La controversa linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente alla luce della sentenza Thyssenkrupp
Cassazione Penale, Sezioni Unite, 18 settembre 2014 (ud. 24 aprile 2014), n. 38343
Presidente Santacroce, Relatore Blaiotta, P. G. Destro
Con la sentenza in epigrafe, le Sezioni Unite tornano a pronunciarsi, ancora una volta, sullo spinoso tema dei criteri di demarcazione tra la figura del dolo eventuale e quella della colpa cosciente, al fine di dirimere il conflitto giurisprudenziale in merito alla qualificazione giuridica da ascrivere alla “irragionevolezza del convincimento prognostico dell’agente circa la non verificazione dell’evento”.
Il caso è una vicenda processuale ben nota: l’evento disastroso verificatosi nello stabilimento torinese della Thyssenkrupp acciai speciali Terni s.p.a. nel dicembre 2007 per effetto della formazione di una nuvola incandescente di olio nebulizzato (flash fire) che si espanse improvvisamente per un’ampiezza di 12 metri, investì sette operai provocandone la morte e provocò lesioni personali in danno di altri operai. Nei confronti degli imputati veniva mossa l’ipotesi accusatoria di concorso di persone nel reato di cui all’art. 437 c.p., commi 1 e 2, per avere omesso di dotare la linea di ricottura e decapaggio denominata APL5 di impianti ed apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro; del reato di cui all’art. 61 c.p., n. 3, e art. 589 c.p., commi 1, 2 e 3, per aver cagionato per colpa la morte dei lavoratori; del reato incendio colposo di cui all’art. 61 c.p., n. 3, artt. 449 e 423 c.p., per aver cagionato l’incendio già menzionato, a causa delle condotte colpose riportate al capo D. Con l’aggravante della previsione dell’evento.
Il solo E., nella veste di amministratore delegato posto in una posizione apicale rispetto agli altri imputati, veniva imputato del reato di cui agli artt. 81 e 575 cod. pen., per aver cagionato volontariamente la morte dei lavoratori e del reato di incendio doloso di cui all’art. 423 cod. pen., per aver cagionato nella detta linea APL5 un incendio violento, rapido e di vaste proporzioni. All’imputato E. è stato contestato, in particolare, di essersi rappresentata la concreta possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza delle contingenze già riportate nel capo A, e di aver accettato tale rischio, giacché in virtù dei poteri decisionali inerenti alla sua posizione apicale, nonché della specifica competenza e della delega in materia di sicurezza sul lavoro, prendeva la decisione di posticipare l’investimento antincendio, sebbene lo stabilimento si trovasse in una situazione di crescente insicurezza. Contra, sotto il profilo soggettivo, la difesa dell’imputato confutava lungamente la prevedibilità dell’evento lesivo, relegandolo nel novero di accadimenti eccezionali, generati da una sequenza causale di peculiari e fatali circostanze.
Ciò basta a dare l’idea di come il vero punctum pruriens dell’intera vicenda giudiziaria sia l’individuazione della specifica forma di colpevolezza ricorrente allorché la prospettiva di scenario avanzata dalla difesa dell’imputato appaia sorretta da valutazioni congetturali prive di logicità e ragionevolezza.
E’ chiaro che la questione non è di natura meramente teorica, atteso che dalla configurazione dello specifico criterio di imputazione soggettiva derivano conseguenze applicative tanto in sede di inquadramento normativo, quanto in sede di commisurazione della pena. L’ importanza della quaestio non solo rispetto alla decisione da assumere, ma anche riguardo alla soluzione dell’annosa ed autorevole disputa interpretativa registratasi sul punto, ne ha giustificato la assegnazione alle Sezioni Unite da parte del Primo Presidente della Corte di Cassazione Giorgio Santacroce.
Sul terreno scivoloso della esatta portata differenziale fra le due figure del dolo eventuale e della colpa cosciente, il Supremo consesso nomofilattico si è espresso passando in rassegna i principali orientamenti emersi in sede dottrinale e giurisprudenziale, proprio con l’intento di disegnare i confini applicativi dell’elemento soggettivo dei reati contestati. Con la pronuncia n. 38343 del 18 settembre 2014, le Sezioni Unite hanno confermato la responsabilità degli imputati per omicidio colposo (escludendo, quindi, l’ipotesi di omicidio volontario nella forma del dolo eventuale per E.) annullando una parte della sentenza di appello e rinviando ad altra sezione della Corte d’assise d’Appello di Torino per la rideterminazione delle pene.
L’analisi del complesso quadro delle argomentazioni addotte dalla S.C. per caratterizzare i due elementi impone una breve premessa sui contorni definitori delle due forme di colpevolezza. Com’è noto, il dolo è il normale criterio di imputazione soggettiva di responsabilità, nonché la più grave forma di colpevolezza e trova il suo addentellato normativo nell’ art 43 co.1 c.p. E’ connotato da due poli, la rappresentazione e la volontà, il cui differente atteggiarsi suggella tre principali declinazioni giurisprudenziali di manifestazione dolosa: il dolo intenzionale, il dolo diretto ed il dolo eventuale. La colpa è un criterio di imputazione che richiede esplicita previsione legislativa e si compone della previsione dell’evento consumativo del reato che, non voluto dall’agente, si verifica per negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini e discipline (art. 43 co.3 c.p.). L’art. 61 co.3 prevede, come circostanza aggravante comune nei delitti colposi, che l’agente abbia agito nonostante la previsione dell’evento.
Da questa irrinunciabile premessa dogmatica consegue che non può essere la previsione dell’evento a differenziare i due istituti, ma deve essere l’esistenza o meno della volizione. Segnatamente, è l’ultimo stadio d’intensità dolosa, il dolo eventuale, che pone i maggiori problemi di discrimen con la figura della colpa, poiché la dimensione psicologica dell’imputazione soggettiva si connota- nel dolo eventuale –per la presenza di una manifestazione di adesione all’evento, la volizione, che non è direttamente percepibile, ma deve essere attentamente scandagliata dall’interprete alla luce delle specifiche contingenze che hanno qualificato i fatti. Stante la natura interiore e impalpabile dell’elemento, all’interprete è affidato quindi il delicato compito di indagare lo scenario complessivo dei fatti e delle movenze psicologiche e di cogliere acutamente i segni di un atteggiamento riconducibile alla sfera del volere, alla luce della specificità del caso concreto.
Va altresì detto che il tentativo di segnare i confini tra le due figure, individuandone i tratti distintivi, costituisce una vexata quaestio che ha dato adito a numerosissime teorie dottrinarie e giurisprudenziali volte a porre l’accento talvolta sull’elemento rappresentativo, talvolta su quello volitivo, talvolta su una combinazione di fattori riguardanti entrambi gli elementi o, ancora, sul tipo di rischio che il soggetto ha ritenuto di assumere (teorie oggettivistiche). Tuttavia il richiamo ad argomenti basati sulla concretezza o meno della previsione (pur compiuto dallo stesso P.M. in sede di requisitoria nel caso Thyssenkrupp) lungi dall’appagare le concrete esigenze definitorie che infervoriscono gli interpreti, si riduce ad un mero espediente nominalistico, rappresentando solo un elemento indiziario da affiancare a ben altre risultanze probatorio- processuali.
La Suprema Corte infatti -interpellata sul seguente quesito: «Se la irragionevolezza del convincimento prognostico dell’agente circa la non verificazione dell’evento comporti la qualificazione giuridica dell’elemento psicologico del delitto in termini di dolo eventuale»- ha preso le distanze dalle teorie prospettate in primo ed in secondo grado, rigettando della prima l’apodittica adesione alla teoria della accettazione del rischio; e della seconda l’utilizzo di uno strumentario euristico inaffidabile, id est il giudizio controfattuale alla stregua della prima formula di Frank. Sull’assunto della irragionevolezza della giustificazione addotta da E. circa la sua speranza che non si verificassero gli eventi di reato la prima Corte faceva leva per acclarare la sussistenza del dolo eventuale (e non della colpa cosciente) nell’atteggiamento psicologico dell’ amministratore.
La tesi avallata in primo grado, successivamente invocata dal Supremo consesso nomofilattico con qualche rilievo critico, è senz’altro quella evoluta dell’accettazione del rischio, che pone l’accento sul momento volitivo come exitus di un bilanciamento comparativo tra contrapposti interessi, quello perseguito dallo stesso agente e quello presidiato dalla norma incriminatrice. Le condizioni precarie delle linee, i numerosi fenomeni di focolaio verificatisi nei mesi precedenti al disastro, la mancata adozione di misure organizzative e preventive, lo stato di abbandono ed insicurezza dello stabilimento sono tutti elementi che hanno indotto la Corte d’Assise a ritenere integrata in capo agli imputati una volizione determinata dal costi quel che costi per raggiungere l’obiettivo primario, ossia il risparmio e l’accantonamento di fondi. Valorizzando il carattere inconsistente ed insensato della speranza di evitare gli eventi ad integrazione dell’elemento volitivo, Il Giudice di prime cure figurava i fatti disastrosi come eventi collaterali, che gli imputati coscientemente rappresentavano ed accettavano, sia pure nella forma eventuale, come prezzo da pagare per conseguire un certo risultato. I numerosi dati fattuali attestanti condizioni di dilagante insicurezza in cui versava lo stabilimento assumevano un peso decisivo e costituivano, a parere della Corte di Assise, presupposti sulla scorta dei quali non poteva riposare alcuna razionale fiducia.
Pertanto, la pronuncia di primo grado erigeva la responsabilità degli a. d. per omicidio doloso sull’operazione di valutazione comparativa compiuta dall’agente tra interesse perseguito (bieco risparmio ed accantonamento di fondi stanziati per lo stabilimento di Torino) e i danni previsti in caso di verificazione di eventi lesivi, ricavando l’elemento volontaristico del dolo da un isolato indicatore (la speranza, ragionevole o irragionevole che sia) anziché da una completa e penetrante lettura di tutte le deduzioni probatorie pertinenti.
La Corte a Sezione Unite rifugge dall’artificiosa distinzione -prospettata in primo grado- tra speranza ragionevole ed irragionevole, non potendo tale fattore assurgere ad elemento dirimente dell’atteggiamento psichico degli imputati, che piuttosto deve vertere esattamente sull’evento specifico di reato (quello che presenta i tratti del disastro concretamente verificatosi) e non già su una mera condizione di rischio dell’evento. Il nesso che avvince la personalità dell’a. d. agli eventi infausti, su cui regge l’imputazione dolosa della sentenza di primo grado, ha destato poi non poche perplessità nella misura in cui si intenda ricavare la volontà di accedere a prospettive di eventi disastrosi da valutazioni di maniera, emblematiche di un aberrante rinvio al diritto penale d’autore.
Nondimeno, la posizione delle SS.UU. è critica anche nei confronti dell’impostazione adottata, nel febbraio 2013, dalla prima sezione della Corte di Assise di Appello di Torino, che addiveniva a risultati completamente opposti, respingendo la tesi del dolo eventuale e qualificando le condotte degli imputati nei termini di omicidio colposo aggravato dalla colpa cosciente (o con previsione) ex art. 61 n.3 c.p. L’argomentazione più pregnante a favore dell’integrazione della colpa con previsione faceva leva su un dato squisitamente economico ed era rinvenuta proprio nell’obiettivo di bieco contenimento dei costi (a discapito della sicurezza degli impianti e della vita dei lavoratori), perseguito dall’A. D. E., in quanto“ imprenditore esperto, abituato a ponderare le decisioni per tempo”.
Il ragionamento seguito dai giudici di secondo grado denota l’adesione alla teoria della accettazione del rischio, basata sul giudizio prognostico alla luce della prima formula di Frank, giacché esclude l’elemento volitivo in capo ad E. alla stregua della valutazione che quest’ultimo avrebbe compiuto in ordine ai danni di rilevantissima entità prospettabili in caso di contezza della sicura verificazione degli eventi lesivi. Trattasi di uno strumento di indagine fortemente osteggiato da una parte della giurisprudenza ed ampiamente superato dalle Sezioni Unite, in forza del carattere schiettamente ipotetico ed inaffidabile, del quale potersi avvalere unitamente ad alternativi strumenti di indagine.
La limitata efficacia euristica della teoria accolta in secondo grado, derivante dalla necessità di fruire di informazioni altamente attendibili su cui fondare il giudizio ipotetico controfattuale, finisce per sostituire- a parere dell’accusa e delle SS.UU.- all’azione reale di chi accetta di correre un rischio l’azione ipotetica di chi accetta di cagionare un evento. In ordine al controfattuale suddetto, la S.C. non nega il rilievo probatorio che lo strumento, sia pure di natura ipotetica, assume nella scienza penalistica, essendo quest’ultima non certo estranea a valutazioni congetturali ed ipotetiche. Ciononostante, si avvede che in molti casi di scarsità di materiale probatorio rimane realisticamente insoluto il problema del riscontro dell’elemento soggettivo, se non ci si avvalga di strumenti di indagine alternativi.
Ancora, la ricostruzione proposta in secondo grado presta il fianco alle seguenti obiezioni critiche. Anzitutto si è evidenziato che il suddetto giudizio prognostico non appare in grado di assurgere ad operazione concettuale dotata di serio fondamento scientifico e non sempre consente di determinare in modo appagante quale sia il criterio di imputazione soggettiva della responsabilità penale configurabile.
In secondo luogo, è ritenuto fuorviante il richiamo alla sentenza delle Sezioni Unite del 2010, che riguarda lo specifico tema del rapporto tra ricettazione ed incauto acquisto. In essa l’accertamento del dolo eventuale si basa su un approccio metodologico particolarmente rigoroso, mosso da esigenze di delimitare l’ambito di operatività del reato di ricettazione rispetto a quello di incauto acquisto. Si assume che gli stessi parametri non possano essere adottati quando si parla di reati di evento contro l’incolumità fisica e la vita, giacché in tali fattispecie la verifica ipotetica sul comportamento che l’agente avrebbe tenuto qualora avesse avuto certezza di cagionare l’evento esclude in radice qualsiasi possibilità di configurare il dolo eventuale
Ciò posto, la chiave di lettura di cui si avvalgono le SS.UU. per marcare i limiti delle due figure si rinviene nella necessità di valorizzare la componente lato sensu volontaristica, in adesione alla teoria evoluta della accettazione del rischio. In base alla ponderazione comparativa tra gli interessi in gioco che l’impostazione accolta dalle SS.UU. postula, l’evento lesivo assume i connotati di un probabile prezzo da pagare per conseguire l’obiettivo primario.
Come si è visto, il paradigma indiziario della mera accettazione del rischio non coglie indubbiamente nel segno, essendo la previsione un elemento comune sia al dolo che alla colpa e pertanto, in linea di principio, un indicatore poco significativo per determinare a che titolo sia imputabile il reato all’agente. Ciò che assume decisivo rilievo si misura sul terreno della volizione, poiché il dolo eventuale richiede un quid pluris che è la prospettazione di un fine da raggiungere, la previsione del possibile verificarsi dell’evento nell’ambito di un giudizio comparativo degli interessi in gioco, che l’agente compie anticipatamente e nel quale deliberatamente accetta di sacrificare (eventualmente) un bene diverso per conseguire il proprio interesse.
Nell’ambito dell’indagine indiziaria che si spinge nei meandri dell’animo umano, il Supremo Collegio attribuisce peso decisivo non già ad atteggiamenti della sfera emotiva, ma bensì alle ragioni che hanno determinato la speranza o altro atteggiamento emotivo, raffigurandole quali elementi che entrano a far parte di un reale atteggiamento psichico. Muovendo dal presupposto che il proprium del dolo risiede nella relazione essenziale tra volontà ed evento e che ciò non può mancare neanche nella figura limite del dolo eventuale, le SS.UU. ritengono allora necessario andare alla ricerca della volontà o meglio di qualcosa ad essa equivalente nella considerazione umana, in modo che possa essere mosso un rimprovero doloso e la colpevolezza quindi si concretizzi.
Si tratterà, allora, di tentare di spiegare l’accaduto, al fine di stabilire se l’agente si sia lucidamente rappresentata la concreta prospettiva della possibile verificazione dell’evento hic et nunc quale effetto collaterale della sua condotta e, dopo aver soppesato tutto (sia il fine perseguito sia l’eventuale prezzo da pagare) si sia consapevolmente determinato ad agire comunque, costi quel che costi.
Di talché, la risposta di principio che le SS.UU. danno alle questioni sul tappeto, quella dei tratti distintivi del dolo eventuale, si identifica nell’indagine di una positiva adesione all’evento, una volontà indiretta che, sulla base di una chiara visione delle cose e delle prospettive della propria condotta, esprima una scelta razionale del soggetto agente, una volontaria determinazione ad una condotta antigiuridica. Solo allorché sulla scena indiziaria possano cogliersi i segni dai quali inferire la sicura accettazione degli effetti collaterali della condotta da parte dell’agente, sarà possibile scorgere un atteggiamento interno equivalente alla volontà e potrà essere sensatamente mosso il rimprovero doloso. Nei casi di malgoverno di una situazione di rischio si annida, invece, la forma colposa. Essa è contraddistinta da un diverso atteggiamento colpevole, rimproverabile: quello derivante dal versare in una situazione di rischio, avere consapevolezza di tale contingenza e pur tuttavia regolarsi in modo malaccorto, noncurante, insensato, senza soppesare il pericolo.
La colpa cosciente, dunque, si connota per l’ imprudente previsione negativa che un fatto di reato non si realizzerà e va distinta dallo stato mentale di chi si rappresentata la possibilità di porre in essere una figura criminosa e non arrivi neanche a superare la posizione di dubbio.
Alla luce di quanto dinanzi esposto, è possibile tentare di tirare le fila, partendo dall’ineliminabile dato testuale di cui all’art. 43 c.p. La delicata linea di confine tra il dolo eventuale e la colpa cosciente è tracciata dalla esistenza o meno dell’ineffabile momento volitivo, inteso dalle SS.UU. quale processo decisorio in cui ci si determina ad agire o meno in vista di un determinato conseguimento e malgrado la previsione dell’evento.
Diversamente dall’ipotesi di dolo intenzionale o diretto, il dolo eventuale è una figura dai contorni nebulosi, di carattere squisitamente normativo, posto che il momento rappresentativo riguarda un evento dotato di un coefficiente probabilistico non tanto significativo, da poterne inferire agevolmente la direzione della volontà. Tuttavia, è pur vero che il dolo, in qualsivoglia declinazione, si radica nell’alveo di un processo mentale che, diffusamente o repentinamente elaborato, confluisce sempre in una determinazione consapevole, che a sua volta esprime la più intensa adesione al fatto antigiuridico.
Si comprende, perciò, come gli sforzi definitori che gli interpreti compiono per inquadrare la figura del dolo eventuale, circoscriverla entro confini ristretti, in modo che sicura e prevedibile ne sia l’applicazione, rispondano ad esigenze analitiche e garantiste di punizione di quei comportamenti che, proprio per l’adesione interiore alla prospettiva della verificazione dell’evento, sono ritenuti maggiormente riprovevoli e meritevoli di sanzione.
Ne deriva che intanto la scelta d’azione o d’omissione è rimproverabile, in quanto si indirizza nel senso della offesa al bene giuridico protetto, in aperta contrapposizione alla legge. E ciò rappresenta il tratto distintivo del dolo, giustificando un trattamento sanzionatorio ben più severo di quello riservato ai comportamenti meramente colposi.
Conclusivamente, la pronuncia assegna alla figura dell’interprete un ruolo centrale: quello di sceverare gli atteggiamenti interni dell’agente alla luce di una serie di fattori eterogenei e multiformi (la probabilità di verificarsi dell’evento, la percezione soggettiva della probabilità, i segni della percezione del rischio, i dati obiettivi capaci di fornire una dimensione riconoscibile dei reali processi interiori e della loro proiezione finalistica, etc. ) per caricare di significato la dimensione psicologica dell’imputazione soggettiva. Muovendosi nell’ambito di un quadro indiziario complesso, il giudice è gravato dal delicato compito di individuare la figura peculiare del dolo eventuale alla stregua di una profonda e dettagliata analisi di plurimi ed eterogenei indicatori. Va da sé che quanto più affidabili ed univoci appaiono i segni, tanto maggiore risulterà la forza della decisione finale.
La tesi accolta dalle SS. UU. appare degna di pregio nella parte in cui induce l’interprete a speciale cautela dinanzi ad uno scenario probatorio problematico ed incompleto, dal quale si dubita fortemente possa scaturire un pieno giudizio di colpevolezza per dolo eventuale. Posto che, strutturalmente, il dolo consta di due componenti psicologiche, concettualmente distinguibili ed autonomamente accertabili, affrancare il giudizio di colpevolezza da una seria indagine probatoria sull’ elemento volitivo provocherebbe un’inaccettabile amputazione nel dolo del coefficiente che più lo caratterizza.
Il che è inammissibile tanto in caso di difficoltà di accertamento processuale della concreta connessione tra l’atteggiamento interiore e l’evento, quanto nelle frequenti ipotesi di situazioni probatorie insufficienti, che l’intuito raffinato dell’interprete non può colmare, cedendo alla tentazione di farsi protagonista di scelte politico- criminali. Nei casi incerti, in cui non è processualmente accertabile la consistenza empirico- psicologica del coefficiente soggettivo della volontà, la soluzione privilegiata dalle SS.UU. non può che essere quella di rinunziare all’imputazione soggettiva più grave a favore di quella colposa (ove prevista dalla legge), in omaggio al principio del favor rei.