Omicidio preterintenzionale ed omicidio volontario – Cass. Pen. 14647/2014
Cassazione Penale, Sez. I, 28 marzo 2014 (ud. 12 marzo 2014) n. 14647
Presidente Giordano, Relatore Bonito, P.G. Iacoviello
Massima
Il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale risiede nel fatto che nel secondo caso la volontà dell’agente esclude ogni previsione dell’evento morte, mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’ “animus necandi”, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi desunti dalle concrete modalità della condotta.
Il commento
1. Tizio percuoteva Caio per un lasso di tempo consistente (circa un’ora), con colpi assestati alla testa ed al volto. Dopo l’allontanamento dell’aggressore, la vittima veniva trasportata in ospedale, dove decedeva successivamente a causa delle lesioni cerebrali e, in particolare, della frattura della fossa cranica anteriore destra.
I giudici di merito si pronunziavano in maniera concorde, condannando (per quanto qui di interesse) l’imputato alla pena della reclusione per omicidio volontario, suscitando dunque le doglianze della difesa, che ricorreva per cassazione lamentando la scorretta esclusione dell’ipotesi di omicidio preterintenzionale ex art. 584 cod. pen.
La Corte di Cassazione si allinea – nella sentenza 14647/2014 – non solo con i verdetti processuali scaturiti dai precedenti gradi di giudizio, quanto anche e soprattutto coi principi di diritto espressi dal Giudice della nomofilachia costantemente negli anni, in tema di discrimine tra omicidio preterintenzionale ed omicidio volontario.
2. La prima figura criminosa citata si fonda sui seguenti elementi costitutivi: a) una condotta volta a ledere/percuotere; b) l’evento morte; c) il nesso causale tra la condotta dell’agente e l’esiziale evento; d) l’assenza di previsione dell’esito mortale e (dunque) l’insussistenza del fattore volitivo rispetto ad esso. Si aggiunga, poi, che secondo i più recenti orientamenti non v’è la necessità di accertare la prevedibilità della morte, in quanto essa è da considerare assorbita nel dolo di lesioni/percosse (in tal senso, Cass. pen. 27161/2013; sia consentito il rinvio, per osservazioni critiche alla tesi dell’assorbimento della prevedibilità nel dolo del reato base, al mio commento a Cass. Pen. 50557/2013, “Versari in re illicita e rispetto della regola cautelare”, in questa Rivista).
La seconda figura criminosa si regge – al contrario – sul c.d. “animus necandi”, vale a dire sulla volontà di uccidere la vittima (che accompagna necessariamente la rappresentazione dell’evento morte), da ricostruire mediante l’attenta lettura delle circostanze obbiettive che caratterizzano il contesto in cui ha avuto luogo l’illecito (es. la violenza della condotta, la sua reiterazione, le zone vitali del corpo attinte dalla vis che l’agente pone in essere).
Il nucleo problematico della questione consiste nell’essere la produzione dell’evento morte generalmente connessa ad una condotta ex se idonea a generare lesioni o percosse: in altri termini, naturalisticamente la morte discende proprio dalle attività di ledere e percuotere (la pugnalata alla zona vitale in primo luogo lede; il colpo “secco” alla testa con corpo contundente in primo luogo percuote), che si atteggiano come ordinarie condotte strumentali al raggiungimento dell’evento più grave.
A ciò consegue che l’analisi ermeneutica dovrà tendere verso il rinvenimento (o, al contrario, verso l’esclusione) della previsione dell’evento “morte”. In altri termini, è fondamentale verificare se, in base alle circostanze fattuali inerenti alla condotta, possa asserirsi che l’agente abbia previsto detto evento.
3. Nel caso in cui l’agente abbia previsto la morte della vittima, è regola normalmente seguita in dottrina ed in giurisprudenza quella che rinviene per conseguenza diretta la sussistenza della volontà di uccidere, trovandosi il reo in un contesto a base illecita (“versari in re illicita”) fondato sul compimento di un reato-base (lesioni, percosse). Si asserisce, più precisamente, che, ogni qualvolta l’agente si trovi già calato in un fenomeno criminoso e mentalmente “faccia i conti” con un evento diverso e/o ulteriore rispetto a quello preventivato, egli si troverà quantomeno in dolo eventuale nei riguardi di tale esito. Dunque, una volta accertata l’avvenuta previsione dell’evento, il grado del dolo avente ad oggetto quest’ultimo si configura, generalmente, come dolo “diretto” o come dolo “eventuale”, nei casi in cui il reo fosse orientato verso un fine principale diverso dal procurare la morte, sicché quest’ultima rappresenta un effetto collaterale ed accessorio della condotta, pur non disvoluto dall’agente.
Il discrimine tra dolo diretto e dolo eventuale andrà ricercato mediante il normale criterio intellettivo fondato sul grado di rappresentazione dell’evento: secondo alcuni la probabilità di verificazione dà origine al dolo diretto mentre la mera possibilità afferisce al dolo eventuale; secondo altri, lo stesso dolo eventuale può caratterizzarsi per la possibilità/probabilità che l’evento venga cagionato, sicché il dolo diretto si configura quando la probabilità è elevata o confinante/coincidente con la certezza.
Qualora il reo abbia previsto l’evento morte e l’abbia voluto come obiettivo principale della propria condotta, il dolo raggiungerà il grado massimo di “dolo intenzionale”.
Se – diversamente – l’agente non ha previsto la morte, pur trovandosi nel contesto a base illecita funzionalizzato ai reati base di lesioni o di percosse, opererà l’articolo 584 c.p. (omicidio preterintenzionale).
Giova nuovamente evidenziare che ai distillati ermeneutici testé menzionati dovrà addivenirsi mediante l’attenta lettura delle circostanze probatorie emerse durante il giudizio.
4. Alcune osservazioni finali, prima di concludere, possono risultare utili.
In primo luogo, si noti come, nel caso in cui la morte derivi da una condotta teleologicamente volta a ledere/percuotere, non residui alcuno spazio operativo per l’omicidio colposo, vertendosi alternativamente nelle ipotesi di omicidio volontario o di omicidio preterintenzionale. La fattispecie colposa ex art. 589 c.p. trova un proprio spiraglio, a ben vedere, solo nei casi in cui già la condotta “a monte” risulti involontaria.
In secondo luogo, balza all’occhio del lettore l’utilizzo – da parte della Corte di Legittimità – di etichette dogmatiche, inerenti le intensità del dolo, che possono trarre in inganno l’operatore giuridico più aduso alle classificazioni tradizionali.
I Supremi Giudici definiscono l’omicidio volontario come l’omicidio retto dall’animus necandi, cioè dal << dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale >>.
Giova allora rimarcare le differenze tra le modalità di catalogazione del dolo utilizzate nel caso concreto dalla Suprema Corte e quelle normalmente adoperate dalla dottrina, ed eventualmente enucleare una via interpretativa per conciliare le parole della Suprema Corte con le categorie tradizionali del dolo .
Generalmente, il dolo viene tripartito in: dolo intenzionale (quando l’evento rappresenta il fine principale dell’autore), dolo diretto (quando l’evento rappresenta un esito accessorio-collaterale rispetto al fine principale dell’autore, ma questi si rappresenta tale esito con alta probabilità o con probabilità confinante con la certezza ed innesta su di esso il profilo volitivo), dolo eventuale (quando, stanti i medesimi presupposti del dolo diretto, l’agente si rappresenta la probabilità-possibilità che l’evento consegua alla propria condotta e, accettando il rischio che esso si verifichi, agisce a costo di cagionarlo subordinando – in un giudizio di bilanciamento – il fine principale proprio al bene giuridico altrui poi risultato leso).
Spesso si sostituisce la formula “dolo intenzionale” con quella di “dolo diretto di primo grado”, con la conseguenza che a mutare è – corrispondentemente – il “dolo diretto”, il quale assume per converso la dicitura di “dolo diretto di secondo grado”.
La sentenza qui annotata utilizza il concetto di dolo intenzionale in maniera probabilmente “atecnica”, o, meglio, sinonimica rispetto alla nozione di dolo tout court. Non si spiega, altrimenti, come la S.C. giunga a considerare il dolo diretto e quello eventuale come gradazioni del dolo intenzionale, il quale rappresenta – ex se – una gradazione di dolo (la forma massima in termini di intensità).
5. Volendo fornire – in conclusione – una sintesi dei casi problematici, posto che l’evento morte è generalmente cagionato mediante condotte (strumentali) di per sé idonee ad integrare le lesioni e/o le percosse, e considerata la costante necessità, in sede ermeneutica, di vagliare il compendio probatorio sostanziatosi nelle circostanze obbiettive che qualificano il fatto criminoso:
- Se l’agente lede/percuote avendo come obiettivo principale la morte, si configura l’omicidio volontario, connotato dal dolo intenzionale (o diretto di primo grado).
- Se l’agente lede/percuote avendo un obiettivo principale diverso dalla morte, e quest’ultima non è prevista né è voluta, si configura l’omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.).
- Se l’agente lede/percuote avendo un obiettivo principale diverso dalla morte ma la lettura del compendio probatorio consente di ritenere avvenuta la previsione dell’evento morte, l’omicidio sarà “volontario” e non “preterintenzionale”, e verrà retto dal dolo diretto (o dolo diretto di secondo grado) o dal dolo eventuale (anche detto dolo “indiretto”).
Nel caso concreto, la Corte di Cassazione conferma la statuizione dei giudici di merito, che avevano rinvenuto – quanto a coefficiente psichico – il dolo alternativo di lesioni o di omicidio, dolo da qualificarsi, per consolidata giurisprudenza, in ogni caso come dolo diretto (o, secondo altro tipo di classificazione, come “dolo diretto di secondo grado”) e mai come dolo eventuale (Dottrina critica l’assunto, ritenendo che il dolo alternativo possa anche assurgere a dolus eventualis, e afferma che la giurisprudenza, considerando il dolo alternativo di tenore pari al dolo diretto, abbia come fine quello di salvare l’applicabilità dell’istituto del tentativo in tutti i casi in cui il coefficiente psichico del reo sia piuttosto quello del dolo eventuale, coefficiente rispetto al quale il tentativo si pone in situazione di assoluta frizione).
Dalle circostanze emerse in giudizio, infatti, la Corte Territoriale aveva evinto una stato psicologico di ‘indifferenza’ del reo nei confronti dell’evento lesioni piuttosto che dell’evento morte, sintomatico di rappresentazione e volontà non solo rispetto al reato meno grave, quanto anche rispetto all’esito più tragico, sicché la fattispecie realizzata rientra correttamente nell’ipotesi di omicidio volontario anziché nella fattispecie meno grave di omicidio preterintenzionale.