Sulla causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p. – Cass. Pen. 39844/2012
Cassazione Penale, Sez. II, 9 ottobre 2012 (ud. 27 giugno 2012), n. 39844
Presidente Esposito, Relatore Gentile
Con la sentenza numero 39844 del 27 giugno 2012, depositata il 9 ottobre 2012, la seconda sezione della Suprema Corte si è pronunciata in merito alla causa di non punibilità di cui all’art. 649 c.p.
Una trattazione precisa delle cause di esclusione della punibilità la troviamo, all’interno della manualistica, nel Marinucci Dolcini dove vengono definite come quelle situazioni – concomitanti o susseguenti alla commissione di un fatto antigiuridico e colpevole – che, per ragioni politico-criminali, escludono la punibilità del soggetto agente.
Si evince già da questa prima definizione che queste, a differenza delle cause di giustificazione, non incidendo né sulla antigiuridicità né sulla colpevolezza, non riguardano la struttura del reato ma solo ed esclusivamente la punibilità.
Sulla autonomia della categoria delle cause di esclusione della punibilità non vale la pena soffermarsi: è pacifico che rappresentino, infatti, una categoria autonoma e distinta da quelle delle cause di giustificazione e di esclusione della colpevolezza; queste ultime escludono il fatto illecito o lo scusano, le prime, al contrario, rendono non punibile un fatto tipico, antigiuridico e colpevole.
In altri termini: non sempre la commissione di un fatto tipico, antigiuridico e colpevole giustifica la applicazione di una pena.
Se, infatti, l’idea posta alla base della punibilità risiede nella opportunità di sottoporre ad una pena l’autore di un fatto che presenti le caratteristiche di una fattispecie di reato, non sono poche le ragioni che, a determinate condizioni, possono rendere una pena inopportuna nonostante la sussistenza degli altri requisiti della tipicità, della antigiuridicità e della colpevolezza.
Si va da ragioni politico-criminali in senso stretto (si pensi alla desistenza volontaria di cui all’art. 56 c. 3 c.p.) a ragioni politiche di clemenza (si pensi alla amnistia); da ragioni di politica internazionale (si pensi alle causa di non punibilità previste per gli agenti diplomatici) fino a ragioni di tutela e salvaguardia dell’unità familiare (si pensi proprio all’art. 649 c.p.).
In tutte queste ipotesi il ragionamento è il medesimo: il legislatore compie una valutazione tra i diversi interessi in gioco preferendo non punire l’autore di un reato per salvaguardare l’interesse superiore.
In termini analoghi anche Antolisei, il quale – pur schierandosi tra i sostenitori della teoria tripartita e non tra quelli della quadripartita come Marinucci e Dolcini – osserva come la punibilità altro non sia che l’applicabilità della pena: la possibilità giuridica di irrogare una sanzione. Le cause di esclusione della punibilità, pertanto, senza impedire l’esistenza del reato, fanno sì che dal reato non sorga l’effetto che d’ordinario ne deriva: l’applicabilità della pena.
Esempio tipico ne è proprio l’art. 649 c.p. il quale sancisce la non punibilità di chi ha commesso – senza violenza – la gran parte dei delitti contro il patrimonio ai danni di un familiare.
Art. 649 – Non punibilità e querela della persona offesa, per fatti commessi a danno di congiunti
Non è punibile chi ha commesso alcuno dei fatti preveduti da questo titolo in danno:
1. del coniuge non legalmente separato;
2. di un ascendente o discendente o di un affine in linea retta, ovvero dell’adottante o dell’adottato;
3. di un fratello o di una sorella che con lui convivano.
I fatti preveduti da questo titolo sono punibili a querela della persona offesa, se commessi a danno del coniuge legalmente separato , ovvero del fratello o della sorella che non convivano coll’autore del fatto, ovvero dello zio o del nipote o dell’affine in secondo gradocon lui conviventi.
Le disposizioni di questo articolo non si applicano ai delitti preveduti dagli artt. 628, 629 e 630 e ad ogni altro delitto contro il patrimonio che sia commesso con violenza alle persone.
Al fine di comprenderne la ratio la domanda che ci si deve porre è la seguente: “Tra l’interesse dello Stato a perseguire una fattispecie di reato non violento contro il patrimonio e l’interesse alla salvaguardia della famiglia quale deve prevalere? E’ opportuno punire l’autore del reato in questi casi oppure è più opportuno sancirne la non punibilità per evitare che il processo e la applicazione della pena producano un danno irreversibile all’integrità della famiglia?”
Venendo ora alla pronuncia in esame, la Corte di Cassazione ha affermato che la causa di non punibilità in questione permane nei confronti dell’affine in linea retta anche nel caso in cui la persona offesa cui inerisce l’affinità sia divorziata dal coniuge di collegamento e vi sia prole.
Questi i fatti: nell’ambito di un procedimento penale per usura ex art. 644 c.p. il p.m. emetteva decreto di sequestro di un assegno bancario tratto dalla parte offesa; il Tribunale per il riesame, pur riconoscendo il fumus e il periculum, revocava tuttavia il sequestro ritenendo sussistente la causa di non punibilità ex art. 649 c.p. in quanto il reato era stato consumato tra affini in primo grado, atteso che l’indagato era il padre dell’ex coniuge della persona offesa.
Ad avviso del tribunale, infatti, in conformità ai principi civilistici espressi dall’art. 78 c.c., il divorzio intervenuto tra i coniugi non fa venire meno il rapporto di affinità, che cessa solo con la declaratoria di nullità del matrimonio o con la sua invalidità originaria. Ricorreva per Cassazione il p.m. deducendo violazione dell’art. 649 c.p., sostenendo che il divorzio scioglie il matrimonio facendo venir meno il rapporto di affinità.
La Corte, dopo aver osservato che nel codice nulla si dispone per il coniuge divorziato – lacuna spiegale con la promulgazione del codice penale in epoca anteriore alla legge sul divorzio – prosegue richiamando la sentenza della Corte Costituzionale n. 299 del 1998 con la quale era stata dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 649, comma 2, c.p., in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui, prevedendo la procedibilità a querela per i delitti contro il patrimonio commessi in danno del coniuge legalmente separato, non stabilisce la medesima regola per il caso di reato commesso in danno del coniuge divorziato: nel caso di specie si era reputata non irragionevole la diversità di disciplina poiché fondata su situazioni fra loro non assimilabili, sicché non vi sarebbe alcuna violazione del principio di uguaglianza o di pari trattamento se il coniuge divorziato non gode delle guarentigie previste per il coniuge separato.
Ciò posto, i giudici passano ad analizzare le conseguenze dello scioglimento del matrimonio riguardo agli affini.
Il divorzio – afferma la Corte – non esplica, infatti, alcuna efficacia nei riguardi dei discendenti in linea retta, per i quali continuano ad avere piena efficacia le guarentigie dell’art. 649 c.p., stante la tutela accordata dalla legge alla parentela, sempre più stringente a seconda dell’intensità del vincolo di sangue che lega le persone: tale principio vale, naturalmente, anche nei confronti degli affini in linea retta.
Del resto – si osserva – «il collegamento con i coniugi divorziati resta attivo per la qualità di ascendenti (nonni) che gli affini conservano nei confronti dei loro discendenti in linea retta (nipoti), rapporto che non viene intaccato dall’eventuale divorzio; i nonni mantengono il rapporto di affinità con i coniugi divorziati attraverso la prole di questi ultimi».
In conclusione, la Cassazione ha affermato il seguente principio: «la causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p. per l’affine in linea retta permane anche nel caso in cui la persona offesa (genero o nuora) cui inerisce l’affinità sia divorziata dal coniuge di collegamento e vi sia prole».
Nel caso di specie, pertanto, correttamente è stata applicata la causa di non punibilità in esame: l’imputato era accusato di usura in danno dell’affine in linea retta, divorziato dal consanguineo di collegamento ma con prole derivante dal matrimonio.
I precedenti sul punto non sono numerosi: si veda, tra i pochi, Cass. Pen., Sez. II, 8 aprile 2010, n. 19668, in C.E.D. Cass. n. 247119 secondo cui, in tema di reati contro il patrimonio, il rapporto di affinità tra autore e vittima del reato che fonda la causa di non punibilità ovvero la procedibilità a querela di cui all’art. 649 cod. pen. non opera allorché sia morto il coniuge da cui l’affinità stessa deriva e non vi sia prole.