Offendere su Facebook? Ė diffamazione aggravata
Cassazione Penale, Sez. V, 1 marzo 2016 (ud. 13 luglio 2015), n. 8328
Presidente Bruno, Relatore Pezzullo, P.G. Delehaye (concl. conf.)
Con la Sentenza in commento la Corte di Cassazione ha confermato le precedenti pronunce giurisprudenziali intervenute sul (quanto mai attuale) tema della pubblicazione di commenti di natura offensiva su social network quali Facebook, rilevando come tale condotta sia idonea a configurare il delitto di diffamazione aggravata.
Questa la vicenda, in breve.
Con Sentenza di primo grado, l’imputato veniva condannato, ai sensi dell’art. 595, co. 3, c.p., alla pena di € 1.500,00 di multa, con la diminuente del rito abbreviato, per avere danneggiato la reputazione dell’allora Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana, pubblicando sulla propria bacheca di Facebook alcune frasi (talvolta anche associate alle immagini della persona offesa) dal contenuto diffamatorio (in particolare, la vittima veniva definita quale «parassita», «cialtrone», «mercenario»).
Avverso tale Sentenza l’imputato proponeva ricorso per cassazione, essenzialmente rilevando come le copie stampate delle pagine web, allegate nell’atto di denuncia-querela sporta dalla persona offesa, non avessero alcun valore probatorio, stante l’assenza di qualsivoglia garanzia di autenticità ovvero di riferibilità delle stesse all’imputato; eccezione, questa, che, alla luce degli elementi probatori acquisiti nel corso del giudizio di primo grado, veniva ritenuta infondata dalla Suprema Corte.
In sede di motivazione, tuttavia, la Cassazione, lungi dal limitarsi a rilevare quanto precede, ha colto l’occasione per ulteriormente confermare la giurisprudenza intervenuta (soprattutto a partire dal 2014) con riguardo alla configurabilità del delitto di cui all’art. 595, co. 3, c.p., nell’ipotesi di pubblicazione/diffusione, a mezzo Internet, di contenuti lesivi dell’altrui reputazione.
Sul punto, giova preliminarmente ricordare quanto evidenziato dalla precedente giurisprudenza, secondo cui «ai fini della integrazione del reato di diffamazione, anche a mezzo di Internet, è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone indipendentemente dalla indicazione nominativa» (Cass. pen., sez. I, 22 gennaio 2014, n. 16712, in Guida al diritto 2014, 20, 78 (s.m)).
Del resto «il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due» (Cass. pen., id.).
Com’è noto, il reato tipizzato all’art. 595, co. 3, c.p. trae fondamento nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone, ancorché non individuate nello specifico ed apprezzabili soltanto in via potenziale, con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa.
Strumento principe per la configurabilità dell’anzidetta fattispecie criminosa è senza dubbio il mezzo della stampa, al quale il legislatore ha giustapposto, nella disposizione in analisi, «qualsiasi altro mezzo di pubblicità».
In forza delle suesposte considerazioni, con la Sentenza in commento la Cassazione, è giunta, così, a sostenere che «anche la diffusione di un messaggio con le modalità consentite dall’utilizzo per questo di una bacheca Facebook, ha potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, sia perché, per comune esperienza, bacheche di tal natura racchiudono un numero apprezzabile di persone (senza le quali la bacheca Facebook non avrebbe senso) sia perché l’utilizzo di Facebook integra una delle modalità con le quali gruppi di soggetti socializzano le rispettive esperienze di vita, valorizzando in primo luogo il rapporto interpersonale, che, proprio per il mezzo utilizzato, assume il profilo di del rapporto interpersonale allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione».
Pertanto, posto che Facebook costituisce una vera e propria “piazza virtuale”, ove la pubblicazione di un messaggio in bacheca ha potenzialmente, per il sol fatto di essere diffuso con tale mezzo, la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, con la decisione in commento la Suprema Corte ha ribadito che «la condotta di postare un commento sulla bacheca di facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica».
Di talchè, «se offensivo tale commento, la relativa condotta rientra nella tipizzazione codicistica descritta dall’art. 595 c.p., comma 3».