Reato di immigrazione clandestina: un sintetico punto di situazione
A quattro anni dalla sua introduzione (con legge 94/2009), il reato di ingresso e soggiorno illegale degli stranieri in Italia di cui all’art. 10 bis T.U. 286/98 fa di nuovo parlare di sé.
Superate le perplessità di molti osservatori all’indomani della creazione di questa nuova ipotesi di reato (comunemente definita come “di immigrazione clandestina”) e superato anche lo scoglio dello scrutinio di costituzionalità in seguito a diverse pronunzie della Consulta (ricordiamo qui la sentenza n. 250/2010, e le ordinanze n. 84 del 2012, n. 149, n. 86 e n. 3 del 2011 e n. 253 del 2010), il reato in esame sconta ora il crescente disagio – emerso anche in sede politica – in ordine alla sua permanenza e applicazione, soprattutto in concomitanza con il rinnovarsi, ancor più drammatico che in passato, di arrivi dei cosiddetti barconi della speranza dalle coste nordafricane alle acque territoriali italiane e agli approdi di Lampedusa e della Sicilia meridionale e orientale: simili vicende, infatti, non si caratterizzano solo per il tragico destino cui spesso va incontro il carico umano di quelle carrette del mare (un carico fatto anche di donne, di vecchi, di bambini, di neonati), ma anche per il destino dei superstiti, una volta giunti in territorio italiano: nei confronti di costoro – è il caso dei sopravvissuti al naufragio di poche settimane fa a Lampedusa, in cui hanno perso la vita centinaia di migranti – può infatti scattare l’iscrizione nel registro notizie di reato in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 10 bis D.Lgs, 286/98. Un destino beffardo, se si vuole. Ma sovente un atto dovuto, in quanto, a stretto rigore, al momento dell’arrivo in Italia costoro si trovano spesso nelle condizioni indicate dalla norma incriminatrice, in quanto sprovvisti di documenti e di titoli per il regolare ingresso e per la legittima permanenza sul nostro territorio. Tanto è bastato, ad esempio, a far aprire, nei confronti degli immigrati scampati a una tragedia della portata di quella di Lampedusa, il procedimento penale avanti il giudice di pace.
Ciò ha indotto molti a riconsiderare la possibilità di espungere dall’ordinamento questa ipotesi di reato così criticata e impopolare.
Curiosamente, forse per approssimazione giornalistica, le dichiarazioni di contrarietà al reato di immigrazione clandestina inneggiano in molti casi all’abrogazione della “legge Bossi-Fini”, che sarebbe alla base non solo del reato in esame, ma più in generale dell’inasprimento del trattamento, non solo sanzionatorio, nei confronti degli stranieri clandestini in Italia. In realtà la legge Bossi-Fini (ossia la n. 189/2002) non c’entra nulla. Essa aveva sì apportato alcune modifiche al testo originario del decreto legislativo n 286/1998 (testo unico sull’immigrazione); ma si trattava di modifiche che, salvo qualche aumento di pena e altri effetti di impatto piuttosto circoscritto, non intaccavano l’impianto generale della normativa sugli immigrati. E soprattutto, la maggior parte delle novità che erano state introdotte con la legge 189/2002 è stata poi superata dalla già citata legge n. 94/2009, ossia proprio dalla legge che ha introdotto il reato di immigrazione clandestina.
A parte l’indignazione umanitaria di fronte all’attivazione di procedimenti penali nei confronti di persone scampate a tragedie come quella di Lampedusa, va detto che le maggiori perplessità, anche in sede politica, riguardano l’effettiva utilità della repressione penale del fenomeno della clandestinità.
Attualmente, l’immigrato sottoposto a procedimento penale avanti il giudice di pace viene sottoposto a un procedimento di tipo speditivo (per molti versi simile a quello per direttissima) avanti il giudice di pace: in caso di condanna, l’alternativa è fra un’ammenda compresa fra € 500 ed € 10.000 e l’espulsione dal territorio dello Stato quale sanzione sostitutiva, subordinata al rispetto delle indicazioni contenute nell’art. 7 della direttiva della Comunità Europea n. 115 del 2008 e, di conseguenza, alla verifica della sussistenza del concreto pericolo di fuga o del pericolo per la sicurezza e l’ordine pubblico ovvero della presentazione di una domanda di soggiorno fraudolenta (Cass. Sez. 1, n. 23892 del 17/05/2013 – dep. 03/06/2013, Siqueira, Rv. 255801).
Di fatto, però, le sanzioni restano in larga parte inapplicate: è difficile ipotizzare che uno straniero clandestino sia nelle condizioni economiche per pagare un’ammenda del genere (lo straniero irregolare non è quasi mai titolare di beni aggredibili dall’Agenzia delle Entrate); ma, anche quando vi sono le condizioni per procedere all’espulsione, si ripropongono le vecchie difficoltà operative e finanziarie che già ne caratterizzavano l’attuazione prima del 2009 e che tuttora rendono l’esecuzione delle espulsioni (non solo quelle previste come strumento sanzionatorio, ma anche quelle in via amministrativa) un problema di difficile soluzione.
Recenti dati ISMU indicano che solo il 28% dei clandestini rintracciati viene rimpatriato; quanto ai soggetti destinatari di denuncia per il reato di clandestinità, solo un denunciato su cinque viene espulso dal Paese. Anche fra i soggetti trattenuti nei CIE la percentuale di quelli allontanati dall’Italia è alquanto bassa, circa il 38%.
I sostenitori dell’utilità di perseguire penalmente la semplice condizione di clandestinità sono soliti richiamare, su un piano comparatistico, le previsioni sanzionatorie introdotte in altri ordinamenti europei nei quali il reato di clandestinità esiste e, in alcuni casi, in alternativa alla pena pecuniaria o a sanzioni espulsive, esso è addirittura punito con la reclusione (es. in Germania, o nel Regno Unito, o in Francia: per un punto di situazione si veda il pregevole elaborato di CHIARI A., “Clandestinità” e diritto penale. Il reato e l’aggravante di immigrazione illegale (Università di Parma, pp. 279 ss.).
Sul piano dialettico, sebbene molti esprimano riserve su tali scelte di politica criminale, ritenute in contrasto con le indicazioni dell’Unione Europea e della Corte di Giustizia di Lussemburgo, l’argomento è senza dubbio suggestivo; ma non si può fare a meno di ricordare che siffatte previsioni vanno calate nella realtà sociale e nell’esperienza giudiziaria dei Paesi in cui esse sono state introdotte, e che la criminalizzazione di una condotta – posto che la si ritenga davvero utile sul piano generalpreventivo – ha un senso solo se si è in condizioni di assicurare efficacia e anche sostenibilità alla corrispondente disciplina sanzionatoria. Basti pensare a cosa accadrebbe se nel nostro Paese la clandestinità fosse punita, anche solo in via alternativa, con la reclusione o con l’arresto: verrebbe ulteriormente alimentato in modo copioso un flusso in entrata negli istituti di pena che è già estremamente elevato e che ha portato il nostro circuito carcerario al collasso, determinando condizioni di degrado all’interno delle carceri che ci sono valse, com’è noto, la condanna della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10).
Senza addentrarci in considerazioni di carattere metagiuridico, sociologico o umanitario circa la condivisibilità o meno della cosiddetta cultura dell’accoglienza (si fronteggiano su questo versante coloro che puntano il dito contro le potenzialità criminogene della clandestinità, e coloro che invece vedono, nell’immigrazione dai Paesi del Terzo mondo, una vera e propria risorsa), conviene affrontare il discorso su un piano più strettamente ordinamentale, con un occhio al funzionamento del sistema.
Il mantenimento in essere del reato di cui all’art. 10 bis del testo unico sull’immigrazione si giustificherebbe, come scelta di politica criminale, solo se le sanzioni per esso previste fossero caratterizzate da requisiti di effettività e di deterrenza. Ma così non è perché, come si è accennato, sono ben pochi gli stranieri irregolari in grado di pagare l’ammenda stabilita per il reato; e per altro verso l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione (che, come pure si è detto, sono di più specie: misura di sicurezza nei casi di cui all’art. 235 c.p., sanzione sostitutiva per il reato in esame o nelle ipotesi di cui all’art. 16 del testo unico, provvedimento amministrativo nei casi di cui all’art. 13 del T.U., eccetera) resta legata a una serie di condizioni che, in troppi casi, risultano all’atto pratico oltremodo problematiche, sia per la frequente difficoltà di destinare lo straniero espulso verso il Paese d’origine o altro Paese che lo accolga, sia per le difficoltà di ordine organizzativo (si pensi all’identificazione dei clandestini e alla loro destinazione ai C.I.E., anch’essi ormai ridotti in condizioni estremamente problematiche), sia infine per i consueti problemi finanziari che ostacolano la predisposizione della filiera che conduce all’espulsione.
Questo naturalmente non vuol dire che la politica criminale verso il fenomeno dell’immigrazione di stranieri irregolari vada totalmente smantellata; basti pensare che lo stesso testo unico punisce le ipotesi di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, legate a condotte criminose spesso realizzate in forma organizzata e sottese alla commissione di crimini ancor più gravi e odiosi, spesso basati sullo sfruttamento delle persone.
Tuttavia, la discussione a proposito del mantenimento o dell’eliminazione della risposta criminale alla semplice condizione di irregolarità sul territorio elude il problema principale e generale, costituito dall’impossibilità di combattere efficacemente il fenomeno con l’arma della repressione penale, laddove sarebbe di molto preferibile e anzi necessario (benchè estremamente complesso sul piano geopolitico, per un Paese come il nostro che si affaccia sul Mediterraneo ed è di regola il primo approdo possibile per i migranti dall’Africa e dal Medio Oriente) affrontare la questione sul piano della politica internazionale e, contemporaneamente, dell’organizzazione interna, in funzione sia preventiva (in riferimento ai flussi di clandestini e ai modi per prevenire quanto più possibile il fenomeno, possibilmente “a monte”), sia espulsiva (in riferimento alla necessità di ampliare e concretizzare le possibilità di rendere effettivi i provvedimenti di espulsione laddove previsti e legalmente adottati).