ARTICOLIDIRITTO PENALEParte generale

Causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p.: non basta il mero timore di danneggiare un prossimo congiunto

Cassazione Penale, Sez. VI, 4 ottobre 2013 (ud. 17 settembre 2013), n. 41092
Presidente Milo, Relatore Capozzi

Depositata lo scorso 4 ottobre la sentenza numero 41092 della sesta sezione relativa alla speciale causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p.

Ai sensi del primo comma di tale disposizione – rubricata “casi di non punibilità” e collocata all’interno del titolo dedicato ai delitti contro la amministrazione della giustizia – nei casi previsti dagli articoli 361, 362, 363, 364, 365, 366, 369, 371-bis, 371-ter, 372, 373, 374 e 378, non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore; ai sensi del secondo comma, nei casi previsti dagli articoli 371-bis, 371-ter, 372 e 373, la punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto essere richiesto di fornire informazioni ai fini delle indagini o assunto come testimonio, perito, consulente tecnico o interprete ovvero non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque a rispondere o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere informazioni , testimonianza, perizia, consulenza o interpretazione.

Tale disposizione, come è noto, è da tempo al centro di un vivace dibattito tanto giurisprudenziale quanto dottrinale: alla tesi secondo cui andrebbe inquadrata tra le cd. scusanti (o cause di esclusione della colpevolezza) poiché presupporrebbe un giudizio di inesigibilità nei confronti della condotta posta in essere dal soggetto attivo, si contrappone quell’orientamento in base al quale – trattandosi di un’ipotesi speciale rispetto allo stato di necessità di cui all’art. 54 c.p. – si avrebbe a che fare con non con una scusante, bensì con una scriminante (o causa di giustificazione) che inciderebbe, in quanto tale, sull’elemento della antigiuridicità (non sfuggirà al lettore come questo tema non sia certo privo di conseguenze rilevanti da un punto di vista pratico: si pensi, ad esempio, al rapporto tra la causa in questione e  il principio di tassatività).

Nella sentenza che si segnala, tuttavia, la Suprema Corte non affronta il problema relativo alla natura giuridica della causa in questione, bensì quello relativo ai presupposti necessari affinché il soggetto attivo del reato possa andare esente da responsabilità penale pur avendo commesso uno dei menzionati reati contro la amministrazione della giustizia.

In particolare, conformandosi al prevalente orientamento giurisprudenziale, la Corte specifica che l’esimente in questione non può essere invocata sulla base di un mero timore, anche solo presunto od ipotetico, ma occorre un effettivo danno nella libertà o nell’onore, evitabile solo con la commissione di uno dei reati in relazione alla quale l’esimente opera.

Ai fini dell’integrazione dell’esimente – continuano i giudici – è necessario che il pericolo non sia genericamente temuto ma sia collegato a circostanze obiettive, attuali e concrete che ne delimitino con precisione contenuto ed effetti.

Applicando questo principio al caso di specie, la Corte ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità nei confronti dell’imputato che aveva reso le dichiarazioni oggetto di incriminazione in quanto riteneva che, altrimenti, avrebbe danneggiato la posizione processuale della moglie, già sottoposta ad indagini in ordine al reato di favoreggiamento personale, sfociate in provvedimento di archiviazione e che – altrimenti – avrebbero potuto essere riaperte; nel caso di specie, cioè, devono essere riconosciute quella concretezza e specificità del pericolo di nocumento per la libertà e l’onore incombente sul prossimo congiunto in ragione del quale l’imputato ha tenuto la condotta criminosa ascrittagli.

Redazione Giurisprudenza Penale

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