ARTICOLICONTRIBUTIDelitti contro la personaDIRITTO PENALEParte speciale

Autoerotismo indotto e reato di atti sessuali con minorenne (art. 609-quater c.p.)

Cassazione Penale, sez. III, 26 settembre 2014 (ud. 18 settembre 2014), n. 39904
Presidente Squassoni, Relatore Gentili, P.G. Delehaye

1. Con la sentenza in epigrafe, la Suprema Corte di Cassazione torna sul tema della configurabilità del reato ex art. 609-quater c.p. (atti sessuali con minorenne) nel caso in cui la vittima infraquattordicenne venga indotta dall’agente a praticare su se stessa atti di autoerotismo tramite strumenti di videoscrittura. Più precisamente, il caso di specie vedeva Tizio indurre un minore “a compiere atti di autoerotismo, praticandoli contemporaneamente anche su se stesso, commentandone col medesimo gli esiti e documentando gli stessi tramite il reciproco invio di immagini fotografiche digitali”.
Il g.i.p., rinvenuti i gravi indizi di colpevolezza per il reato ex art. 609-quater c.p. e le connesse esigenze cautelari, applicava nei confronti di Tizio la misura degli arresti domiciliari, con divieto di intrattenere conversazioni telefoniche e telematiche con soggetti che non fossero i suoi familiari conviventi. Successivamente, il Tribunale del riesame annullava l’ordinanza del g.i.p., ponendo a base della decisione l’insussistenza di contatto di alcun tipo tra la vittima e l’agente, nemmeno di tipo visivo, sicché non poteva ritenersi integrata la fattispecie criminosa pocanzi citata.
La Corte di Cassazione demolisce gli assunti del Tribunale, accogliendo le censure poste a fondamento del ricorso del Procuratore Generale, il quale evidenziava come ai fini della configurabilità del reato ex art. 609-quater c.p. fosse sufficiente che la condotta offendesse il bene tutelato (libertà di autodeterminazione in ambito sessuale) – di pertinenza del minore – e fosse orientata all’appagamento del piacere sessuale del reo, il che effettivamente era accaduto nel caso di specie.

2. Al fine di comprendere al meglio gli aspetti che interessano la fattispecie criminosa in parola, è opportuno ricostruire, passando per i vari orientamenti sostenuti da dottrina e giurisprudenza, la nozione stessa di “atti sessuali”, con più approfondito riferimento al periodo post-riforma del 1996 (per le argomentazioni che seguiranno, si veda amplius C. SANTORO, I concetti di “atti sessuali” e di “violenza” ex art. 609-bis c.p. nelle recenti e controverse interpretazioni della giurisprudenza di legittimità, in La Rivista Nel Diritto, fasc. 2/2014, pagg. 312 e ss.).
Prima della Legge n. 66 del 1996, gli articoli 519 e 521 cod. pen. sanzionavano le condotte di “congiunzione carnale” e di “atti di libidine violenti”: la prima ipotesi criminosa consisteva nel rapporto sessuale stricto sensu, vale a dire nella penetrazione pur parziale dell’organo sessuale maschile in quello femminile; la seconda fattispecie citata si configurava mediante il compimento degli altri atti diversi dalla penetrazione, ma tesi ad appagare la concupiscenza sessuale del soggetto agente, anche in assenza di contatto corpore corpori.
Con la Riforma del 1996, il Legislatore abbandonava la vecchia terminologia, inserendo negli articoli 609-bis e ss c.p. la più generale nozione di “atti sessuali”. All’indomani della Novella, i primi interpreti (tesi soggettivista) ritenevano che il cambio di nomenclatura non avesse demolito la pre-esistente bipartizione tra atti di congiunzione carnale e atti di libidine, poiché all’art. 609 bis co. 3 c.p. il Legislatore aveva previsto una attenuante per i fatti di minor gravità, concetto che – secondo i sostenitori della tesi in parola – era atto proprio a riferirsi a ciò che prima veniva indicato con la locuzione “atti di libidine violenti”. In altri termini, il cambio di nomenclatura, apparentemente demolitorio della bipartizione pre-riforma, doveva invece essere letto nel senso che la congiunzione carnale fosse un atto sessuale di ordinaria o elevata gravità, laddove l’atto di libidine violento dovesse ricondursi alla figura dell’atto sessuale di minor gravità. La nozione di “atti sessuali” era in sintesi la mera somma algebrica delle condotte di “congiunzione carnale” e di “atti di libidine violenti”.
E’ evidente che tale impostazione produceva due effetti paradossali o comunque inadeguati: 1) la riforma del ’96 veniva sostanzialmente privata di senso e di fondamento, traducendosi in un cambio di etichette fine a se stesso; 2) l’atto di libidine violento, il quale si connotava per una coloritura soggettivistica-moraleggiante (il fine di appagamento del piacere sessuale), mal si sposava con una nozione (quale quella di “atto sessuale”) che faceva della obbiettivizzazione del fatto illecito il suo leitmotiv. La dottrina ha perciò cominciato a fornire una lettura obbiettiva della nozione di “atto sessuale”, dividendosi tuttavia in due filoni interpretativi.
Secondo alcuni, l’atto sessuale corrisponde al contatto tra qualsiasi parte del corpo dell’agente e la zona genitale, orale o anale della vittima. Pur avendo questa tesi il pregio di fornire una importante specificazione della nozione di cui discutiamo, essa rischia di atteggiarsi come iper-restrittiva, lasciando in un limbo di incertezza dogmatica condotte come il palpeggiamento di zone diverse da quelle citate o, ancora, gesti come il bacio sul collo. E’ vero che gli stessi sostenitori della tesi in parola (c.d. impostazione anatomica-culturale) tentano di risolvere l’impasse facendo leva sul grado di “intensità e profondità” del contatto tra reo e vittima, dovendo per conseguenza la fugacità dell’atto considerarsi penalmente irrilevante, ma è ancor più vero che in questo modo viene rimessa una forte discrezionalità all’autorità giurisdizionale nell’attività ermeneutica, con patente attrito col principio di legalità.
Ecco perché altri Autori ritengono (tesi “contestuale”) che l’atto sessuale penalmente rilevante debba essere evinto dalla complessa dinamica interrelazionale tra soggetto agente e vittima, alla luce della presenza di fattori coartanti. La tesi, apprezzabile poiché rintraccia l’essenza del fenomeno della violenza sessuale, non riesce però a risolvere la problematica relativa all’affidamento al giudice di un enorme potere in punto di accertamento della fattispecie penale, col rischio peraltro di contemplare quale fatto illecito anche un reato in realtà bagatellare.
La tesi sostenuta attualmente dalla giurisprudenza dominante è in qualche modo sincretica, ma gode di proprie peculiarità.

  • In primo luogo, l’atto sessuale viene definito attingendo alle esigenze di tutela del bene giuridico di riferimento: esso è dunque in primo luogo una condotta che interferisce in maniera offensiva con la libertà di autodeterminazione della vittima in ambito sessuale, coinvolgendo (da notare l’effetto estensivo) non la sola zona genitale, bensì la zona erogena, id est la zona atta a generare l’istinto e/o il piacere sessuale.
  • In secondo luogo, e ciò permette di parlare dell’impostazione in parola come di una “tesi mista”, la condotta caratterizzata dai connotati suindicati deve altresì essere funzionalizzata all’appagamento della libidine sessuale del reo (in ciò venendo la tesi criticata da ampia dottrina poiché rinviene nella nozione di atti sessuali un dolo specifico in realtà insussistente nel tessuto letterale delle norme).
  • In terzo luogo, e ciò rappresenta una importante novità rispetto al passato, confluisce nella nozione di atto sessuale anche l’atto sessuale “repentino”, “fugace”, il quale, per il suo essere subdolo ed insidioso, elude il livello di guardia della vittima evitando che questa possa apprestare difese o reazioni di alcun tipo. Detto altrimenti, la Cassazione permette che un reato come quello di “violenza” sessuale possa configurarsi anche senza l’esplicazione di una forza che soverchia/annienta la resistenza altrui, bensì con l’utilizzo di un atto repentino che eluda le stesse possibilità di reazione (tendenzialmente, sulla base del previsto dissenso altrui).

Una volta abbracciata l’impostazione prevalente in giurisprudenza, non si può non dedurre una importante conseguenza: il delitto di violenza sessuale si configura anche quando il reo costringe o induce la vittima a subire o a compiere atti sessuali senza alcun contatto fisico con il primo, dunque anche utilizzando strumenti per la comunicazione a distanza quali il telefono, la videochiamata, la chat.  Infatti, anche in questi casi i tratti fondamentali della condotta vietata risultano integrati; è sufficiente che vi sia un’opera di costrizione/induzione a compiere o subire atti che ledano la libertà di autodeterminazione della vittima in ambito sessuale, coinvolgano zone erogene, e siano destinate all’appagamento del piacere sessuale del reo.

3. Venendo al caso di specie, relativo all’utilizzo di un sistema di videoscrittura mediante il quale il reo induceva (induzione da intendersi evidentemente lato sensu, sganciata dalle ipotesi punite dall’art. 609 bis c.p. ed interpretabile quale condotta atta a guadagnare un consenso viziato, per presunzione assoluta, in relazione all’età “sessualmente amorfa” del soggetto passivo, posto che altrimenti verrebbe in rilievo l’art. 609 bis cit. e non l’art. 609 quater c.p., ndr) all’autoerotismo la propria vittima, è innanzitutto opportuna una precisazione: i soggetti infraquattordicenni non possono fornire un consenso valido all’atto sessuale, in quanto ritenuti dall’ordinamento ancora incapaci di disporre coscientemente della propria corporeità in tale particolare ambito. Dunque, nei reati sessuali ai danni di minori infraquattordicenni, il bene giuridico leso non è tanto la libertà di autodeterminazione dell’infraquattordicenne nel campo sessuale, quanto le sue capacità di sviluppare una perfetta consapevolezza della propria corporeità sessuale in futuro ed un proprio equilibrio psichico con riferimento ad essa, una volta varcata la citata “soglia temporale di intangibilità”.
Valgono però, anche per i reati sessuali a danno di questa categoria di minori, le regole innanzi enucleate sulla nozione di atto sessuale penalmente rilevante, sicché ha certamente errato il Tribunale del riesame quando ha escluso che l’insussistenza del contatto pur visivo tra vittima e reo (compensata però dalla sussistenza di contatto tramite videoscrittura) potesse integrare la fattispecie di reato qualora la vittima abbia comunque in concreto subìto la induzione a praticare su se stessa atti di autoerotismo destinati ad appagare il piacere sessuale del soggetto agente.
Al contrario, sottolinea il Giudice di Legittimità, stanti i caratteri strutturali della nozione di atto sessuale in precedenza citati, il mezzo di contatto tra reo e vittima può ben sostanziarsi in qualcosa di diverso sia dal contatto fisico sia da quello visivo, essendo sufficiente che detto canale di tramite sia idoneo a veicolare la sensazione di appagamento sessuale e a far sì che sull’agente si produca un feedback emotivo a cagione della condotta altrui (quella consistente, ai nostri fini, nell’autoerotismo della vittima). E’ però rilevante, aggiunge la Corte, che sussista una contestualità tra l’induzione da parte del reo, la finalità di appagamento della sua concupiscenza sessuale e l’autoerotismo praticato dalla vittima.

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