«Amanda, c’è un giudice a Perugia»
«Amanda, c’è un giudice a Perugia»,
così Vladimiro Zagrebelsky intitolava un articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa nell’ottobre 2011 che – ora che sulla vicenda si è già pronunciata la Corte di Cassazione – qui riproponiamo.
Le tappe del processo sono note: il 3 ottobre 2011 la Corte di Assise di Appello di Perugia aveva assolto con la formula “di non aver commesso il fatto” Amanda Knox e Raffaele Sollecito dalle accuse di omicidio e di violenza sessuale, e per insussistenza del fatto dall’accusa di simulazione di reato.
Il 26 marzo 2013 la Cassazione ha poi annullato le sentenze di assoluzione del grado di giudizio precedente, rinviando lo stesso dinanzi alla Corte d’assise d’appello di Firenze.
A distanza di qualche mese dal deposito delle motivazioni (clicca qui per leggerle), riproponiamo questo interessante articolo pubblicato sul quotidiano “La Stampa” nell’ottobre 2011 (pochi giorni dopo la sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Perugia) da Vladimiro Zagrebelsky (fino al 2010 giudice italiano presso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo).
Si tratta di un articolo di cui consigliamo la lettura, oltre che per l’interesse mediatico della vicenda, anche per meglio comprendere le differenze esistenti tra il nostro sistema processuale e quello statunitense.
“Amanda, c’è un giudice a Perugia”, di Vladimiro Zagrebelsky, 6 ottobre 2011, La Stampa
Le reazioni alla sentenza della Corte di assise di appello di Perugia sono andate oltre l’immaginabile. Il Dipartimento di Stato americano si è compiaciuto (un’imputata è americana), il primo ministro britannico si è rammaricato (la vittima era inglese), la piazza di Perugia ha insultato i giudici, la folla di Seattle ha accolto l’imputata come un’eroina. Nessuno ha ancora letto la motivazione della sentenza (che non c’è ancora) e pochissimi hanno letto quella di segno contrario pronunciata dalla Corte di assise di primo grado. Ma molti evidentemente hanno la loro ferma opinione, non solo sull’innocenza o la colpevolezza degli imputati, ma anche sulle colpe dei giudici e del sistema in cui operano. Un sistema «medievale», si è detto, mentre è il sistema alternativo che affonda le sue radici nell’Inghilterra del dodicesimo secolo.
Prima di dir qualcosa sul sistema italiano, va brevemente detto che negli Stati Uniti un’accusa come quella portata nel processo di Perugia avrebbe esposto gli imputati al rischio della condanna alla pena capitale e il giudizio sulla loro colpevolezza sarebbe stato reso da una giuria popolare con le semplici parole di «guilty» o di «not guilty», colpevoli o non colpevoli. Ben difficilmente l’appello sarebbe stato ammesso e comunque solo su questioni di procedura. Nessuna motivazione sulla valutazione della prova, nessun controllo o rinnovo del giudizio da parte di un altro giudice. Semplice e rapido, ma, come tutti sanno, non esente dal rischio di errore (tragico nel caso della condanna a morte).
In Italia, ma anche in altri Paesi europei, come la Francia o il Belgio, i delitti più gravi, come l’omicidio, sono giudicati dalla Corte di assise, che da noi è un collegio di otto giudici, due magistrati e sei giudici popolari, estratti a sorte sulle liste elettorali. Ogni decisione è presa a maggioranza dei voti e, in caso di parità, prevale la soluzione più favorevole all’imputato. Dopo letto in aula il dispositivo della sentenza, segue la redazione e la pubblicazione della motivazione. Secondo la nostra Costituzione, tutti i provvedimenti giudiziari devono essere motivati. La motivazione obbliga il giudice a render conto dell’uso che ha fatto del potere pubblico che gli è assegnato, permette il controllo e la critica da parte dell’opinione pubblica e, infine, consente il controllo in appello e poi eventualmente in Cassazione. Motivazione e controllo vanno di pari passo, infatti dove, come nel sistema di giuria, non c’è motivazione non c’è nemmeno appello. Qui la legittimità della sentenza si fonda sulla motivazione, controllata da un altro giudice in un nuovo processo, là risiede invece nel giudizio immotivato «dei pari» (Medioevo, appunto).
Il sistema processuale italiano, fondato sulla motivazione delle sentenze e sul loro controllo in appello e in Cassazione, tiene conto della problematicità e dell’opinabilità della valutazione delle prove. Accade (tanto più in un collegio ampio come quello della Corte di assise) che la conclusione sia adottata a maggioranza, sulla colpevolezza o la pena. Il pubblico non lo sa e si stupirebbe chi crede che la valutazione delle prove sia qualcosa di meccanico e matematico, che porta a un risultato che tutti dovrebbero condividere. Talora invece il collegio giudicante si divide. Accade anche, come in questo caso, che la conclusione raggiunta dai giudici di primo grado non sia condivisa da quelli di appello. Il sistema suppone che talora sia necessario correggere, che il giudizio di appello sia più attendibile di quello di primo grado e che il giudizio definitivo sia quello successivo della Cassazione.
Ma l’esistenza della motivazione delle sentenze e lo svolgimento di un nuovo giudizio davanti ai nuovi giudici mette in luce la problematicità della valutazione della prova: la possibilità di conclusioni diverse ne è la conseguenza. Chi non ha esperienza del giudicare può essere sconcertato e chiedersi chi sbaglia. In realtà normalmente la questione non si pone in termini di giusto/sbagliato. Essa però richiede una soluzione del contrasto. Nel nostro sistema, come in tanti altri, la soluzione deriva dalla presunzione di non colpevolezza, dal principio «in dubio pro reo». La condanna viene pronunciata se i giudici concludono che l’imputato è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio. Essendo stata abolita dal nuovo codice di procedura penale (1989) la formula di assoluzione per insufficienza di prove, i giudici pronunciano sentenza di assoluzione, non solo quando vi sia la prova dell’innocenza, ma anche quando manchi, sia insufficiente o sia contraddittoria la prova. Ciò che spesso accade.
La difficoltà dell’opera dei giudici in casi come quello di Perugia e la presunzione di innocenza degli imputati richiederebbero, attorno al processo, un poco di silenzio. Silenzio certo da parte dei magistrati, prudenza anche da parte degli avvocati e della stampa. Si tratta di esigenze fondamentali dell’equo processo, così come lo si intende in Europa. E’ in gioco l’indipendenza di giudizio dei giudici, che devono essere tenuti al riparo da pressioni e suggestioni esterne. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte notato che il clamore esterno e i «giudizi tramite stampa» possono influenzare i giudici, particolarmente quelli non professionali, e incidere sull’equità del processo. Ciò che è avvenuto attorno al processo di Perugia (e spesso accade in Italia) è lontano anni luce dal clima richiesto. Nell’altro sistema di cui si è parlato e in Europa particolarmente nel Regno Unito, si sarebbe più volte parlato di «contempt of court». Se non quel reato, almeno il costume che lo esprime potrebbe essere utilmente copiato.
Un sistema così garantista ha dei prezzi.
Produce fisiologicamente casi in cui un delitto resta impunito. Il delitto è stato commesso, ma non è raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio che una persona identificata ne sia responsabile. Donde il dolore delle vittime. Qui poi, come in tanti altri casi, vi è anche la lunga detenzione degli imputati nel corso del procedimento. La legge prevede un indennizzo in questi casi (se la sentenza di assoluzione diverrà definitiva). Si tratta di una somma di denaro a carico dello Stato. Le sofferenze, che la sentenza di assoluzione certifica essere state ingiuste, non possono essere riparate.
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