Mobbing “attenuato”: la Cassazione riconosce il cd. “straining” – Cass. Pen. 28603/2013
Cass. Pen., Sez. VI, 3 luglio 2013 (ud. 28 marzo 2013), n. 28603
Presidente De Roberto, Relatore De Amicis
Depositata il 3 luglio scorso la sentenza numero 28603 della sesta sezione penale in tema di cd. straining.
Si tratta di pronuncia particolarmente interessante che ha riconosciuto ad un dipendente di banca, “messo all’angolo” fino a essere relegato a lavorare in uno «sgabuzzino, spoglio e sporco», con «mansioni dequalificanti» e «meramente esecutive e ripetitive»: comportamenti complessivamente ritenuti idonei a dequalificarne la professionalità, comportandone il passaggio da mansioni contrassegnate da una marcata autonomia decisionale a ruoli caratterizzati, per contro, da “bassa e/o nessuna autonomia”, e dunque tali da marginalizzarne, in definitiva, l’attività lavorativa, con un reale svuotamento delle mansioni da lui espletate.
L’aspetto maggiormente innovativo della pronuncia, tuttavia, consiste nell’aver qualificato tali comportamenti non come “mobbing”, bensì come “straining” – ossia una sorta di mobbing attenuato.
In altri termini, mentre il mobbing è una situazione lavorativa di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso, lo straining, in via parzialmente coincidente ma in parte diversa, è “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno una azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo.
Precisa ulteriormente la Corte che, pur essendo tale situazione di fatto astrattamente riconducibile alla nozione di “mobbing”, sia pure in una sua forma di manifestazione attenuata, dai Giudici di merito denominata nel caso di specie come “straining”, occorre tuttavia rilevare che, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Suprema Corte, le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. “mobbing”) possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia-soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, dep. 26/06/2009, Rv. 244457; Sez. 6, n. 685 dei 22/09/2010, dep. 13/01/2011, Rv. 249186; Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, dep. 22/11/2011, Rv. 251368; Sez. 6, n. 16094 del 11/04/2012, dep. 27/04/2012, Rv. 252609).
La modulazione di tale rapporto, dunque, avuto riguardo alla ratìo della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 572 c.p., deve comunque essere caratterizzata dal tratto della “familiarità”, poichè è soltanto nel limitato contesto di un tale peculiare rapporto di natura para-familiare che può ipotizzarsi, ove si verifichi l’alterazione della sua funzione attraverso lo svilimento e l’umiliazione della dignità fisica e morale del soggetto passivo, il reato di maltrattamenti: si pensi, in via esemplificativa, al rapporto che lega il collaboratore domestico alle persone della famiglia presso cui svolge la propria opera o a quello che può intercorrere tra il maestro d’arte e l’apprendista.
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