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L’art. 612-bis c.p. (stalking) non viola il principio di determinatezza

cc_ccecc_UdienzaPubblicaCorte Costituzionale, sentenza n. 172 del 2014
Presidente Silvestri, Relatore Cartabia

Depositate l’11 giugno 2014 le motivazioni della pronuncia numero 172/2014 con cui la Corte Costituzionale ha risolto (ritenendola non fondata) la questione di legittimità costituzionale dell’art. 612-bis c.p. (cd. stalking) promossa dal Tribunale ordinario di Trapani in relazione all’art. 25 comma 2 Cost. sotto il punto di vista del principio di determinatezza delle fattispecie penali.

In breve, secondo il giudice a quo l’impugnata norma incriminatrice non definirebbe in modo «sufficientemente determinato il minimum della condotta intrusiva temporalmente necessaria e sufficiente affinché possa dirsi integrata la persecuzione penalmente rilevante». Inoltre, neppure risulterebbe sufficientemente determinato cosa debba intendersi per perdurante e grave stato di ansia o di paura, così come in alcun modo definiti sarebbero i criteri per stabilire quando il timore debba considerarsi «fondato». Estremamente ampio ed eccessivamente elastico sarebbe poi il concetto di «abitudini di vita», di cui il legislatore non avrebbe perciò sufficientemente individuato i confini. Simile indeterminatezza paleserebbe, quindi, la non manifesta infondatezza della questione in relazione all’art. 25, secondo comma, Cost.

Chiamati a valutare se l’art. 612-bis cod. pen. soddisfi il principio di determinatezza delle fattispecie penali, i giudici hanno ritenuto la questione non fondata.

Secondo la Consulta, in particolare, il fatto che il legislatore, nel definire le condotte e gli eventi, abbia fatto ricorso a una enunciazione sintetica della norma incriminatrice – come avviene, del resto, nella gran parte dei Paesi dove è stata adottata una normativa cosiddetta “anti-stalking” – e non abbia adottato, invece, una tecnica analitica di enumerazione dei comportamenti sanzionati, non comporta, di per sé, un vizio di indeterminatezza, purché attraverso l’interpretazione integrata, sistemica e teleologica, si pervenga alla individuazione di un significato chiaro, intelligibile e preciso dell’enunciato. Come già affermato da questa Corte, l’esigenza costituzionale di determinatezza della fattispecie ai sensi dell’art. 25, secondo comma, Cost., non coincide necessariamente con il carattere più o meno descrittivo della stessa, ben potendo la norma incriminatrice fare uso di una tecnica esemplificativa (sentenze n. 79 del 1982, n. 120 del 1963 e n. 27 del 1961), oppure riferirsi a concetti extragiuridici diffusi (sentenze n. 42 del 1972, n. 191 del 1970), ovvero ancora a dati di esperienza comune o tecnica (sentenza n. 126 del 1971). Il principio di determinatezza non esclude, infatti, l’ammissibilità di formule elastiche, alle quali non infrequentemente il legislatore deve ricorrere stante la «impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a “giustificare” l’inosservanza del precetto e la cui valenza riceve adeguata luce dalla finalità dell’incriminazione e dal quadro normativo su cui essa si innesta» (sentenze n. 302 e n. 5 del 2004).

Più nel dettaglio, in relazione ai diversi elementi che, nella loro combinazione, integrano il reato di cui all’art. 612-bis cod. pen., la Consulta ha osservato che:

  • il concetto di «reiterazione», utilizzato nella norma incriminatrice, chiarisce in modo preciso che sono necessarie almeno due condotte di minacce o molestia. Ciò, tuttavia, non è sufficiente, in quanto le medesime devono anche essere idonee a cagionare uno dei tre eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice. Una tale valutazione di idoneità non può che essere condotta in concreto dal giudice esaminando il singolo caso sottoposto al suo giudizio e tenendo conto che, come ha ripetutamente sottolineato la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenze n. 46331 del 2013 e n. 6417 del 2010), non è sufficiente il semplice verificarsi di uno degli eventi previsti dalla norma penale, né basta l’astratta idoneità della condotta a cagionarlo, occorrendo invece dimostrare il nesso causale tra la condotta posta in essere dall’agente e i turbamenti derivati alla vita privata della vittima.
  • quanto al «perdurante e grave stato di ansia e di paura» e al «fondato timore per l’incolumità», trattandosi di eventi che riguardano la sfera emotiva e psicologica, essi debbono essere accertati attraverso un’accurata osservazione di segni e indizi comportamentali, desumibili dal confronto tra la situazione pregressa e quella conseguente alle condotte dell’agente, che denotino una apprezzabile destabilizzazione della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima. A questo proposito, del resto, anche la giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza n. 14391 del 2012) ha precisato che la prova dello stato di ansia e di paura può e deve essere ancorata ad elementi sintomatici che rivelino un reale turbamento psicologico, ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente, nonché dalle condizioni soggettive della vittima, purché note all’agente, e come tali necessariamente rientranti nell’oggetto del dolo.
  • l’aggettivazione in termini di «grave e perdurante» stato di ansia o di paura e di «fondato» timore per l’incolumità, vale a circoscrivere ulteriormente l’area dell’incriminazione, in modo che siano doverosamente ritenute irrilevanti ansie di scarso momento, sia in ordine alla loro durata sia in ordine alla loro incidenza sul soggetto passivo, nonché timori immaginari o del tutto fantasiosi della vittima. A tale ultimo riguardo, deve rammentarsi come spetti al giudice ricostruire e circoscrivere l’area di tipicità della condotta penalmente rilevante sulla base dei consueti criteri ermeneutici, in particolare alla luce del principio di offensività, che per giurisprudenza costante di questa Corte costituisce canone interpretativo unanimemente accettato (ex plurimis, sentenze n. 139 del 2014 e n. 62 del 1986).
  • infine, il riferimento del legislatore alle «abitudini di vita» costituisce un chiaro e verificabile rinvio al complesso dei comportamenti che una persona solitamente mantiene nell’ambito familiare, sociale e lavorativo, e che la vittima è costretta a mutare a seguito dell’intrusione rappresentata dall’attività persecutoria, mutamento di cui l’agente deve avere consapevolezza ed essersi rappresentato, trattandosi di reato per l’appunto punibile solo a titolo di dolo.

Alla luce di quanto detto, la Corte Costituzionale ha ritenuto la questione non fondata.

Redazione Giurisprudenza Penale

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