Non c’è peculato nel caso di indebita gestione, da parte dell’appaltatore, di somme pubbliche
Cassazione Penale, Sez. VI, 8 ottobre 2013 (ud. 5 giugno 2013), n. 41579
Presidente Garribba, Relatore Ippolito
Depositata l’8 ottobre 2013 la pronuncia numero 41579 della sesta sezione penale in tema di peculato.
L’imputato – all’epoca dei fatti direttore responsabile e delegato alla gestione del centro di accoglienza per immigrati “Regina pacis” – era stato assolto in primo grado dal reato di peculato “perché il fatto non sussiste” dalla accusa di essersi appropriato «mediante fittizie operazioni contabili» di notevoli somme di denaro nell’ambito di convenzioni che il prefetto di Lecce aveva stipulato, fra il gennaio 1997 e il dicembre 1999, con la Onlus Arcidiocesi del capoluogo salentino: convenzioni con cui lo Stato si era impegnato a finanziare l’attività di accoglienza ed assistenza in favore degli immigrati clandestini.
In accoglimento dell’impugnazione del Procuratore della Repubblica di Lecce, la Corte d’appello ha però condannato il ricorrente per il reato di peculato alla pena di quattro anni di reclusione, con interdizione perpetua dai pubblici uffici: pur riconoscendo, alla pari del giudici di primo grado, che il rapporto instaurato tra la Prefettura e la Curia arcivescovile andava ricondotto allo schema contrattuale dell’appalto di servizi di cui all’art. 1665 c.c., e che non sussisteva alcun vincolo di destinazione alle somme erogate dalla Prefettura alla Curia, la Corte territoriale ha tuttavia ritenuto che la condotta dell’imputato è ugualmente qualificabile in termini di peculato, avendo avuto ad oggetto denaro “altrui”, in quanto appartenente alla Curia arcivescovile.
Proponeva ricorso per Cassazione l’imputato lamentando erronea applicazione dell’art. 522 c.p.p., per avere la Corte territoriale ritenuto un fatto (appropriazione o distrazione di denaro in assenza di qualsiasi vincolo di destinazione) diverso da quello originariamente contestato (appropriazione o distrazione di denaro avente destinazione pubblica) e dell’art. 314 c.p., per avere i giudici erroneamente ritenuto la qualificazione soggettiva pubblicistica del L. nel momento in cui egli disponeva del denaro, già entrato nel patrimonio dell’Arcidiocesi.
La Corte di Cassazione ha condiviso la tesi del giudice di primo grado – secondo cui la disposizione del denaro appartenente alla Curia Arcivescovile poteva configurare altra ipotesi di reato – e, pertanto, ha annullato senza rinvio la sentenza per insussistenza del fatto.
Ad avviso dei giudici della Suprema Corte, in particolare, in tema di opere pubbliche non è configurabile il delitto di peculato, ma altre fattispecie delittuose, nella condotta di indebita gestione e destinazione, da parte dell’appaltatore, di somme di provenienza pubblica, la cui ricezione costituisca il pagamento, da parte dell’ente pubblico appaltante, del corrispettivo per l’attività di fornitura di un servizio o per l’esecuzione di un contratto.
In tal caso, infatti, il denaro perde la propria caratteristica di altruità all’atto della corresponsione all’appaltatore, che ne può pertanto disporre in autonomia.
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