Il ne bis in idem nel processo penale (Tesi di laurea)
Prof. Relatore: Chiara Fanuele
Prof. Correlatore: Gian Marco Baccari
Ateneo: Università degli studi di Siena
Anno accademico: 2010/2011
Ne bis in idem: nessuno può essere sottoposto a processo più di una volta per lo stesso fatto. Questa sembra essere la definizione, al tempo stesso più semplice e corretta, del ne bis in idem, antica formulazione latina che letteralmente significa: “divieto di fare due volte la stessa cosa che riguardi la medesima questione”. Come si può ben capire, questo principio era conosciuto fin dall’epoca del diritto romano, e in particolare, già al tempo delle legis actiones, si parlava di bis de eadem re ne sit actio, col quale si affermava che un diritto, una volta che fosse stato anche solo in iudicium deductum e, anche se non ancora iudicatum, non avrebbe più potuto costituire oggetto di un nuovo procedimento. Il suo campo di applicazione, è da sempre stato quello del processo: civile, penale, amministrativo.
Oggi, sicuramente non si sbaglia se si afferma che esso rappresenti uno tra i più evidenti indici di uno stadio avanzato di civiltà giuridica. Il divieto del ne bis in idem, in particolare, è tipico di un sistema accusatorio, il quale, come sappiamo, prevede che vengano rispettati certi termini, tempi e forme, di cui esso è risultato a ciò conseguente e quasi necessario. Nel metodo inquisitorio classico, invece, ogni conclusione è perfettibile, ad infinitum; e dove manchino premesse adeguate alla condanna, vengono fuori soltanto conclusioni provvisorie e, «l’absolutus ad abservatione iudicii» rimane comunque, perseguibile.
Il principio del ne bis in idem, è stato accolto nel nostro sistema processuale penale, sin dal primo codice di rito unitario del Regno d’Italia, ossia, sin dal codice del 1865, e così, in seguito, è stato successivamente, riaffermato nei codici del 1913, 1930, fino ad arrivare all’ultimo codice di procedura penale vigente, cristallizzandosi, in particolare, all’interno della disposizione dell’art. 649 c.p.p., che dispone: «L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, grado e circostanze, salvo quanto disposto dagli articoli 69, comma 2 e 345».
Ora, l’obiettivo è proprio quello di operare un’analisi, attenta e capillare dell’art. suddetto, per cercare di individuarne il fondamento, capire su quali basi su esso poggia, qual è la sua ratio. Tutto ciò, evidentemente, non può prescindere da un breve excursus storico, circa le origini e successive modificazioni e adattamenti che esso ha conosciuto, fino ad arrivare all’attuale disciplina nel codice di procedura penale vigente. Qui, pertanto, si comincerà proprio col guardare alla collocazione sistematica che il legislatore gli ha riservato, per poi guardare in concreto quali sono i provvedimenti cui esso si riferisce e soprattutto, quale significato dare ai concetti di “medesimo fatto” e “medesima persona”, i quali, certamente rappresentano il punto centrale per proseguire nella nostra indagine. Infine, prenderemo in considerazione anche quelle che sono le eccezioni e limiti che il legislatore ha previsto alla sua applicabilità e operatività. In tutto ciò, ovviamente, cercheremo di seguire le principali teorie e orientamenti interpretativi e applicativi formulati in dottrina e giurisprudenza nel susseguirsi degli anni.
Il primo capitolo, in particolare, tratterà più da vicino il giudicato, da cui evidentemente non si può prescindere. Il ne bis in idem, infatti, è un effetto del giudicato e, anzi, secondo qualcuno, esso costituisce in assoluto, l’unico effetto del giudicato penale. Ora, sulla scorta di questa teoria, evidentemente, il rischio che si corre è proprio quello di confondere i due istituti o meglio, di sovrapporli: ma così facendo – si è detto- si finisce per scambiare l’effetto con la causa. Il ne bis in idem mira, infatti, a garantire non quella certezza oggettiva consistente nel fatto che si possa prevedere in anticipo la valutazione giuridica dei comportamenti possibili, bensì una certezza meramente soggettiva, in quanto il giudicato penale, così delineato nell’art. 649 c.p.p., costituirebbe « un espediente pratico che sottrae il singolo ad una teoricamente illimitata possibilità di persecuzione penale». Da qui, la distinzione tra c.d. giudicato sostanziale e giudicato formale, di cui si tratterà più ampiamente sempre nel primo capitolo, in cui, cercheremo, tra l’altro, di individuarne l’essenza, la natura, i limiti e l efficacia che da esso ne derivano e, più in particolare si prenderanno in esame i due concetti chiave di “autorità di cosa giudicata” e “irrevocabilità” delle sentenze, dai quali sembrerebbe, proprio discendere l’operatività del ne bis in idem. L’auctoritas della cosa giudicata penale imporrebbe, infatti, quale vincolo “negativo”, la preclusione di qualsiasi nuovo giudizio de eadem re: in altre parole, esso obbliga i giudici a non pronunciarsi nuovamente in ordine alla questione già decisa, qualora il successivo giudizio riguardi lo stesso fatto e la stessa persona.
In ultimo, spostandoci su un piano più propriamente operativo, ci si propone di vedere come, il suddetto divieto in esame, venga, concretamente, applicato. Perché, se è vero quanto si è detto finora, ossia che, divieto di un secondo giudizio, implica il fatto che un soggetto, condannato o prosciolto in un precedente giudizio, per un determinato fatto di reato, non possa più essere sottoposto ad un nuovo procedimento penale, per quello stesso fatto; c’è allora, da chiedersi: come opera questo istituto rispetto a forme di manifestazione del reato strutturalmente complesse e articolate, quali il concorso di reati, il reato complesso, reato progressivo, abituale, permanente e continuato? e quale, l’operatività del ne bis in idem, rispetto a ipotesi di reati, realizzati alternativamente da più condotte fungibili, le quali, però, non danno luogo a concorso di reati (ad esempio, reati di bancarotta, o le fattispecie, così chiamate dalla dottrina, di fatto antecedente e successivo non punibili)? Perché è chiaro che rispetto ad ipotesi di reato semplice, l’operare del ne bis in idem non crea particolari problemi. Ma, quello che, invece, noi ci chiediamo è questo: cosa succede se, dopo che un soggetto sia stato condannato o assolto per uno dei reati da lui commessi in concorso con altri, questi ultimi vengano scoperti, soltanto dopo che ci sia stata sentenza su quei fatti precedentemente dedotti in giudizio?
Oppure, cosa succede, se dopo una sentenza di condanna, pronunziata nei confronti di una persona ritenuta colpevole di aver violato più volte la stessa disposizione di legge in esecuzione di un medesimo disegno criminoso, vengano scoperte altre infrazioni della stessa disposizione, commesse dall’identico autore, ancor prima della sentenza e, sempre in esecuzione di quello stesso progetto criminoso (del quale erano espressione anche quelle altre violazioni precedentemente accertate e per le quali l’autore era stato già giudicato)?
Dovranno, queste, esser considerate assorbite nella precedente sentenza oppure accertata questa seconda alternativa, l’imputato, già una volta condannato, sarà giudicato come se la nuova serie criminosa fosse del tutto indipendente dalla precedente e perciò condannato ad una nuova ed autonoma pena sia pure nei limiti di cui agli artt. 71 e ss. (richiamati dall’art. 81 c.p.)? e ancora, cosa significa “medesimo fatto”, rispetto all’ipotesi di reato complesso o permanete, piuttosto che abituale, e così per tutte le altre ipotesi di manifestazione di reato prese in esame?