Caso Cucchi: la sentenza della Corte di Cassazione
Cassazione Penale, Sez. V, 9 marzo 2016 (ud. 15 dicembre 2015), n. 9831
Presidente Savani, Relatore Guardiano, P.M. Rossi
Segnaliamo, in considerazione dell’interesse mediatico della vicenda, il deposito delle motivazioni della sentenza con cui la Corte di Cassazione, all’udienza del 15 dicembre 2015, ha annullato la pronuncia di assoluzione nei confronti dei cinque medici coinvolti nel caso Cucchi disponendo il rinvio ad un’altra sezione della Corte di Assise d’Appello di Roma.
Nella sentenza di appello – scrivono i giudici della Cassazione – si rinvengono una serie di affermazioni che mal si conciliano con i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di responsabilità per colpa medica.
Anzitutto la Corte si sofferma sulla pretesa impossibilità di giungere ad una decisione in termini di responsabilità per l’assenza “di precise linee-guida” o per le “condizioni concrete in cui i sanitari si sono trovati ad operare” (in un reparto che aveva in quei giorni ben 21 degenti e che manteneva le caratteristiche proprie dell’ambiente carcerario) ovvero per la “complessità“, “oscurità” ed “atipicità” delle condizioni di salute del Cucchi. Tali giustificazioni, ad avviso della Corte, non tengono conto della consolidata elaborazione al riguardo della giurisprudenza della Suprema Corte.
Come è noto, infatti, le linee guida previste dall’art. 3 d.l. 13 settembre 2012 n. 158 (conv. in I. 8 novembre 2012 n. 189) consistenti in raccomandazioni di comportamento clinico sviluppate attraverso un processo sistematico di elaborazione per coadiuvare medici e pazienti nel decidere quali siano le modalità di assistenza più appropriate in specifiche circostanze cliniche (cfr. Cass., sez. IV, 05/11/2013, n. 18430, rv. 261293), «se provenienti da fonti autorevoli e caratterizzate da un adeguato livello di scientificità, pur rappresentando un importante ausilio scientifico, con il quale il medico è tenuto a confrontarsi, non eliminano l’autonomia del medico nelle scelte terapeutiche, giacché questi è sempre tenuto a prescegliere la migliore soluzione curativa, considerando le circostanze peculiari che caratterizzano il caso concreto e la specifica situazione del paziente, nel rispetto della volontà di quest’ultimo, al di là delle regole cristallizzate nei protocolli medici».
Pertanto – si legge in sentenza – «l’assenza di precise linee-guida (affermazione, peraltro, del tutto tautologica della corte territoriale) non impedisce l’indagine giudiziale sul nesso causale, perché in mancanza di linee-guida, occorrerà fare comunque riferimento alle virtuose pratiche mediche o, in mancanza, alle corroborate informazioni scientifiche di base, con la conseguenza che quanto maggiore sarà il distacco dal modello di comportamento, tanto maggiore sarà la colpa del sanitario».
Né – prosegue la Corte – «va taciuto il consolidato principio (su cui la corte territoriale non ha sufficientemente meditato), secondo cui, in tema di colpa professionale, una volta che un paziente si presenti presso una struttura medica, chiedendo l’erogazione di una prestazione professionale, il medico, in virtù del “contatto sociale“, assume una posizione di garanzia della tutela della sua salute ed anche se non può erogare la prestazione richiesta deve fare tutto ciò che è nelle sue capacità per la salvaguardia dell’integrità del paziente, innanzitutto diagnosticando con precisione la patologia da cui è affetto, anche in presenza di una situazione complessa, che, certo, non può giustificare l’inerzia del sanitario o il suo errore diagnostico (ad eccezione dei casi di colpa lieve previsti dall’art. 3, I. 8 novembre 2012 n. 189), per cui appare improprio invocare le difficoltà di inquadrare il quadro patologico o, come afferma la corte territoriale, “di legare tra loro le informazioni cliniche raccolte”, per giustificare la mancanza di indagine sul nesso causale».
Siffatto principio, peraltro, assume una particolare configurazione quando si tratta di accertare le cause del decesso di un paziente all’interno di una struttura sanitaria complessa, come quella in cui era stato ricoverato il Cucchi.
In tal caso, infatti, «la mera instaurazione del c.d. rapporto terapeutico, non assume di per sé un valore decisivo, occorrendo accertare la concreta organizzazione della struttura, con particolare riguardo ai ruoli, alle sfere di competenza ed ai poteri doveri dei medici coinvolti nella specifica vicenda, senza dimenticare che il medico che, all’interno di una struttura di tal genere, riveste funzioni apicali è titolare di un pregnante obbligo di garanzia ed è, pertanto, tenuto a garantire la correttezza delle diagnosi effettuate e delle terapie praticate ai pazienti».
Infine va rilevato che «la presenza di indici rivelatori di stati patologici preesistenti concomitanti con il politraumatismo per il quale il Cucchi era stato ricoverato – su cui insiste la corte territoriale per sottolineare come, per tale ragione, fossero “di non facile interpretazione le iniziali modificazioni di alcuni valori (come quello dell’azotemia) registrate dopo gli esami del 19 e del 21 ottobre” (cfr. p. 58) – avrebbe dovuto imporre una maggiore attenzione ed approfondimento, secondo i principi tipici della cd. diagnosi differenziale, alla luce dei quali quando il sanitario si trova di fronte ad una sintomatologia idonea a formulare una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non si proceda alla stessa, e ci si mantenga, invece, nell’erronea posizione diagnostica iniziale».