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Note minime in tema di retroattività favorevole e mutamenti giurisprudenziali

Il presente articolo, lungi dal voler essere un approfondimento completo e puntuale dell’istituto, vuol semplicemente servire da rassegna delle principali problematiche affrontate dalla giurisprudenza italiana ed europea in merito al cd. principio di retroattività favorevole.

Dopo una breve premessa sulla retroattività favorevole in generale si passerà ad illustrare il tema dei mutamenti giurisprudenziali favorevoli, da più parti indicato come uno degli argomenti più interessanti ed attuali – anche in ottica concorsuale – degli ultimi anni. Come di consueto, al termine della breve trattazione, il lettore troverà i link per scaricare i testi delle pronunce richiamate.

Ma procediamo con ordine.
La cd. retroattività favorevole della legge penale è istituto che nei principali manuali di diritto penale viene approfondito nel capitolo dedicato alla efficacia della legge penale nel tempo. Complementare al principio di irretroattività – questo, a differenza del primo, espressamente previsto in Costituzione nell’art. 25 secondo comma – si presenta, per una serie di ragioni, come uno degli istituti più interessanti nell’attuale panorama penalistico.
Senza soffermarsi sul rapporto tra irretroattività e legalità è noto che, mentre il principio di irretroattività è direttamente ricavabile dalla Costituzione, quello di retroattività favorevole non dispone di eguale consacrazione in una precisa disposizione della nostra carta Costituzionale. L’art. 25 c. 2 Cost., infatti, recita “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”.
Trova invece puntuale consacrazione a livello codicistico nell’art. 2 c.p. rispettivamente nel comma 2 (Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali), nel comma 3 (Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell’articolo 135) e nel comma 4 (Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile).
Il comma 2 e il comma 4 si riferiscono a ipotesi di successioni di leggi penali abolitive e modificative; il comma 3 prevede viceversa una deroga alla regola di cui al comma 4 nel caso in cui la legge posteriore preveda solo una pena pecuniaria.
Volendo metterne in luce il rapporto con il principio della intangibilità del giudicato, nelle ipotesi di cui al comma 2 – ossia di leggi abolitive – è la retroattività a prevalere sul giudicato (“se vi è stata condanna ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”); nelle ipotesi di cui al comma 4 – ossia di leggi modificative – è il giudicato a prevalere sulla retroattività (“salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile”).
Abbiamo volutamente ignorato l’art. 2 comma 1 il quale sancisce il principio di irretroattività (“Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato”).
Ciò posto, viene da chiedersi quale sia il rango di tale principio nel panorama delle fonti del diritto penale: rango costituzionale? E, se si, da quale disposizione lo si ricava? (come detto, non dall’art. 25 c. 2)
Anche qui inutile dilungarsi.
Per lungo tempo tale principio è stato ricavato dall’art. 3 Cost. sul fondamento dell’eguaglianza di trattamento: è il principio di eguaglianza – si diceva – che si oppone alla applicazione di una sanzione penale per un fatto che, successivamente, il legislatore non considera più come un reato oppure punisce più lievemente.
Attualmente il principio di retroattività favorevole ha invece parzialmente mutato la sua base giuridica: dopo l’ormai notissima sentenza della Corte di Strasburgo del 17 settembre 2009 nel caso Scoppola c. Italia, esso è oggi ricavato dall’art. 7 CEDU (principio di legalità) e, pertanto, opera come norma interposta ai sensi dell’art. 117 comma 1 della Costituzione (La questione sarebbe senz’altro da approfondire ma si rinvia ai numerosi contributi presenti in dottrina tra i quali, in particolare, M. Gambardella, Il caso Scoppola: per la Corte Europea l’art. 7 CEDU garantisce anche il principio di retroattività della legge penale più favorevole, in Cassazione Penale, 2010, 5, p. 2020).
Prima di approfondire in che maniera tale pronuncia della Corte di Strasburgo sia stata recepita nel nostro ordinamento, un’altra precisazione è doverosa: a differenza di quanto accade per il principio di irretroattività, quello della retroattività favorevole non si presenta come un principio assoluto e inderogabile (“A differenza del principio della irretroattività della norma penale sfavorevole – assolutamente inderogabile – quello di retroattività deve ritenersi suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli“, così testualmente Corte Cost. 394 del 2006). Pertanto, proprio perché per lungo tempo lo si è ricondotto sotto l’orbita dell’art. 3 Cost., se ne è ammessa la sua derogabilità a condizione che la deroga prevista dal legislatore fosse finalizzata a presidiare interessi generali costituzionalmente garantiti di analogo rilievo (sul tema della derogabilità e dei suoi presupposti si rinvia ancora alla citata sentenza della Corte Costituzionale n. 394 del 2006).
Ultimo approdo giurisprudenziale sul tema è, infine, la sentenza della Corte Cost. n. 236 del 2011 con la quale si fa il punto sul rango da riconoscere alla retroattività favorevole nel nostro ordinamento dopo la sentenza Scoppola (per approfondimenti sulla pronuncia si rinvia a F. Viganò, Sullo statuto costituzionale della retroattività della legge più favorevole, in Penale Contemporaneo).

Esaurita questa breve ma necessaria premessa, è il caso di porsi nell’ottica delle questioni più problematiche che sono state affrontate dalla giurisprudenza: ci riferiamo, in particolare, al tema dei mutamenti giurisprudenziali favorevoli.
Nelle monografie sul tema si tende solitamente a qualificare questo aspetto come una delle “problematiche” – non l’unica – inerenti il principio della retroattività favorevole: quella, cioè, se si possa o meno equiparare, sotto il punto di vista del suo operare retroattivamente, una legge favorevole ad un mutamento giurisprudenziale favorevole (si rinvia, per approfondimenti a F. Viganò, Retroattività della legge penale più favorevole, in Treccani, Libro del diritto 2012, Garofoli Treu, p. 153)
Anche in questo caso, l’occasione per una pronuncia da parte della Corte Costituzionale è data dal diritto penale dell’immigrazione e, in particolare, dalla fattispecie di omessa esibizione dei documenti di identità e del permesso di soggiorno da parte dello straniero prevista dall’art. 6, comma 3, del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 (t. u. immigrazione).
Questa disposizione è stata modificata nel 2009 dalla l. 15 luglio 2009, n. 94: prima della riforma veniva sanzionato “lo straniero che, a richiesta degli ufficiali e agenti di pubblica sicurezza, non esibisce, senza giustificato motivo, il passaporto o altro documento di identificazione, ovvero il permesso o la carta di soggiorno“; con la riforma il legislatore ha riformulato la norma incriminatrice sostituendo la congiunzione “ovvero” con la locuzione “e”.
Oggi l’art. 6, comma 3, t.u. imm. sanziona quindi l’inottemperanza all’ordine di esibizione, da parte dello straniero, “del passaporto o di altro documento di identificazione e del permesso di soggiorno o di altro documento attestante la regolare presenza nel territorio dello Stato“.
Risulta evidente come, in seguito alla modifica del 2009, lo straniero debba esibire sia il passaporto o altro documento di identificazione sia il permesso di soggiorno.
Questa modifica legislativa ha fatto sorgere dubbi all’interno della giurisprudenza sull’individuazione del suo ambito di applicabilità: se lo straniero è tenuto ad esibire sia il documento di identità sia il permesso di soggiorno – si diceva – il destinatario di tale norma potrà essere solo lo straniero regolare e non anche quello irregolare; chi è irregolare, infatti, non possiede per definizione alcun documento di soggiorno da poter esibire insieme a quello di identità.
Il contrasto giurisprudenziale sull’individuazione dei destinatari della norma incriminatrice (straniero regolare o anche straniero irregolare) è stato risolto dalle sezioni unite con la sentenza Alacev del 2011 (per approfondimenti: G. L. Gatta, Inottemperanza del clandestino all’ordine di esibire i documenti: davvero abolitio criminis?, in Dir. Pen e Proc., 2011, 11, p. 1348; P. Piccialli, Mancata esibizione del documento da parte dello straniero “clandestino”: non è più reato, in Corriere Merito, 2011, 7, p. 733 nonchè alle osservazioni di G. Santalucia in Cassazione Penale, 2011, doc. 947.1) : il reato in questione – osservano i giudici – è configurabile soltanto nei confronti degli stranieri regolarmente soggiornanti nel territorio dello Stato e non anche degli stranieri in posizione irregolare, a seguito della modifica dell’art. 6, comma terzo, D. Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recata dalla L. 15 luglio 2009, n. 94, che ha comportato una “abolitio criminis“, ai sensi dell’art. 2 c.2 cod. pen., della preesistente fattispecie per la parte relativa agli stranieri in posizione irregolare.
Ciò detto, in seguito al pronunciamento delle sezioni unite viene proposto ex art. 673 c.p.p. un incidente di esecuzione al fine di ottenere la revoca di una sentenza definitiva di condanna pronunciata a carico di uno straniero irregolare. Il tribunale, constatata l’impossibilità di applicare direttamente l’art. 2 c.p. o l’art. 673 c.p.p. ha ritenuto la lacuna di tutela incompatibile con una serie di parametri costituzionali e convenzionali (si veda l’ordinanza del Tribunale di Torino del 27 giugno 2011) e ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 673 c.p.p nella parte in cui non prevede una ipotesi di revoca conseguente a mutamento giurisprudenziale favorevole.
Fin troppo evidente la peculiarità di questa situazione: in tal caso ad operare retroattivamente non sarebbe una legge, bensì un mutamento giurisprudenziale favorevole; la valutazione di irrilevanza del fatto, cioè, dipenderebbe non da una modifica normativa o da una pronuncia della Corte Costituzionale (le due ipotesi cui fa riferimento l’art. 673 c.p.p.), bensì da un intervento delle sezioni unite.
Deve ulteriormente essere precisato, a scanso di equivoci, che il caso sottoposto alla attenzione del giudice remittente non poteva essere ricondotto al fenomeno della successione di leggi penali nel tempo: il fatto giudicato con la sentenza della cui revoca si discuteva era stato commesso, infatti, circa un anno dopo l’entrata in vigore della nuova legge sull’omessa esibizione del documento di identità e del permesso di soggiorno. Non di successione di leggi penali nel tempo si poteva parlare ma, semmai, di successione nel tempo di diverse interpretazioni giurisprudenziali della stessa legge.
Queste, brevemente, le considerazioni svolte dal giudice remittente: l’art. 673 c.p.p. così formulato violerebbe innanzitutto l’art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza e della eguaglianza di trattamento: due persone che hanno commesso lo stesso fatto – si osserva – rischierebbero di essere trattate in maniera diversa solo per un diverso ordine di trattazione dei processi (si pensi a due soggetti, Tizio e Caio, che commettono lo stesso fatto lo stesso giorno in due città diverse: Tizio viene giudicato dal tribunale di Milano quando ancora le Sezioni Unite non si sono pronunciate e viene condannato; Caio viene giudicato a Roma dopo il pronunciamento delle Sezioni Unite e viene assolto); violerebbe l’art. 13 Cost. perché preferirebbe ragioni di tutela dell’ordinamento a precise esigenze di libertà della persona; violerebbe l‘art. 25 c. 2 Cost. sotto il punto di vista della retroattività favorevole della normativa penale di favore e violerebbe l’art. 27 c. 3 Cost. poiché in ipotesi del genere l’esecuzione della pena non avrebbe alcuno scopo, né rieducativo, né retributivo, né di prevenzione generale o speciale.
Sul versante convenzionale, in virtù del richiamo di cui all’art. 117 c.1 Cost., la norma si porrebbe in contrasto anche con le disposizioni di cui agli articoli 5, 6 e 7 della CEDU: in particolare – si osserva – l’art. 7 c.1 CEDU, oltre a sancire implicitamente anche la retroattività della norma favorevole, farebbe riferimento non alla espressione “legge”, bensì al termine “diritto” lasciando così intendere di volersi riferire tanto al diritto di produzione legislativa quanto al diritto di formazione giurisprudenziale; si aggiunga, inoltre, che la CEDU si rivolge sia a paesi di civil law sia a paesi di common law.
Evidente la portata pratica di tali argomenti: non è un caso che autorevolissima dottrina, prima ancora che si pronunciasse la Corte Costituzionale, abbia avuto modo di osservare che “se da un lato potrebbe apparire consequenziale estendere alla nozione di “diritto vivente” la regola della retroattività favorevole in ragione della sua riconosciuta capacità di innovare una certa disciplina normativa, e quindi ben può dirsi che la disposizione legale viva nel significato normativo attribuitole dalla dimensione giurisprudenziale (anche per evitare di correre il rischio che sia poi la Corte di Strasburgo, la quale come noto ha una concezione del “diritto” tradizionalmente aperta al formante giurisprudenziale anche in materia penale, a censurare un’eventuale decisione contraria del giudice nazionale) dall’altro lato, tuttavia, più arduo è accettare l’idea che la sua morte possa essere certificata – con una pretesa che non può che essere assoluta – dall’overruling giurisprudenziale che determinerebbe una vera e propria abolitio criminisOgnun vede come qui sono in gioco i limiti reciproci dei poteri dello Stato” (F. Palazzo, Correnti superficiali e correnti profonde nel mare delle attualità penalistiche (a proposito della retroattività favorevole), in Dir. Pen. e Proc., 2012, 10, 1173)

La Corte Costituzionale, con la pronuncia numero 230 del 2012, ha ritenuto la questione ammissibile ma, nel merito, non fondata. Vediamo perché. (Per approfondimenti sulla pronuncia si rinvia a S. Furfaro, Il mito del giudicato e il dogma della legge: la precarietà della certezza giuridica, in Archivio Penale, 2013, n. 2)

Innanzitutto, ad avviso della Consulta la presunta violazione dell’art. 3 Cost. è da ritenersi non fondata in quanto deve tenersi a mente che l’orientamento delle Sezioni Unite – il quale aspira ad acquisire stabilità – possiede una efficacia essenzialmente “persuasiva”: a differenza di una legge abrogativa o di una declaratoria di illegittimità costituzionale, infatti, una pronuncia delle sezioni unite rimane pur sempre suscettibile di essere disattesa in qualunque tempo con il solo onere di una adeguata motivazione. E’ più volte accaduto – prosegue la Corte – che singole sezioni della Cassazione abbiano dato impulso a mutamenti di giurisprudenza prima sostenuti da sezioni unite. Per consentire il superamento dell’intangibilità del giudicato, in altri termini, il legislatore richiede una vicenda modificativa che possieda quei connotati di “generale vincolatività” e “intrinseca stabilità” che nel caso di mutamento giurisprudenziale non sussistono.
Quanto all’art. 25 c. 2 Cost., i giudici costituzionali ribadiscono quanto già affermato nella sentenza n. 236 del 2011: la retroattività favorevole, per giurisprudenza costante, non trova riconoscimento nell’art. 25 c.2 Cost. ma nell’art. 3 Cost. e, per le ragioni sopra esposte, non può essere considerato principio assoluto ed inderogabile. Inoltre – si prosegue – risulterebbe in ogni caso assorbente la considerazione che il principio di retroattività favorevole attiene solo alla successione di “leggi” e non anche alla successione di orientamenti giurisprudenziali.
Quanto alle presunte violazioni di cui agli artt. 13 e 27 c.3 Cost., esse cadono con la stessa premessa concettuale su cui poggiano, ossia la premessa secondo cui la consecutio tra diversi orientamenti giurisprudenziali equivalga ad una operazione di creazione di nuovo diritto: così facendo si attribuirebbe al giudice l’esercizio di una funzione legislativa.
Per ciò che riguarda, infine, le censure riguardanti il contrasto con le norme della CEDU ci si concentra sull’art. 7  c.1 osservando, primariamente, come risulterebbe sufficiente osservare come la Corte di Strasburgo mai, fino ad oggi, abbia enunciato il corollario secondo cui un mutamento giurisprudenziale favorevole possa dar luogo alla rimozione di sentenze passate in giudicato. A Straburgo mai si è riferito il principio di retroattività della lex mitior ai mutamenti giurisprudenziali. Semmai, i giudici europei si sono occupati dei mutamenti giurisprudenziali solo con riferimento al diverso principio della irretroattività dell’indirizzo giurisprudenziale sfavorevole ove la nuova interpretazione non rappresenti una evoluzione ragionevolmente prevedibile della precedente giurisprudenza.
Inoltre – prosegue la Corte – deve ribadirsi la differenza di ratio tra il principio della irretroattività della legge sfavorevole e quello della retroattività favorevole: la prima rappresenta uno strumento di garanzia corollario del più generale principio di legalità e vuole assicurare l’esigenza di calcolabilità delle conseguenze giuridico-penali della propria condotta; la seconda, viceversa,  risponde al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, non presentando alcun collegamento con la libera autodeterminazione individuale.
La legge successiva – così come un successivo mutamento di giurisprudenza – sopravviene al momento in cui l’autore si è autodeterminato a compiere un determinato fatto e, di conseguenza, non può incidere su quella “calcolabilità” delle conseguenze cui si riferisce la irretroattività.
Per queste ragioni la Corte Costituzionale ha ritenuto la questione non fondata.