Desistenza volontaria: tra tentativo compiuto e tentativo incompiuto
Cassazione Penale, Sez. I, 14 aprile 2014 (ud. 28 marzo 2014), n. 16274
Presidente Giordano, Relatore Bonito
Con la pronuncia numero 16274, depositata il 14 aprile 2014, la prima sezione penale torna a chiarire l’ambito di operatività della desistenza volontaria di cui all’art. 56 comma 3 c.p.
L’ipotesi di interruzione da parte del reo dell’azione delittuosa intrapresa, ovvero dal suo adoperarsi per impedirne l’evento, è regolata dal codice penale nell’art. 56 c.p., ultimi due commi:
- ai sensi del comma 3, ipotesi nota come desistenza volontaria, «Se il colpevole volontariamente desiste dall’azione, soggiace soltanto alla pena per gli atti compiuti, qualora questi costituiscano per sé un reato diverso»;
- ai sensi del comma 4, ipotesi definita recesso attivo, «Se volontariamente impedisce l’evento, soggiace alla pena stabilita per il delitto tentato, diminuita da un terzo alla metà».
Secondo l’insegnamento tradizionale – afferma la Corte – si ha desistenza quanto l’agente interrompe l’azione delittuosa alla quale aveva dato inizio, mentre si ha recesso attivo allorchè il reo, consumata l’azione tipica del delitto, agisce per impedirne le conseguenze.
Proprio per l’inequivocabile tenore letterale del disposto normativo – continuano i giudici – le due ipotesi in parola sono state collegate alle due forme in cui può atteggiarsi il tentativo ai sensi dell’art. 56 c.p., comma 1, il quale, testualmente, recita: «chi compie atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l’azione non si compie o l’evento non si verifica». Ebbene, quando l’azione non si compie si ha la figura del tentativo incompiuto, se viceversa l’azione si compie ma non si verifica l’evento, ricorre invece la figura c.d. del tentativo compiuto.
Ciò posto, è di palese evidenza che non può logicamente concepirsi la desistenza dall’azione delittuosa se l’azione stessa si è compiutamente definita, si è conclusa, è terminata nel suo sviluppo causale. Può viceversa ipotizzarsi in questo caso, e soltanto in questo caso, l’adoperarsi da parte dell’agente al fine di interrompere il processo di causazione dell’evento voluto come conseguenza della sua azione, ormai compiuta, al fine di impedirne il verificarsi. Di qui la costante lezione ermeneutica di questo giudice di legittimità secondo cui: «in tema di reati di danno a forma libera – come l’omicidio – la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurarle una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l’evento, rispetto ai quali può operare – se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l’evento – la diminuente per il cosiddetto recesso attivo» (Cass., Sez. 1^, 02/10/2007, n. 42749; Cass., Sez. 1^, 23/10/2012, n. 43036, rv. 253616; Cass., Sez. 1^, 28/02/2012, n. 11746, rv. 252259; Cass., Sez. 6^, 09/04/2009, n. 32830, rv. 244602; Cass., Sez. 1^ Sent., 23/09/2008, n. 39293, rv. 241340).
Applicando il richiamato principio di diritto, la Corte ha così ritenuto corretto il diniego da parte della corte territoriale della disciplina di favore di cui all’art. 56 c.p. comma 3 al caso in esame ove – come si legge nelle motivazioni – l’imputato era stato condannato per tentato omicidio aggravato dai futili motivi perchè, in un primo momento, aveva colpito fortemente alla testa la vittima con una morsa da falegname e, subito dopo l’aggressione, aveva provveduto a prestare la prima assistenza alla vittima ed a chiamare il soccorso medico e la polizia.
La Corte ha accolto il secondo motivo di ricorso relativo alla mancata applicazione della diminuente del recesso attivo.
Tale istituto ricorre quando, ad attività criminosa compiuta, e mentre è in svolgimento l’ormai autonomo processo naturale (che è in rapporto necessario di causa ed effetto tra una determinata condotta ed un determinato effetto cui la prima mette capo), l’agente si riattiva, interrompendo tale processo, così da impedire il verificarsi dell’evento (Cass., Sez. 1^, 17/01/1996, n. 7033, Pietrzak; Cass., Sez. I, 08/10/2009, n. 40936). Nel caso di specie si è accertato che l’imputato, immediatamente dopo aver colpito la vittima cagionandone le gravissime lesioni, si adoperò per soccorrerla, per un verso frenando l’emorragia dalle ferite con l’asciugamano bagnato d’acqua avvolto attorno al capo e, per altro verso, altrettanto immediatamente adoperandosi per consentire il pronto intervento dei sanitari e di una ambulanza.
Ciò consenti – conclude la Corte – il ricovero della vittima in ospedale e l’intervento chirurgico in tempi estremamente ravvicinati rispetto all’insorgenza delle patologie come innanzi cagionate e tale comportamento dell’imputato doveva quindi essere preso in considerazione dai giudici del merito per stabilire se ricorrano gli estremi della diminuente di cui all’art. 56 c.p., comma 4.