276/2011.
[6] Per un esaustivo approfondimento sul tema, si veda Di Landro A. C., “La destinazione patrimoniale nella gestione della crisi d’impresa: il Trust liquidatorio approda in Cassazione”, in Diritto civile contemporaneo, anno I, numero II