Delitto di evasione e principio di offensività
Cassazione penale, sez. VI, 4 novembre 2015 (ud. 6 ottobre 2015), n. 44595
Presidente Agrò, Relatore Villoni, P.G. Di Nardo
La Massima
Non configura il delitto di evasione la condotta dell’agente agli arresti domiciliari, il quale, dopo una lite con la propria moglie e dopo aver avvertito telefonicamente le forze dell’ordine, si sia collocato al di fuori dell’abitazione, e tuttavia nelle immediate vicinanze della stessa, e abbia atteso l’arrivo dei poliziotti al fine di essere condotto in carcere. Tale condotta si palesa intrinsecamente non violativa del bene giuridico tutelato, che consiste non solo nel rispetto del dato formale del provvedimento giudiziario (nel caso di specie, ordinanza cautelare) ma altresì nella concreta possibilità, per l’Autorità, di controllare i movimenti del detenuto, configurando piuttosto un reato impossibile ai sensi dell’art. 49 co. 2 cod. pen.
Il Commento
La pronunzia che qui si annota riguarda il caso di un soggetto detenuto agli arresti domiciliari, il quale, stremato in seguito ad un litigio con la propria moglie, aveva avvertito telefonicamente le forze dell’ordine del fatto che sarebbe uscito dall’abitazione e avrebbe atteso i poliziotti fuori casa, al fine di farsi condurre in carcere.
I giudici di merito, di primo e secondo grado, avevano condannato l’imputato per il delitto di evasione, previsto e punito dall’art. 385 cod. pen., ritenendo che, oltre all’elemento oggettivo consistente nell’abbandono dei confini entro i quali l’imputato era obbligato a permanere, fosse integrato senza dubbio anche il coefficiente psichico, il quale infatti consiste nel dolo generico, non rilevando affatto gli specifici motivi che avevano indotto il reo all’evasione. Tali motivi potevano esclusivamente influire sulla commisurazione della pena, ma non sull’an dell’illecito.
Orbene, prima di prendere in esame il dictum della Corte di legittimità, è opportuno osservare che il delitto menzionato si configura quando l’agente, «essendo legalmente arrestato o detenuto per un reato, evade», dovendosi inserire nel novero dei soggetti legalmente arrestati anche chi è posto agli arresti domiciliari in via cautelare. La norma in cui tale delitto è incardinato è posta nel Titolo III (Delitti contro l’amministrazione della giustizia), Capo II (Dei delitti contro l’autorità delle decisioni giudiziarie), sicché essa si espone ad una lettura alternativa, di tipo formale o sostanziale, a seconda della morfologia che si intende accordare al bene giuridico di riferimento.
Infatti, secondo una prima impostazione, essendo quest’ultimo costituito dalla “autorità” delle decisioni giudiziarie (in cui vanno contemplate altresì le ordinanze cautelari), la condotta tipica dovrebbe coincidere con la sottrazione allo stato di restrizione personale, in quanto già con tale atto è violato l’interesse al rispetto dei provvedimenti emessi dall’autorità giudiziaria (in questi termini, si veda Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 1993, n. 8245; Cass. pen., sez. VI, 17 gennaio 1984, n. 429; in dottrina, v. CATENACCI, Reati contro la pubblica amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia, in Trattato teorico-pratico di diritto penale, diretto da Francesco Palazzo e Carlo Enrico Paliero, Giappichelli, 2011, p. 590). Questa tesi, di estrazione formalistica, comporta necessariamente che la condotta tipica sia accompagnata, sul piano soggettivo, da un dolo generico avente ad oggetto la consapevolezza di violare, con la propria condotta, l’ordine insito nel provvedimento giurisdizionale.
Altra parte della dottrina e della giurisprudenza adotta una visione sostanzialistica, ritenendo che la lesione del bene giuridico, e dunque il momento consumativo, si verifichi quando il soggetto, mediante la propria condotta a monte contrastante col contenuto formale del provvedimento, arrivi a sottrarsi, sul piano concreto, alla vigilanza dell’Autorità (cfr. Cass. pen., sez. VI, 6 febbraio 1985, n. 1266; in dottrina, v. FIANDACA, Diritto penale. Parte speciale, I, Zanichelli, 2008, p. 419). Il riverbero sul piano dell’elemento psicologico sta in ciò, che il dolo, quale rappresentazione e volontà del fatto tipico deve coprire non solo la frizione formale tra la condotta e quanto incluso nella decisione del magistrato (i.e., la fuoriuscita dal perimetro in cui il detenuto era inserito per ordine vincolante), ma anche quel quid pluris consistente nella effettiva sottrazione del reo al controllo dell’Autorità.
Con la sentenza in epigrafe, la sesta Sezione pare aderire alla tesi da ultimo riferita. Infatti, i supremi Giudici, accogliendo il ricorso del difensore, rammentano che «la ratio che sorregge la norma di cui all’art. 385 cod. pen. consiste nell’obbligo imposto alla persona sottoposta alla misura detentiva domiciliare di rimanere nel luogo indicato e non allontanarsene senza autorizzazione […] e nel contempo nel consentire agevolmente i prescritti controlli da parte dell’autorità di polizia giudiziaria addetta». In tal modo, approfondisce la Corte, la condotta illecita va rintracciata «nell’allontanamento senza autorizzazione dal domicilio coatto e nella sottrazione ai controlli dell’autorità di P.G.».
In questo modo, assumendo il bene giuridico una conformazione non solo formale (rispetto dell’atto nel suo contenuto “geometricamente” rilevante) ma anche sostanziale (controllo effettivo del detenuto), la condotta di chi – pur avendo travalicato i confini assegnati – si assoggetti concretamente al possibile controllo dell’autorità di P.G., diventa inoffensiva del bene giuridico tutelato, e dunque irrilevante penalmente e non punibile in ossequio all’art. 49 comma 2 cod. pen. (c.d. reato impossibile). E’ vero infatti che tale condotta palesa, in omaggio ai principi giurisprudenziali più accreditati, una inidoneità assoluta, originaria ed intrinseca ad offendere il bene giuridico protetto dalla norma penale, restituendo al mittente ogni anelito di pretesa punitiva.
Va rilevato, infatti, che, secondo l’orientamento più accreditato, il quale respinge l’antica teorica del reato impossibile come doppione in negativo del tentativo idoneo, l’art. 49 co. 2 c.p. si pone come addentellato normativo del principio di offensività a livello di legge ordinaria, salvo poi disquisire sulla questione se il reato impossibile sia un fatto tipico ed inoffensivo od un fatto atipico (proprio) a causa della sua inoffensività. Quest’ultima impostazione è attualmente dominante e pone l’offensività a criterio guida per il Legislatore (a monte) e per l’interprete (a valle), richiedendo al primo di prevedere come reati “fatti” che possono in concreto tradursi in ”offesa” ad interessi tutelati. “Fatti”, perché il diritto penale è ispirato al principio di materialità per cui un comportamento può essere reato solo se il proposito criminoso travalica il foro interiore dell’autore (art. 25 co. 2 Cost.), “offensivi” in quanto solo la reale offesa ad un interesse giuridico può essere punita con una (indiscutibilmente reale) offesa alla libertà personale e/o al patrimonio del reo e può giustificare (qualora retta dal coefficiente psichico almeno colposo) la consapevolezza di quest’ultimo della necessità/opportunità di essere sottoposto a trattamento rieducativo (artt. 13, 42, 27 Cost.). Si rivolge anche all’interprete, come si anticipava, in quanto il giudice, dal canto suo, deve sempre interpretare il fatto stigmatizzato nella norma incriminatrice nella sua accezione potenzialmente offensiva, sicché, se il fatto concreto non è sussumibile in tale accezione, esso, poiché inoffensivo, è anche atipico.
Quanto detto, vale a dire l’atipicità del fatto inoffensivo, è maggiormente comprensibile laddove si ponga mente alla concezione di evento in senso giuridico. La tradizionale bipartizione dei reati in reati di pericolo e reati di danno o di evento naturalistico ha lasciato il posto, proprio in omaggio al principio di offensività che vede quale evento di ogni reato l’offesa, alla unificazione di tutti gli illeciti nella categoria di reati di evento in senso giuridico. E’ allora evidente che, essendo tutti i reati “reati di evento”, ed essendo contestualmente l’evento un elemento strutturale del fatto tipico, se esso (e cioè, se l’offesa) difetta, il fatto non è tipico. Ed infatti, in linea con le predette osservazioni, la Corte chiude la sentenza in epigrafe con la formula «il fatto non sussiste».
Si badi, il caso concreto, vagliato dal Giudice della nomofilachia sotto la lente del principio di offensività, è ben diverso da altre fattispecie che da anni approdano all’attenzione della magistratura, e che concernono l’allontanamento effettivo di taluno dal luogo degli arresti domiciliari per raggiungere gli uffici di polizia giudiziaria più vicini, al fine di consegnarsi per essere tradotto in carcere, anche in questi casi per sfuggire alle ire del pressante coniuge.
Tali ipotesi hanno infatti generato maggiori dilemmi interpretativi, portando le sezioni semplici del Giudice di legittimità a contrasti interni tuttora irrisolti. Alcune pronunzie hanno fornito una soluzione sfavorevole all’imputato, analizzando il caso sotto il profilo dell’assenza dello stato di necessità e della irrilevanza nel delitto di evasione del dolo specifico, caro ad una parte della dottrina, consistente nella volontà di acquistare la libertà personale (Cass. pen., sez. VI, 18 aprile 2013, n. 17910; Cass. pen., sez. VI, 9 giugno 2009, n. 26163); altre statuizioni hanno invece preferito conferire pregnanza proprio ad un asserito difetto di dolo nel caso in cui il soggetto agente abbia lasciato il proprio domicilio a causa di liti familiari, nonché ad una complessiva inoffensività del fatto laddove l’imputato si sia diretto per la via più breve verso la stazione dei Carabinieri più vicina, non essendosi così effettivamente sottratto alla vigilanza dell’Autorità (Cass. pen., sez. VI, 11 giugno 2013, n. 25583).
Pur evitando prese di posizione sulla questione testé citata, che non costituisce strettamente l’oggetto di analisi del presente commento, chi scrive osserva che l’adesione alla tesi “sostanziale” – sensibile ad un’estensione delle maglie del bene giuridico al di là del mero ossequio alla lettera del provvedimento giurisdizionale – non comporta la surrettizia aggiunta, nell’art. 385 c.p., di un dolo specifico di guadagnare definitivamente la libertà personale, elemento invero non contemplato dal Legislatore: una cosa è ritenere necessario che il dolo (generico) abbia ad oggetto la sottrazione al controllo dell’Autorità; altro è richiedere, per il perfezionamento del reato, l’obiettivo di guadagnare la definitiva libertà personale.
Ed infatti il caso di chi si allontana dalla propria abitazione e raggiunge la Stazione dei Carabinieri più vicina, per sfuggire ad una caotica situazione familiare, verrebbe risolto in modi completamente opposti, laddove si aderisse alla tesi sostanziale piuttosto che alla concezione che richiede il dolo specifico surriferito.
Nel primo caso, vale a dire seguendo la concezione sostanziale, il soggetto agente, nel percorso dall’abitazione agli uffici di p.g., fa certamente perdere all’Autorità ogni possibilità di controllo sui suoi movimenti (e su tale momento si innestano certamente la consapevolezza e la volontà), a nulla valendo che tale controllo venga ripristinato una volta giunto presso detti uffici (o, in altri termini, la rilevanza è post delictum) e che tale fosse il preciso fine dell’autore (in quanto ciò sarebbe rilevante solo richiedendo, per il perfezionamento del reato, il dolo specifico di ottenere una definitiva libertà personale). L’esito, insomma, può coincidere con la condanna.
Nel secondo caso, cioè richiedendo quale elemento strutturale del delitto di evasione il precipuo fine di guadagnare definitivamente la libertà personale, il fatto tipico non si consumerebbe, in quanto, per tutta la durata della condotta, difetterebbe nella psiche del soggetto il dolo specifico richiesto. L’esito, dunque, è sicuramente assolutorio.