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In tema di truffa contrattuale a prestazioni equivalenti – Cass. Pen. 5501/2014

Cassazione Penale, Sez. II, 4 febbraio 2014 (ud. 9 ottobre 2013), n. 5501
Presidente Esposito, Relatore Taddei, P. G. D’Ambrosio

La massima

La truffa contrattuale a prestazioni equivalenti richiede, per il suo perfezionamento, il danno economico patrimoniale in capo al soggetto passivo. L’opposta opinione, che ritiene sufficiente il momento della stipula del contratto, non va accolta in quanto tramuta la truffa in un reato di attentato alla libertà di consenso della vittima nei negozi patrimoniali e di mero pericolo per l’integrità del patrimonio di questa, operando una inammissibile dilatazione dell’ambito di applicazione della norma incriminatrice; quest’ultima, invece, espressamente richiede uno specifico ed effettivo danno di indole patrimoniale, ovvero un reale depauperamento economico del soggetto passivo del reato, nella forma del danno emergente o del lucro cessante.

Il commento

1. Tizio cede a Caio la propria azienda, completa di arredi ed attrezzature, tacendo[1] alla controparte contrattuale che alcuni arredi sono soggetti a pignoramento, ed inserendo nel testo del contratto la clausola per cui le posizioni debitorie esistenti prima della cessione dell’azienda rimangono a carico del cedente anche se scoperte successivamente alla stipula del negozio. Solo una parte del prezzo pattuito viene versata dall’acquirente, il quale, avendo scoperto l’esistenza delle celate procedure, sporge denuncia-querela. Il giudice di prime cure e la Corte Territoriale condannano Tizio – il primo a pena detentiva e pecuniaria, la seconda alla sola pena pecuniaria – per il delitto di truffa (art. 640 cod. pen.), fondando le pronunzie sulla consumazione dell’illecito, in quanto è stato stipulato un contratto che, in assenza di silenzio sull’esistenza di circostanze “patologiche”, non sarebbe stato concluso (o sarebbe stato concluso a condizioni migliori per l’acquirente); rileva – inoltre – il Giudice d’Appello che la clausola relativa alla responsabilità per debiti potesse apparire alla vittima dell’inganno più come una formula di stile che come una pattuizione avente carattere funzionale.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 5501/2014, contrasta tali assunti, ricostruendo il momento consumativo della fattispecie di truffa, sub specie di truffa contrattuale a prestazioni equivalenti. I Supremi Giudici sottolineano altresì che la clausola sulla responsabilità per debiti, inserita dal cedente, è sintomatica dell’assenza dell’intento fraudolento, con l’effetto di escludere il dolo di truffa.
Omettendo la pur rilevante analisi che la Corte riserva all’elemento soggettivo, in questa sede si tenterà di analizzare la questione del momento consumativo della truffa contrattuale a prestazioni equivalenti, e più precisamente la necessità che un danno effettivo al patrimonio si verifichi al fine di ritenere configurata l’ipotesi criminosa.

2. Detta fattispecie si configura quando l’agente, attraverso l’attività ingannatoria – frequentemente consistita nel silenzio maliziosamente serbato -, spinge la vittima a siglare un contratto alla cui stipula, in assenza di induzione in errore, non sarebbe pervenuta, e che, pur avendo per oggetto prestazioni reciproche ispirate a proporzione ed equità, è inidoneo a fornire qualsivoglia utilità al soggetto passivo, a causa delle circostanze taciute[2].
Si è sostenuto[3] che tale tipo di truffa sia una figura particolare rispetto alla fattispecie ordinaria ex art. 640 c.p.[4], in quanto è destinata a consumarsi con la mera stipula del contratto da parte della vittima, a differenza della truffa ‘ordinaria’, che si consuma: con il danno effettivo al patrimonio di quest’ultima, se esso si verifica contestualmente al profitto in capo all’agente; con l’ultimo evento in senso cronologico tra danno e profitto, qualora essi siano temporalmente “sfalsati”[5].
Non deve negligersi, infatti, che, secondo i più recenti ed accreditati orientamenti giurisprudenziali e dottrinali (concezione c.d. giuridico – economica[6]), il patrimonio è il complesso di beni aventi valore economico, rientranti nella titolarità di un soggetto, e oggetto di situazioni giuridiche soggettive espressamente tutelate dall’ordinamento (o quantomeno non espressamente vietate o considerate irrilevanti), di talché i reati contro il patrimonio – in particolare quelli che richiedono il “danno”, come nel caso della truffa tout court – si consumano solo quando vi è stata una lesione effettiva al patrimonio stesso, cosa che accade quando esso ha subìto una deminutio concreta sub specie di lucro cessante o di danno emergente, non essendo sufficiente una menomazione od una indebita interferenza con una posizione giuridica soggettiva a contenuto patrimoniale.

3. Taluno ha sostenuto che la truffa contrattuale a prestazioni equivalenti costituisca un’eccezione alla regola anzidetta, in quanto, non potendo la vittima subire un danno economico effettivo al proprio patrimonio, stante il contemperamento tra la prestazione dovuta e quella a costei destinata, l’offensività della condotta del reo sia da rinvenire (già) al momento della carpita stipula del contratto[7], in quanto è in tale momento che l’attività del decipiens causa una lesione alla libera capacità della controparte di autodeterminarsi nei rapporti negoziali.
La Corte di Cassazione, con pronunzie recenti[8] confortate dalla sentenza in commento, ha superato l’assunto, attraverso le stesse motivazioni che avevano consentito, in passato, di criticare la concezione giuridica di ‘patrimonio’ e di addivenire a quella economica (poi evoluta nella tesi ultima giuridico – economica): i Supremi Giudici richiedono – ai fini della consumazione di qualsiasi tipologia di truffa – che si siano in concreto verificati un danno economico al patrimonio della vittima, secondo i medesimi connotati precedentemente chiariti, ed una locupletatio[9] effettiva a vantaggio del reo.
Non può considerarsi sufficiente la stipula del contratto, in quanto ciò snatura il reato di truffa[10] (in generale, i reati con cooperazione della vittima), tramutandolo in delitto di pericolo contro il patrimonio. Infatti, punire il decipiens che ha carpito il solo assoggettamento al regolamento contrattuale significa sanzionarlo non per il danno prodotto al patrimonio, quanto per aver generato un pericolo che tale danno si possa poi verificare.
Peraltro, stante l’inutilità del contratto per la vittima, il suo disagio psicologico e pratico non è molto difforme da quello in cui si trova il truffato con un contratto a prestazioni sproporzionate (e qui non si dubita che il momento consumativo richieda il danno effettivo), in quanto l’apparente compensazione generata dalla prestazione altrui, a cui la vittima ha formalmente diritto, è in realtà priva di fondamento: tale prestazione è inidonea a soddisfare un bisogno personale del deceptus, ed è dunque considerabile tamquam non esset, avendo rilevanza per l’ultimo soggetto citato solo l’essersi obbligato a realizzare una propria prestazione che non avrebbe mai compiuto se non fosse stato tratto in errore.

4. La domanda che allora ci si pone, stante la sostanziale identità (in punto di consumazione ed in punto di patimento effettivo della vittima) tra truffa ordinaria e truffa contrattuale ‘al giusto prezzo’, è se la seconda possa riferirsi anche ai casi di dolus incidens, cioè alle ipotesi in cui, se la vittima fosse stata edotta di tutte le circostanze utili, avrebbe comunque stipulato ma ad un prezzo inferiore.
La questione, infatti, pare essere risolta dalla manualistica più accreditata nel senso negativo: la categoria citata fa riferimento ai soli casi di dolus causam dans, senza il quale il contratto non sarebbe stato affatto stipulato.
In realtà, nella sentenza qui annotata[11] è possibile riscontrare una velata ricostruzione della Corte d’Appello, la quale, pur trattando il caso come truffa contrattuale a prestazioni equivalenti, ammette la possibilità che la vittima avrebbe potuto stipulare a condizioni più favorevoli, qualora a conoscenza del pignoramento (deve intendersi: a prestazioni sproporzionate, ma con sproporzione che avvantaggia il soggetto passivo). In altri termini, se la proporzione formale equivale a sostanziale sproporzione, a riequilibrare il tutto serve la sproporzione formale a favore di chi pativa un danno dalla falsa equità pre-esistente.
Così argomentando, scaturisce che l’elemento fondante la categoria in parola è l’apparente equità delle prestazioni, artatamente ingenerata dagli astuti silenzi (o dalle fuorvianti informazioni) dell’autore dell’illecito, essendo irrilevante che il dolo si atteggi come dolus causam dans o come dolus incidens.
Una tesi di tal fatta è al contempo criticabile in quanto rischia di degenerare in una (si perdoni il gioco di parole) “truffa delle etichette”.
Si tratta, sostanzialmente, di “fotografare” definitivamente la particolarità di un fatto illecito: se la truffa contrattuale a prestazioni equivalenti è quel tipo di truffa per cui ha avuto senso parlare ad oltranza (tesi ora superata) dell’offesa consistita nella lesione (dell’an) della libertà negoziale, tanto da esserci chiesti se il momento consumativo potesse coincidere eccezionalmente con la stipula del contratto, allora non vi si può contemplare l’ipotesi in cui l’attività ingannatoria ha inciso sul quantum della capacità di autodeterminazione, pena un semplicistico riversamento di questa particolare tipologia di truffa nella categoria generale.
L’etichetta di “truffa contrattuale a prestazioni equivalenti” va quindi affibbiata alla figura criminosa che presenta i seguenti caratteri:
a) Un’attività ingannatoria che produce una caduta in errore;
b) La stipula di un contratto, discesa dalla caduta in errore;
c) Detto contratto deve avere per oggetto prestazioni reciproche eque, ma la prestazione del reo deve risultare totalmente inutile[12] per l’ingannato, a causa di quanto celato o fraudolentemente comunicato dall’agente;
d) L’errore come condicio sine qua non rispetto alla stipula.
e) La concreta deminutio patrimonii in danno alla vittima.
Nel caso in cui quanto indicato alla lettera d) non abbia luogo, dovrà parlarsi di truffa ‘comune’, o tutt’al più di truffa contrattuale a prestazioni eque (ma) in senso lato.
A prescindere da quale tesi si sostenga, non può non notarsi il diverso ‘ruolo’ della prestazione del reo nella truffa tout court e nella truffa contrattuale ‘al giusto prezzo’.
Nella truffa contrattuale a prestazioni eque, il reo adempierà ben volentieri, atteggiandosi la sua prestazione a momento “fisiologico” della truffa. In altri termini, il reo è sempre indirizzato a fornire la propria prestazione poiché è proprio nell’adempimento che si cela l’inganno.
Nelle altre ipotesi di truffa, può di frequente accadere che sia – al contrario – l’inadempimento ad atteggiarsi come elemento strutturale dell’illecito, ad esempio nelle ipotesi in cui il reato consista sin dall’inizio nell’ottenere la prestazione altrui senza fornire la propria.
Ciò porta anche a dire che la truffa contrattuale a prestazioni equivalenti può sempre “convertirsi in corso d’opera” in una truffa ‘ordinaria’: es. Tizio tace alcune circostanze fondamentali per Caio durante la stipula di un contratto a prestazioni reciproche eque, ma, dopo che Caio ha adempiuto, “scappa con la cassa”.
In questo caso, strutturalmente la fattispecie era ab initio in grado di conformarsi alla tipologia “truffa contrattuale a prestazioni equivalenti”, ma in itinere si è “mutata” in truffa ‘ordinaria’, in quanto, fermo restando che la consumazione si verifica nel momento della deminutio patrimonii per qualsiasi tipo di truffa, nel caso in parola l’offesa non è consistita nella prestazione inutile, quanto nella prestazione radicalmente omessa.

5. In questa sede si coglie l’occasione per riflettere sull’esistenza di una particolare tipologia contrattuale la cui sola stipula può permettere di considerare il reato di truffa consumato: dovrebbe trattarsi del contratto reale, il quale si perfeziona con la datio rei. Può quindi accadere che la stipula-dazione sia eziologicamente connessa all’attività ingannatoria del decipiens, il quale ha ab initio intenzione di non adempiere all’obbligo di restituzione.
In questo caso, dunque, non può dirsi che il danno economico concreto sia irrilevante e che valga la sola stipula: al contrario, può asserirsi che la consumazione coincida con la mera stipula del contratto, in quanto è già con essa che si verificano il depauperamento effettivo del patrimonio in senso sostanziale della vittima ed il profitto per il truffatore.
L’eventuale scadenza pattuita dalle parti per la restituzione non dovrebbe influire ai fini della consumazione del reato, quanto – tutt’al più – ai fini della “scoperta” dello stesso da parte della vittima. In tale momento, cioè, il deceptus realizza che il reato è stato perpetrato ai suoi danni.
Non può però, contestualmente, annoverarsi detta ipotesi nella particolare categoria della truffa contrattuale a prestazioni equivalenti, in quanto – come già argomentato in precedenza – questo tipo di truffa necessita, per configurarsi, che le prestazioni siano eque (o quantomeno non manifestamente sproporzionate), e la prestazione resa dal reo si riveli inutile per il ricevente in virtù di quanto a lui taciuto. Nel caso in parola mancherebbe proprio l’attuazione della contro-prestazione da parte del decipiens: non si tratta di prestazione inutile, ma di prestazione a monte inadempiuta, il che dà sempre vita all’ipotesi di truffa ‘ordinaria’.
Altresì, mentre nella truffa contrattuale a prestazioni equivalenti occorre che la prestazione del reo sia inutile per la vittima, è fantasioso immaginare che la restituzione della res le possa risultare priva di utilità.
Il caso della truffa in contratto reale (pur vedendo inserite nel regolamento negoziale prestazioni corrispettive eque) può dunque solo rientrare nella più generica categoria della truffa ‘contrattuale’, cioè nella truffa tout court che avvenga mediante l’uso di un contratto.


[1] Il raggiro può infatti avvenire anche mediante il silenzio su circostanze determinanti, da parte di chi era giuridicamente tenuto a renderle note. In tal senso, Cass. pen. sent. n. 208/2002.
[2] FIANDACA – MUSCO, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale, vol. II, tomo II, Bologna, 2008, 185. L’Autore, p. 185, sub nota 33, evidenzia come di truffa non possa affatto discutersi allorché il bene, oltre che economicamente equivalente, è in qualche modo utile per l’acquirente raggirato, in quanto in tal caso non può evincersi alcun tipo di danno.
[3] Si veda VIOLA, “Ingiusto profitto e danno altrui nella c.d. truffa contrattuale” in Diritto&Diritti, § “Il danno nella truffa contrattuale e tempus commissi delicti”.
[4]  La prima “stranezza” è proprio rinvenibile nel fatto che lo stesso alveo normativo (art. 640 cod. pen.) sarebbe in grado di ospitare due tipi di truffa che seguono regole diverse rispetto ai concetti di patrimonio e di danno, e rispetto al momento consumativo.
[5] FIANDACA – MUSCO, op. ult. cit., 191-192.
[6] Per una autorevole disamina sul passaggio storico tra concezione giuridica, concezione economica e concezione giuridico-economica, si veda FIANDACA – MUSCO, Diritto penale – Parte speciale, Vol. II, Tomo II, “I delitti contro il patrimonio”, V ed., Bologna, 2008, 23 e ss.
[7] Cass. pen., sez. II, 12 ottobre 1983 (ud. 15 aprile 1983), n. 8216, in LATTANZI, Codice Penale Annotato, Varese, 2013, sub. art. 640 c.p., 1840. Nello stesso senso, Cass. pen., sez. II, 23 dicembre 1997, Marrosu.
[8] Cass. pen., sez. II, 17 gennaio 2008, n. 7181, citata in R. GAROFOLI, Manuale di Diritto Penale – Parte Speciale, Tomo III, V ed., Lecce, 2013, 171; contra, Cass. pen., sez. II, 29.10.2008, n. 47623, Del Prete.
[9] L. DELPINO, Diritto penale – Parte speciale, XVIII ed., Napoli, 2011, 690. Ricorda l’Autore che sulla tematica del profitto vi è un dibattito, in quanto taluno (Antolisei) sostiene che il profitto possa essere “depatrimonializzato”, mentre altri (Marini) ritengono che danno e profitto condividano la natura patrimoniale.
[10] Snaturando anche lo stesso concetto di “danno”, il quale verrebbe conformato alla risalente teoria “giuridica”.
[11] Paragrafo 2.3. del “Considerato in diritto”.
[12] Non si verifica la truffa contrattuale a prestazioni equivalenti quando la prestazione ricevuta dalla vittima non è per questa inutile, e ciò avviene: 1) quando la prestazione ha effettivamente l’utilità pattuita; 2) quando, pur non presentando l’utilità pattuita, la prestazione può essere utilizzata in maniera alternativa totalmente compensativa della utilità persa.

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