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Principio di offensività e reati in materia di stupefacenti – Cass. Pen. 40620/2013

Cassazione Penale, Sez. III, 1 ottobre 2013 (ud. 4 luglio 2013), n. 40620
Presidente Squassoni, Relatore Amoresano

Con la pronuncia numero 40620 della terza sezione penale – depositata il 1° ottobre scorso – la Suprema Corte è tornata a fare il punto sull’operatività del principio di offensività in tema di stupefacenti.
E’ noto come il settore degli stupefacenti sia uno degli ambiti con riferimento ai quali la giurisprudenza di legittimità si è più volte confrontata con il principio di necessaria offensività e, al suo interno, attenzione è stata riservata alle fattispecie di coltivazione e cessione di sostanze stupefacenti ex art. 73 d.p.r. 309/90.
Nel caso di specie, l’imputato – trovato con un pacchetto di sigarette contenente due involucri di anfetamina – era stato assolto in primo grado dal reato di cui all’art. 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art.73 commi 1 e 1 bis, perchè il fatto non sussiste in quanto gli esiti delle analisi chimico-tossicologiche avevano attestato come il quantitativo di anfetamina (pari o inferiore a 0,1 mg) fosse di gran lunga inferiore alla soglia drogante. Ricorreva per Cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello denunciando la violazione ed erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 1 bis.

I giudici della terza sezione, nel ritenere il motivo fondato, hanno preso posizione nuovamente sul tema del rapporto tra principio di necessaria offensività e reati in materia di stupefacenti richiamando, preliminarmente, una recente pronuncia nella quale si era affermato che “ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 è necessario dimostrare, con assoluta certezza, che il principio attivo contenuto nella dose destinata allo spaccio, o comunque oggetto di cessione, sia di entità tale da poter produrre in concreto un effetto drogante” (v. Cass. pen. Sez. VI, 22-01-2013, n. 8393, rv. 254857).
Questo orientamento – affermano i giudici – recentemente ha ricevuto un autorevole avallo da una decisione delle Sezioni unite che, in materia di coltivazione non autorizzata di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, ha stabilito che il giudice deve comunque verificare in concreto l’offensività della condotta, cioè l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile (v. Sez. un., 24 aprile 2008, n. 28605, Di Salvia).
In particolare, la Corte ricorda come la decisione delle sezioni unite appena richiamata abbia precisato – richiamando la giurisprudenza della Corte costituzionale (sent. n. 360/1995 e n. 296/1996) – che il principio di offensività opera su un duplice piano: quello della previsione normativa – sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo (offensività in astratto) – e quello dell‘applicazione giurisprudenziale – quale criterio interpretativo applicativo affidato al giudice, tenuto ad accettare che il fatto di reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato (offensività in concreto).
Valorizzando proprio l’accezione concreta del principio di offensività si osserva come il giudice debba verificare se la condotta contestata sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico protetto risultando in concreto inoffensiva, sicchè se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile la condotta deve ritenersi non offensiva.
Tali principi – precisano i giudici – seppure affermati in materia di coltivazione non autorizzata, si proiettano necessariamente sull’intera disciplina degli stupefacenti, investendo, in particolare, la fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, tipico esempio di reato di pericolo.
In conclusione, per i reati in materia di stupefacenti, che pongono in pericolo – in forme più o meno incisive – la salute degli assuntori, è essenziale la dimostrazione della probabilità di un evento lesivo, attraverso la dimostrazione dell’efficacia drogante della sostanza. Sicchè, nel caso in cui l’offensività in concreto accertata dal giudice si riveli inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta “perchè la indispensabile connotazione di offensività in generale di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto la offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a rifluire nella figura del reato impossibile” (così Corte cost. n. 360/1995).

Applicando tali principi al caso di specie si osserva, di conseguenza, come, pur dovendosi dimostrare che la sostanza stupefacente abbia idoneità a produrre un effetto drogante, non è necessario il raggiungimento della soglia drogante per la configurazione della fattispecie criminosa di detenzione a fini di spaccio. Il reato di cessione di sostanze stupefacenti sussiste, pertanto, anche in relazione a dosi inferiori a quella media singola di cui al D.M. 11 aprile 2006, con esclusione soltanto di quelle condotte afferenti a quantitativi di stupefacente talmente tenui da non poter indurre, neppure in maniera trascurabile, la modificazione dell’assetto neuropsichico dell’utilizzatore” (v. Cass. Pen. sez. 4 n. 21814 del 12.5.2010).
Il mancato superamento della soglia drogante è, quindi, irrilevante ai fini della configurazione del reato, trattandosi di parametro finalizzato soltanto a stabilire un criterio per riferire la detenzione all’uso personale.

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Redazione Giurisprudenza Penale

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