ARTICOLIDALLA CONSULTA

Riserva di legge e pronunce in malam partem della Corte Costituzionale – Corte Cost. 5/2014

Corte Costituzionale, 23 gennaio 2014, sentenza numero 5
Presidente Silvestri, Relatore Lattanzi

Depositata il 23 gennaio la pronuncia numero 5 del 2014 della Corte Costituzionale nel giudizio di legittimità costituzionale relativo all’abrogato reato di associazione militare per scopi politici.
Questa, in breve, la vicenda: il d. lgs. 66 del 2010 – all’art. 2268, comma 1, n. 297 – aveva abrogato il d. lgs. 43 del 1948 portando alla abolizione della disposizione che vietava le associazioni di carattere militare per scopi politici. Nel dicembre del 2010 il Tribunale di Verona sollevava questione di legittimità costituzionale del citato art. 2268 in riferimento all’art. 76 Cost. (il decreto in questione sarebbe, anzitutto, in contrasto con la Costituzione per la mancanza di una espressa delega al governo), all’art. 18 Cost. (il quale proibisce proibisce le associazioni che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare) e all’art. 25, secondo comma, Cost. (in quanto la scelta di depenalizzazione del fatto sarebbe stata compiuta surrettiziamente dal Governo e non dal Parlamento, al quale viceversa spetta il monopolio sulle scelte incriminatrici).
Con la sentenza che si segnala i giudici costituzionali hanno dichiarato illegittima tale abrogazione, di fatto provocando il ripristino nel nostro ordinamento del reato di associazione militare per scopi politici.

La questione affronta, in generale, il delicato tema del rapporto tra il rispetto del principio della riserva di legge in materia penale e il divieto di decisioni in malam partem della Corte Costituzionale. Più in particolare, si affronta il tema del divieto di decisioni in malam partem nei giudizi di legittimità costituzionale sollevati con riferimento all’art. 76 Cost. (eccesso di delega).
E’ noto, infatti, che il principio dell riserva di legge in materia penale – nell’assegnare al legislatore il monopolio normativo penale – costituisca un limite generale (al quale sono, tuttavia, previste alcune deroghe cui si farà cenno) a quelle pronunce della Corte Costituzionale da cui derivi un effetto sfavorevole: alla Corte Costituzionale, in altri termini, non è soltanto vietato creare nuove incriminazioni, ma anche estendere quelle esistenti a casi non previsti o incidere in modo peggiorativo sulla risposta punitiva.
Si tratta, infatti, di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalità del legislatore con riferimento ai quali la Corte Costituzionale invaderebbe il campo delimitato dall’art. 25 c. 2 Cost.
Venendo ora alla pronuncia in esame, ciò che va chiarito è il rapporto tra il divieto di pronunce in malam partem e la figura dell’eccesso di delega di cui all’art. 76 Cost.
Come osservato da autorevole dottrina, infatti, in presenza di un cattivo esercizio dello strumento della delega, il principio della riserva di legge non impedisce lo scrutinio di costituzionalità e, pertanto, la Corte può giudicare sulla conformità al parametro costituzionale della norma abrogratice senza che il canone di cui all’art. 25 comma 2 Cost. gli precluda di far tornare in vigore la norma incriminatrice abrogata (si rinvia sul punto a M. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Giappichelli, 2013, pp. 125 ss).

La Corte Costituzionale nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione in questione ha fatto il punto su quanto appena anticipato.
Il difetto di delega denunciato dai giudici rimettenti – osserva la Consulta – comporterebbe un esercizio illegittimo da parte del Governo della funzione legislativa. L’abrogazione della fattispecie criminosa mediante un decreto legislativo, adottato in carenza o in eccesso di delega, si porrebbe, infatti, in contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al Parlamento, in quanto rappresentativo dell’intera collettività nazionale, la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, precludendo al Governo scelte di politica criminale autonome o contrastanti con quelle del legislatore delegante. Se si escludesse il sindacato costituzionale sugli atti legislativi adottati dal Governo anche nel caso di violazione dell’art. 76 Cost., si consentirebbe allo stesso di incidere, modificandole, sulle valutazioni del Parlamento relative al trattamento penale di alcuni fatti.
Pertanto, quando, deducendo la violazione dell’art. 76 Cost., si propone una questione di legittimità costituzionale di una norma di rango legislativo adottata dal Governo su delega del Parlamento, il sindacato di questa Corte non può essere precluso invocando il principio della riserva di legge in materia penale.
In tal caso – conclude la Consulta – la verifica sull’esercizio da parte del Governo della funzione legislativa delegata diviene strumento di garanzia del rispetto del principio della riserva di legge in materia penale e non può essere limitata in considerazione degli eventuali effetti che una sentenza di accoglimento potrebbe produrre nel giudizio a quo.
Il rischio sarebbe – come già rilevato in altre occasioni da questa Corte – di creare zone franche dell’ordinamento, sottratte al controllo di costituzionalità, entro le quali sarebbe di fatto consentito al Governo di effettuare scelte politico-criminali, che la Costituzione riserva al Parlamento, svincolate dal rispetto dei principi e criteri direttivi fissati dal legislatore delegante, eludendo così il disposto dell’art. 25, secondo comma, della stessa Costituzione.
Riprendendo quanto già detto dalla Corte Costituzionale nella pronuncia n. 28/2010, occorre allora distinguere tra il controllo di legittimità costituzionale, che non può soffrire limitazioni, se ritualmente attivato secondo le norme vigenti, e gli effetti delle sentenze di accoglimento nel processo principale, che devono essere valutati dal giudice rimettente secondo i principi generali che reggono la successione nel tempo delle leggi penali.

Un’ultima precisazione è tuttavia doverosa.
Il caso di specie non deve essere inquadrato nel tema relativo al sindacato di legittimità costituzionale sulle cd. norme penali di favore.
Infatti, la disposizione di cui si occupa la Consulta – come del resto specificato dalla stessa Corte (v. pag. 4 della sentenza) – non è qualificabile comenorma penale di favore” (per cosa si intenda con tale espressione si rinvia alla pronuncia n. 394/2006; qui basti ricordare che per potersi parlare di “norma penale di favore” è necessaria quella che autorevole dottrina ha definito la “compresenza necessaria” o “specialità di tipo sincronico” tra le norme: è necessario, in altre parole, che le due norme – quella favorevole/speciale e quella sfavorevole/generale – siano presenti nell’ordinamento giuridico nel medesimo momento temporale). E chiaro, infatti, che se le due norme sono contemporaneamente presenti nell’ordinamento, l’eventuale dichiarazione di illegittimità di quella speciale non comporterà alcuna “invasione di campo” da parte della Corte Costituzionale nei confronti del Legisaltore: in questo caso, non si espanderebbe l’area del penalmente rilevante e, quindi, non si avrebbe alcuna violazione della riserva di legge in materia penale.
Ebbene, nel caso di specie questa compresenza non vi è non essendovi alcuna norma incriminatrice – presente nell’ordinamento – con riferimento alla quale questa si ponga in un rapporto di specialità (sulla differenza tra “norme penali di favore” e “norme favorevoli” nonchè sul rapporto di sincronia o diacronia nella specialità tra norme ai fini dell’ammissibilità di un sindacato di costituzionalità si rinvia a M. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Giappichelli, 2013, p. 140 nonché alle numerose note di commento alla citata pronuncia 394/2006).