Rito abbreviato: legittimo l’utilizzo delle prove assunte in dibattimento in caso di erroneo rigetto della richiesta – Cass. Pen. 14454/2013
Cassazione Penale, Sez. VI, 27 marzo 2013 (ud. 15 marzo 2013), n. 14454,
Presidente Agrò, Relatore Aprile, P.G. (conf.)
Massima
Il giudice che all’esito del dibattimento – di primo grado o di appello – ritenendo erronea una precedente declaratoria di inammissibilità o di rigetto della richiesta di giudizio abbreviato riconosca all’imputato il diritto ad ottenere la riduzione della pena, ex art. 442 cod. proc. pen., può legittimamente utilizzare le prove assunte nel giudizio ordinario.
Il commento
1. La sentenza in annotazione riguarda il delicato tema del sindacato sui provvedimenti di rigetto della richiesta di rito abbreviato [1] e pone la seguente questione: dinanzi ad una richiesta di rito abbreviato illegittimamente respinta, il giudice – fermo restando l’obbligo di riconoscere all’imputato la diminuzione di un terzo sulla pena da infliggere ex art. 442 c.p.p. – potrà giudicare l’imputato sulla base delle dichiarazioni rese in dibattimento, rese, cioè, in una fase che non si sarebbe celebrata qualora la sua richiesta di rito abbreviato fosse stata legittimamente accolta?
Due le questioni sul tappeto: la prima – su cui si riscontra un orientamento giurisprudenziale ormai più che consolidato – concerne la diminuzione di pena che il giudice dibattimentale è tenuto ad applicare in caso di illegittimo diniego di rito abbreviato; la seconda – meno affrontata rispetto alla prima – riguarda l’utilizzabilità o meno delle prove formatesi in dibattimento.
Con la pronuncia che si annota la Suprema Corte – nell’accogliere le conclusioni del Procuratore Generale sull’infondatezza del ricorso – ha affermato il seguente principio di diritto: “nel caso in cui il giudice di primo grado o di appello, all’esito del dibattimento, riconosca l’erroneità della precedente dichiarazione di inammissibilità della richiesta di rito abbreviato, dovrà riconoscere all’imputato la riduzione di un terzo della pena da irrogare, e rimarrà legittima l’utilizzabilità delle prove assunte nel giudizio ordinario, nel rispetto del principio del contraddittorio”.
In motivazione i giudici di legittimità prendono le mosse richiamando i principi già affermati dalla Suprema Corte a Sezioni Unite nella nota sentenza Wajib del 2004 [2] – senz’altro l’approdo giurisprudenziale più completo ed organico sul tema del sindacato sul rigetto della richiesta di giudizio abbreviato – di cui, ad avviso dei giudici, la Corte di Appello avrebbe fatto corretta applicazione.
Nella pronuncia appena richiamata si era affermato il principio secondo cui, nel caso di rigetto della richiesta condizionata di rito abbreviato, qualora il giudice del dibattimento accerti l’erroneità del provvedimento reiettivo e, pertanto, riconosca (pure alla luce dell’istruttoria espletata) che quel rito si sarebbe dovuto invece celebrare, in caso di condanna, sarà tenuto ad applicare la riduzione di un terzo prevista per il rito abbreviato”.
Sebbene tale regola iuris si riferisca, a ben vedere, all’ipotesi in cui il giudice del dibattimento abbia verificato l’erroneità del provvedimento di rigetto della richiesta di rito abbreviato “condizionata” – subordinata, cioè, alla assunzione di prove integrative – tuttavia, mutatis mutandis, essa appare pienamente applicabile anche all’ipotesi in questione.
In particolare, il punto decisivo della sentenza Wajib su cui i giudici di legittimità insistono pare ravvisarsi nella circostanza che, appellando la sentenza di condanna sotto il profilo della “illegalità” della pena, viene censurato il provvedimento non in quanto preclusivo dell’accesso ad un rito che è ormai irreversibile, bensì quale presupposto che ha condizionato la “legalità” della pena inflitta, la cui concreta determinazione rimane rivalutabile dal giudice di secondo grado.
Nel nostro ordinamento, in altri termini, non viene tutelato l’interesse dell’imputato ad ottenere il “regresso” del processo affinché lo stesso si possa svolgere nelle forme del rito speciale richiesto.
D’altronde, come la giurisprudenza di legittimità ha già avuto modo di affermare, una volta che il processo ha irreversibilmente intrapreso la via del dibattimento, si dissolve la funzione deflattiva tipica del rito speciale e residua soltanto la possibilità di applicare la diminuente di pena, qualora a posteriori risulti che il processo poteva essere definito – come richiesto dall’imputato – nell’udienza preliminare. [3]
Una delle prime pronunce ad essersi mossa nella direzione di un necessario controllo post-dibattimentale sulle decisioni di rigetto su richieste di rito abbreviato ha esplicitamente affermato che “il provvedimento di rigetto della richiesta di rito abbreviato assunto nell’udienza preliminare può essere sindacato dal giudice dibattimentale anche in occasione della sentenza di condanna deliberata in esito al dibattimento, con l’applicazione, nel caso di valutazione negativa del rigetto, della riduzione di pena regolata dall’art. 442 c.p.p.”. [4]
Come detto, negli anni successivi a tale ultima pronuncia l’orientamento si è assolutamente consolidato e nello stesso senso possono vedersi anche Sez. I, 13.01.2004, n.4054, in Guida al diritto, 2004, 19, 89; Sez. I, 13.01.2005, n. 3003, in C.E.D. Cass. n. 230607; Sez. IV, 05.06.2007, n. 37887, in C.E.D. Cass 237694, nonché Sez. III, 7.05.2009, n. 25983, in C.E.D. Cass. n. 243910.
Si è in presenza, nella sostanza, di un rimedio frutto di un’elaborazione giurisprudenziale che ha trovato, negli anni seguenti, l’approvazione da parte della dottrina maggioritaria. Per ulteriori approfondimenti si rinvia nella manualistica a Spangher, La pratica del processo penale, Vol. I, Cedam, 2012, 20; Tonini, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 2012, 687 nonché GAITO, Procedura Penale, Cedam, 2013, 740.
2. L’analisi del criterio appena descritto apre le porte alla seconda questione di cui ci si deve occupare: quella dell’identificazione degli atti utilizzabili dal giudice.
I giudici di legittimità si schierano a favore dell’utilizzabilità delle prove assunte nel corso del giudizio ordinario: se, per le ragioni sopra esposte, manca alcuna tutela dell’interesse ad ottenere il “regresso” del processo, non appare allora sostenibile – anche alla luce di un’interpretazione sistematica – negare validità probatoria agli elementi assunti in contraddittorio nel corso del giudizio ordinario, pur erroneamente instauratosi.
In breve, due gli argomenti a sostengo di tale tesi.
Innanzitutto la Suprema Corte, privilegiando proprio un’interpretazione sistematica, effettua un parallelismo con l’art. 448 c.1 c.p.p., il quale prevede una analoga ipotesi nella quale al giudice del dibattimento, di primo o di secondo grado, si riconosce il potere di sindacare la precedente decisione che abbia impedito l’instaurazione del rito speciale del patteggiamento. [5]
Ad avviso dei giudici, tale disposizione risponderebbe alla medesima logica ravvisabile nel caso in esame: il giudice, utilizzando il materiale probatorio acquisito nel corso del giudizio ordinario, pronuncia una sentenza che, nella sostanza, ha il contenuto di quella del patteggiamento (si pensi al riconoscimento degli effetti premiali) ma, nella forma, è parificabile ad una normale sentenza di condanna pronunciata, cioè, sulla base di un accertamento “pieno”.
In secondo luogo, si richiamano i parametri costituzionali in tema di giusto processo per sgombrare il campo da dubbi di lesioni al diritto di difesa dell’imputato: l’art. 111 Cost., come è noto, disciplina i soli casi nei quali è consentita una deroga al principio del contraddittorio nella formazione della prova così stabilendo, indirettamente, la piena ed assoluta utilizzabilità di quelle prove che siano state assunte nel rispetto di tale regola.
In altri termini: se con la scelta di avvalersi del rito abbreviato l’imputato rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio – accettando, cioè, una decisione “allo stato degli atti” – è altrettanto vero che una volta che le prove sono acquisite in dibattimento nel contraddittorio delle parti (pur sulla base di un erroneo presupposto) il diritto di difesa dell’imputato non potrà certo dirsi sacrificato, avendo trovato al contrario la sua tipica e naturale esplicazione.
In conclusione, si rinviene un unico rimedio all’illegittimo diniego della richiesta di rito abbreviato: la rideterminazione della pena attraverso il riconoscimento dello sconto di un terzo ex art. 442 c.p.p., “come se il rito speciale fosse stato effettivamente celebrato”. [6]
[1] Come è intuibile il problema si è posto, per lo più, con riguardo ai casi di rigetto di richieste “condizionate”, deliberati in seguito a valutazioni di merito sui presupposti della necessità e compatibilità della prova integrativa proposta dal richiedente. Ad una attenta analisi deve evidenziarsi come originariamente neanche per i casi di abbreviati “condizionati” fosse previsto un esplicito meccanismo di controllo sul rigetto. A tale lacuna hanno ovviato dapprima la giurisprudenza costituzionale (con le sentenze n. 54 del 2002 e n. 169 del 2003) e successivamente quella di legittimità (con la sentenza Wajib del 2004).
[2] Cass. Pen., Sez. Un., Wajib, n. 44711, 27.10.2004. Per i primi commenti a tale pronuncia si vedano, tra i tanti, Guida al Diritto, 2004, 49, 70 con nota di Leo, Con l’intervento delle Sezioni Unite evitati nuovi incidenti di costituzionalità; Giur. It., 2007, 1950, con nota di Ciglioni, Rigetto della richiesta condizionata di giudizio abbreviato e sindacato del giudice dibattimentale; Dir. e Giust., 2004, 46, 30 con nota di Cremonesi, Giudizio abbreviato e rigetto della richiesta: la Consulta decide, le Sezioni unite precisano.
[3] Cass. Pen., Sez. I, Pucci, n. 4111, 14.01.1999, in Cass. Pen., 2000, 3075
[4] Cass. Pen., Sez. I, n. 39462, 12.06.2003, in Guida al diritto., 2003, 49, 62 con nota di Leo, La riduzione della pena diventa doverosa se c’è un errore nella precedente decisione e in Cass. Pen., 2004, 55 con nota di Di Bitonto.
[5] Art. 448 c.1 c.p.p.: “Nell’udienza prevista dall’articolo 447, nell’udienza preliminare, nel giudizio direttissimo e nel giudizio immediato, il giudice, se ricorrono le condizioni per accogliere la richiesta prevista dall’articolo 444, comma 1, pronuncia immediatamente sentenza. Nel caso di dissenso da parte del pubblico ministero o di rigetto della richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari, l’imputato, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, può rinnovare la richiesta e il giudice, se la ritiene fondata, pronuncia immediatamente sentenza. La richiesta non è ulteriormente rinnovabile dinanzi ad altro giudice. Nello stesso modo il giudice provvede dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione quando ritiene ingiustificato il dissenso del pubblico ministero o il rigetto della richiesta”.
[6] Lattanzi Lupo, Codice di procedura penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, Vol. VI Procedimenti speciali, 2012, Giuffrè, p. 148
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