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Sul significato dell’espressione “ trovato in possesso ” nell’art. 497-bis (possesso di documenti falsi)

Cassazione Penale, 29 aprile 2014 (ud. 19 marzo 2014), n. 17944
Presidente Marasca, Relatore Caputo

Depositata il 29 aprile 2014 la pronuncia numero 17944 della quinta sezione penale in tema di “possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi” ex art. 497-bis c.p. ai sensi del quale «Chiunque è trovato in possesso di un documento falso valido per l’espatrio è punito con la reclusione da uno a quattro anni».

La questione su cui si sono pronunciati i giudici attiene, in particolare, al significato da attribuire alla espressione “ trovato in possesso ” in una vicenda che ha visto l’imputato condannato perché, in attesa dei soccorsi da lui stesso chiamati dopo esser stato ferito da terzi, aveva gettato in un tombino un documento falso di cui era in possesso; ricorreva, allora, in Cassazione sostenendo che la condotta punita dall’art. 497-bis c.p. richiederebbe la condizione di punibilità rappresentata dall’essere stato l’agente sorpreso in flagranza della situazione prevista.
Prima di illustrare le conclusioni della Corte appare utile, tuttavia, riepilogare il ragionamento seguito dai giudici di appello dal momento che, come si vedrà, i giudici della Cassazione sono giunti alla medesima conclusione impostando il problema in maniera diversa.
La Corte di appello aveva affrontato la questione sostenendo che il disfarsi temporaneamente dei documenti falsi non poteva dirsi equivalente ad un vero spossessamento dal momento che i documenti, più che essere stati buttati, sarebbero stati semplicemente nascosti nel tombino. Secondo i giudici di appello, in particolare, sarebbe stato irragionevole escludere la sussistenza del reato in casi – come quello in esame – nei quali l’agente fosse stato abile o fortunato nel liberarsi dell’oggetto subito prima dell’arrivo delle forze dell’ordine non essendo, di fatto, mai venuta meno la correlazione tra l’agente e il documento falso.

La Corte di Cassazione giunge alla medesima soluzione offrendo una diversa lettura.
E’ un fatto – osservano i giudici – che quando le forze dell’ordine intervennero, l’imputato non era in possesso del passaporto falso: se ne era liberato (non rileva se l’avesse solo nascosto oppure gettato via essendo, questi, propositi ininfluenti). Il ragionamento dei giudici di appello, secondo cui il possesso non poteva dirsi cessato perché il ricorrente aveva l’intenzione di andare a riprendere il passaporto, viene definito un escamotage logico con il quale si è cercato di sovrapporre un dato soggettivo (l’animus dell’imputato) ad uno oggettivo (la perdita di controllo sul passaporto).
Non è questa, dunque, la strada percorribile per ritenere integrata la condotta del reato di cui all’art. 497-bis c.p. Occorre, al contrario, interrogarsi su cosa abbia voluto intendere il legislatore quando ha previsto la punibilità nei confronti di chi «chiunque è trovato in possesso di un documento falso valido per l’espatrio».
Ebbene, si tratta di un delitto che si distingue da altri reati – quale quello di cui all’art. 498 c.p. che sanziona l’uso di atto falso  – dal momento che prescinde dall’esclusione di qualunque forma di concorso nella formazione  e tutela non la genuinità del documento in sé, bensì l’affidabilità dell’identificazione personale. Ciò che rileva, in altri termini, è il mero possesso del documento contraffatto (art. 497 comma 1 c.p.), e non anche l’uso dello stesso, ovvero la materiale falsificazione (art. 497 comma 2 c.p.). La condotta che la norma vuole reprimere è, dunque, la disponibilità di una res prohibita in quanto pericolosa in sé; se, allora, si tratta di una res prohibita – affermano i giudici – non avrebbe alcun senso subordinarne la punibilità alla sorpresa dell’agente in flagrante possesso della stessa anche perché, diversamente ragionando, si farebbe dipendere la sussistenza del reato dalla sua prova con un intollerabile interferenza del momento processale sulla struttura sostanziale dell’illecito penale.

La conclusione offerta dalla Corte passa, dunque, attraverso il riconoscere che l’essere trovato in possesso del documento non può considerarsi come una condizione obiettiva di punibilità.
Non si è, infatti, in presenza di un elemento estrinseco al reato, bensì della condotta stessa che integra la fattispecie contra ius. Invero se, mentalmente, si elimina la condotta di possesso, la condotta stessa del reato svanisce, con la conseguenza che la (pretesa) condizione obiettiva di punibilità non avrebbe una base fattuale cui inerire. Se così non fosse – continuano i giudici – non si comprenderebbe la ratio del secondo comma: non vi sarebbe alcuna logica nel punire chi, pure detenendo non per sé, ma per altri, non sia stato “trovato in possesso” del documento e nel non punire il diretto interessato solo perché, al momento dell’accertamento, non aveva più presso di sé il documento. Con l’art. 497-bis c.p., dunque, il legislatore ha inteso reprimere, in una evidente anticipazione della soglia di punibilità, la stessa disponibilità del documento falso, non diversamente di quel che avviene nell’art. 615-quater c.p. a proposito di detenzione abusiva di codici di accesso a sistemi informatici.

In conclusione, con l’espressione “trovato in possesso” il legislatore non si è voluto riferire al momento della “sorpresa” dell’agente da parte delle forze dell’ordine, ma semplicemente ha voluto (con evidente improprietà espressiva) descrivere la situazione di chi possiede o ha certamente posseduto il falso documento.  L’elemento materiale dell’art. 497-bis c.p., pertanto, non va inteso nel senso che l’agente deve essere colto in flagranza di possesso, bensì nel senso che egli abbia, o abbia avuto, la disponibilità del documento. Non è quindi necessario un rapporto attuale e costante di contiguità fisica della persona con il documento, ma è sufficiente che lo abbia certamente detenuto anche in un momento precedente all’accertamento delle forze dell’ordine.

Il fatto che il soggetto agente si sia liberato del documento prima dell’arrivo delle forze dell’ordine, in altri termini, non può assumere né la forma della desistenza volontaria né quella del ravvedimento operoso: è un mero post factum non punibile diretto ad impedire l’accertamento del reato.

Redazione Giurisprudenza Penale

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