La incostituzionalità di una norma che incide sul trattamento sanzionatorio impone al giudice dell’esecuzione di rimuovere la pena illegittima
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 14 ottobre 2014 (ud. 29 maggio 2014), n. 42858
Presidente Santacroce, Relatore Ippolito, P.G. Cedrangolo
Massima
Successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell’esecuzione. Pertanto, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 251 del 2012, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’articolo 69, comma 4, del C.p., nella parte in cui vietava di valutare “prevalente” la circostanza attenuante di cui all’articolo 73, comma 5, del D.p.r n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata di cui all’articolo 99, comma 4, del Cp, il giudice del l’esecuzione, ai sensi dell’articolo 666, comma 1, del Cpp e in applicazione dell’articolo 30, comma 4, della legge 11 marzo 1953 n. 87, potrà affermare la prevalenza della circostanza attenuante, sempreché una simile valutazione non sia stata esclusa nel merito dal giudice della cognizione, secondo quanto risulta dal testo della sentenza irrevocabile.
Il commento
1. L’Autore commenta la pronuncia numero 42858 delle Sezioni Unite penali della Corte di Cassazione, depositata il 14 ottobre 2014, con la quale la Corte ha affrontato il tema della rideterminazione della pena in seguito ad una sentenza che abbia dichiarato l‘illegittimità costituzionale di una norma penale sostanziale, diversa dalla norma incriminatrice, ma tale da aver inciso sul trattamento sanzionatorio.
In seguito alla declaratoria di incostituzionalità Corte Cost. 05 novembre 2012, n. 251 (con la quale il giudice delle leggi ha rilevato l’illegittimità parziale dell’art. 69, IV comma c.p. nella parte in cui vieta la prevalenza dell’attenuante ex art. 73, V comma d.P.R. n. 309/90 sull’aggravante della recidiva reiterata ex art. 99, IV comma c.p.), il pubblico ministero aveva richiesto la rideterminazione della pena inflitta all’imputato per effetto del giudizio di comparazione tra le attenuanti e aggravanti prima precluso dalla norma. La richiesta del pubblico ministero, tuttavia, è stata negata in quanto il giudice dell’esecuzione ha ritenuto che l’intervento della Corte Costituzionale non avesse determinato un’ipotesi di abolitio criminis e, pertanto, l’intangibilità del giudicato doveva ritenersi prevalente. Con ordinanza del 20 novembre 2013, la Sezione I della Suprema Corte ha deciso di rimettere la questione alle Sezioni Unite considerato il conflitto sorto tra le pronunce delle Sezioni Semplici.
2. Come è noto, la sentenza costituzionale del 5 luglio 2010, n. 249 ha dichiarato l’illegittimità dell’aggravante prevista dall’art. 61, I comma n. 11-bis c.p. in quanto è stata ritenuta irragionevole la scelta del legislatore di ritenere maggiormente pericoloso un soggetto per il solo fatto che soggiorni nel territorio dello Stato sprovvisto di un titolo.
Alla luce di tale decisione, è possibile registrare due orientamenti:
Con la sentenza Hauohu (Cass. Pen, Sez. I, 27 ottobre 2011, n. 977), si è affermato che non è possibile dare esecuzione al giudicato di condanna per la parte in cui è riferibile all’applicazione di una circostanza aggravante colpita da declaratoria di illegittimità costituzionale. La Corte, in tale decisione, ha ritenuto inapplicabile lo strumento concesso al giudice dell’esecuzione dall’art. 673 c.p.p., poiché limitato alle ipotesi di depenalizzazione ovvero illegittimità costituzionale che colpisca l’intera fattispecie oggetto del provvedimento divenuto irrevocabile. Osserva la Corte che il giudice dell’esecuzione può, in siffatta ipotesi, cancellare la sentenza del giudice di cognizione ovvero revocare parzialmente, nei casi di condanna per più reati, la corrispondente porzione di pena collegata alla norma abrogata ovvero dichiarata incostituzionale mentre gli è precluso «la scissione del singolo capo d’accusa e la risoluzione del giudicato formale in relazione ad aspetti meramente circostanziali, o sanzionatori, ad esso inerenti». Pertanto, onde dare concreta attuazione al disposto contenuto nell’art. 25, II comma costituzione, il limite del giudicato può essere superato in forza di quanto disposto dall’art. 30, IV comma della l. 11 marzo 1953, n. 87. Tale norma recita: “quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e gli effetti penale”. Sebbene tale disposizione si riferisca, per pacifico orientamento giurisprudenziale, alle sole norme incriminatrice la Corte ha ritenuto applicabile tale articolo anche alle norme processuali che abbiano un’incidenza effettiva sulla determinazione della pena, in quanto «nella misura in cui da dette norme deriva una sanzione criminale per un aspetto dell’agire umano, di esse può dirsi che sono analoghe alle norme incriminatrici, essendo indifferente, da tale punto di vista, che istituiscano un autonomo titolo di reato o una circostanza aggravante». Ciò premesso, la Corte conclude che spetta al giudice dell’esecuzione «il compito di individuare la porzione di pena corrispondente [alla norma dichiarata incostituzionale, ndr] e di dichiararla non eseguibile, previa sua determinazione ove la sentenza del giudice di cognizione abbia omesso di individuarla, ovvero abbia proceduto … al bilanciamento tra le circostanze».
Con la sentenza Hamrouni (Cass. Pen., Sez. I, 19 gennaio 2012, n. 27640), la Corte è giunta a conclusioni diametralmente opposte ribadendo l’immutabilità della pena inflitta una volta divenuta irrevocabile. In particolare, la prima Sezione ha inteso discostarsi dalla pronuncia precedente poiché ha ritenuto insussistente la violazione del principio di uguaglianza posto che il giudicato costituisce il discrimen al di là del quale effettuare tale valutazione, coerentemente con quanto disposto dall’art. 2, IV comma c.p. Inoltre, l’art. 30 della l.87/1953 risulterebbe inapplicabile, sia il III comma, poiché il titolo esecutivo della pena trova la sua fonte nel provvedimento che, divenuto irrevocabile, rimane insensibile alle norme che il giudice ha adottato, sia il IV, in quanto si riferisce alle sole norme incriminatrici e, pertanto, ai casi di abolitio criminis. Da ciò, la Corte deduce che l’art. 673 c.p.p. abbia implicitamente abrogato l’art. 30 l. 87/1953 concedendo al giudice la possibilità di revocare la sentenza di condanna. Ciò posto, la Corte ha quindi ribadito l’intangibilità del giudicato penale.
3. Il massimo organo di nomofilachia inizia il percorso argomentativo ribadendo la distinzione tra l’intervenuta declaratoria di incostituzionalità e lo ius superveniens in relazione agli effetti prodotti. Infatti, si osserva che, nonostante il panorama giurisprudenziale presenti qualche precedente che le accomuni, l’illegittimità costituzionale di una norma ne inficia la validità sin dalla promulgazione mentre la successione di leggi determina l’inefficacia della norma abrogata per tutti i rapporti successivi. È, quindi, di palmare evidenza che la declaratoria di incostituzionalità abbia un’efficacia ex tunc contrariamente all’efficacia ex nunc tipica, invece, dell’abrogazione di una norma. Si ribadisce, dunque, che la distinzione tra i due istituti è caratterizzato dall’efficacia invalidante della declaratoria di incostituzionalità. Per cui, la Corte sottolinea che «sia il succedersi di leggi, che in tutto o in parte disciplinano materie già regolate da leggi precedenti, sia l’abrogazione di una norma per effetto di norma successiva sono fenomeni fisiologici dell’ordinamento giuridico, mentre la dichiarazione di illegittimità costituzionale palesa un evento di patologia normativa». Ne derivano anche diverse conseguenze: «mentre l’applicazione della sopravvenuta legge penale più favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, ciò non può valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimità costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidità».
In verità, anche nel caso di intervenuta illegittimità costituzionale i rapporti esauriti rimangono insensibili alle successive vicende che investono la norma, pertanto, occorre verificare quando il rapporto possa definirsi esaurito. Aderendo all’impostazione che individua nel “giudicato” il discrimen al di là del quale non è possibile effettuare alcuna modificazione si finisce per privilegiare l’esigenza della certezza dei rapporti giuridici anche a costo persino di sacrificare il principio del favor rei. Questa concezione, ritenuta ammissibile in uno Stato totalitario quale fu quello fascista, appare in palese contrasto con i principi costituzionali che ispirano (e regolano) il sistema penale italiano. Ne è prova che mentre la giurisdizione civile conosce l’art. 2909 c.c., il quale determina l’efficacia del giudicato non solo tra le parti ma anche tra i loro eredi o aventi causa, il legislatore penale del nuovo codice di rito ha, invece, optato non solo per l’espulsione dell’art. 90 del vecchio codice ma limitando persino gli effetti del giudicato penale negli altri procedimenti civili o amministrativi. Sembra, quindi, doversi preferire l’indirizzo che individua nel giudicato il punto d’arresto dell’intervento statale riconducendolo essenzialmente a garantire il ne bis in idem. La ragione giustificatrice di tale scelta deve essere rinvenuta nella previsione costituzionale dettata dall’art. 24, in forza del quale si è ritenuto che non è possibile sacrificare il diritto di difesa dell’agente in favore della stabilità e certezza dei rapporti. In una simile accezione solo l’espiazione o l’estinzione della pena è idonea a esaurire il rapporto giuridico.
Oltre a richiamare gli istituti che consentono di rivedere una sentenza irrevocabile (artt. 625-bis, 625-ter, 629 c.p.p. etc..), la Corte ricorda la disciplina dell’art. 2 c.p., in particolare, l’attuale terzo comma in forza del quale si dispone, in caso di intervenuta modifica legislativa, l’immediata conversione della pena detentiva in pecuniaria nonostante quanto disposto dal comma successivo. Appare evidente, dunque, che il giudicato precluda una revisione in peius della condizione dell’imputato ma che non sia d’ostacolo alla riforma della pena ispirata al principio del favor rei. Infatti, per costante giurisprudenza costituzionale si ritiene che l’art. 27 Cost. attribuisca la possibilità di rivedere la condanna «se la quantità di pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo». In particolare, con decisone n. 210 del 2013 il Giudice delle leggi, chiamata a decidere su una situazione molto simile a quella in esame, ha ribadito che è doveroso che l’ordinamento giuridico conosca «ipotesi di flessione dell’intangibilità del giudicato, che la legge prevede nei casi in cui sul valore costituzionale ad esso intrinseco si debbano ritenere prevalenti opposti valori, ugualmente di dignità costituzionale, ai quali il legislatore intende assicurare un primato. Tra questi, non vi è dubbio che possa essere annoverata la tutela della libertà personale, laddove essa venga ristretta sulla base di una norma incriminatrice successivamente abrogata oppure modificata in favore del reo».
Ribadita l’inidoneità dell’art. 673 c.p.p., lo strumento da utilizzare in presenza di una declaratoria di incostituzionalità non resta che l’art. 30, commi III e IV l. 87/53, i quali, in perfetta armonia con l’art. 136 Cost., l’art. 11 delle disposizioni transitorie e l’art. 2 c.p., rendono illegittima la pena o porzione di essa qualora sia collegata ad una norma dichiarata incostituzionale. Infatti, se si ritiene, ormai pacificamente, l’illegittimità della pena per violazione di una norma Cedu, norma ritenuta di livello sub-costituzionale, risulterebbe illogico e contraddittorio ritenere legittima una sanzione collegata ad una disposizione che è in contrasto con la Costituzione, posto che persino le suddette norme non possono in alcun caso entrare in conflitto con i principi contenuti nella nostra Carta Fondamentale.
Il giudice dell’esecuzione, quindi, nel caso in cui la declaratoria di incostituzionalità investa una circostanza aggravante (art. 61, I comma, n. 11-bis c.p.) ovvero il divieto normativo di ritenere prevalente una circostanza attenuante (art. art. 69, IV comma c.p.) è tenuto ad eliminare la porzione di pena ingiusta (rectius incostituzionale) in quanto l’espiazione della pena derivante da simili situazioni è illegittima, sia sotto il profilo oggettivo poiché derivante da una norma non conforme ai principi su cui si fonda l’ordinamento giuridico, sia sotto il profilo soggettivo, poiché il condannato avvertirà la sanzione non totalmente legittima e, dunque, la pena non potrà svolgere la propria funzione rieducativa. Il potere di rideterminazione della pena attribuito al giudice dell’esecuzione, tuttavia, deve cedere innanzi le valutazioni effettuate dal giudice in fase di cognizione, infatti, qualora il giudice della cognizione abbia escluso la prevalenza per ragioni di merito e, quindi, indipendentemente dal divieto normativo, tale potere è insussistente poiché le valutazioni in fase esecutiva non possono contraddire quelle effettuate dal giudice della cognizione.