Ancora in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni ed estorsione – Cass. Pen. 24293/2014
Cassazione Penale, Sez. II, 10 giugno 2014 (ud. 29 maggio 2014), n. 24293
Presidente Gentile, Relatore Gallo, P.G. Volpe
Depositate il 10 giugno le motivazioni della pronuncia numero 24293 della seconda sezione penale della Corte di Cassazione in tema di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione.
I giudici della seconda sezione hanno richiamato la recente pronuncia Cass. Pen. Sez. II, 19 dicembre 2013 (ud. 4 dicembre 2013), n. 51433 che, superando un precedente indirizzo giurisprudenziale ha statuito che: l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alla persona e l’estorsione si distinguono non per la materialità del fatto, che può essere identico, ma per l’elemento intenzionale: nell’estorsione, l’agente mira a conseguire un profitto ingiusto con la coscienza che quanto pretende non gli è dovuto; nell’esercizio arbitrario, invece, l’agente è animato dal fine di esercitare un suo preteso diritto nella ragionevole opinione, anche errata, della sua sussistenza, pur se contestata o contestabile.
Di conseguenza, deve affermarsi che l’intensità e/o la gravità della violenza o della minaccia non è un elemento del fatto idoneo ad influire sulla qualificazione giuridica del reato (esercizio arbitrario delle proprie ragioni – estorsione), atteso che, ove la minaccia o la violenza siano commesse con le armi, il reato diventa aggravato ex art. 393, comma 3 o art.629 c.p., art. 628 c.p., comma 3, n 1 e, se la violenza o la minaccia ledano altri beni giuridici, fanno scattare a carico dell’agente ulteriori reati in concorso (lesioni, omicidio, sequestro di persona ecc.). Pertanto, ove la violenza e/o la minaccia, anche se particolarmente intense o gravi, siano effettuate al solo fine di esercitare un preteso diritto, pur potendo l’agente ricorrere al giudice, non è mai configurabile il diverso delitto di estorsione che ha presupposti giuridici completamente diversi; tuttavia, ove la violenza e/o la minaccia, indipendentemente dalla intensità con la quale siano adoperate dall’agente, siano esercitate al fine di far valere un preteso diritto per il quale, però, non si può ricorrere al giudice, il suddetto comportamento va qualificato come estorsione ma non perchè l’agente eserciti una violenza o minaccia particolarmente grave ma perchè il suo preteso diritto non è tutelabile davanti all’autorità giudiziaria, sicchè, venendo a mancare uno dei requisiti materiali del reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, il fatto diventa qualificabile come estorsione.
Tale indirizzo – scrivono i giudici – è stato consolidato da un concomitante arresto di questa Corte che ha ribadito che i delitti di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e di estorsione (la cui materialità è descritta dagli artt. 393 e 629 c.p., nei medesimi termini) si distinguono in relazione all’elemento psicologico: nel primo, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero di soddisfare personalmente una pretesa che potrebbe formare oggetto di azione giudiziaria; nel secondo, invece, l’agente persegue il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia. In motivazione la Corte ha evidenziato che l’elevata intensità o gravità della violenza o della minaccia di per sè non legittima la qualificazione del fatto ex art. 629 c.p. e tale lettura è confermata dal fatto che il legislatore prevede che l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni possa essere, come l’estorsione, aggravato dall’uso di armi.
Nel caso di specie – afferma la Corte – il Tribunale ha commesso un errore di metodologia giuridica: i giudici, infatti, hanno eluso il problema della sussistenza o meno del preteso diritto invocato dalla difesa adagiandosi su una non corretta interpretazione della linea di discrimine fra il reato di estorsione e quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, ancorata esclusivamente sulle modalità della condotta violenta o minacciosa. Al contrario, l’esame della plausibilità giuridica della pretesa vantata dalla difesa, deve necessariamente precedere ogni valutazione in ordine alla qualificazione giuridica della condotta.
E’ stato, dunque, affermato il seguente principio di diritto:
«in tutti i casi in cui, a fronte di una imputazione di estorsione, venga eccepito dalla difesa dell’imputato di aver agito al fine di esercitare un preteso diritto, il Giudice non può determinare l’esatta qualificazione giuridica della condotta se preliminarmente non procede all’esame della pretesa vantata dall’agente per verificare se abbia i requisiti dell’effettività e della concretezza, tali da renderla idonea ad essere azionata in giudizio; solo dopo aver svolto tale accertamento, il giudice può procedere all’esame dell’elemento psicologico per verificare se l’imputato abbia agito nella convinzione ragionevole, anche se infondata, di esercitare un suo diritto, ovvero abbia agito per perseguire il conseguimento di un profitto nella consapevolezza della sua ingiustizia».