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Determinazione del profitto confiscabile nei reati in contratto

Cassazione

Cassazione Penale, Sez. VI, 2 marzo 2016 (ud. 13 gennaio 2016), n. 8616
Presidente Paoloni, Relatore Bassi

Nella sentenza in esame, la Suprema Corte affronta il tradizionale tema relativo alla definizione del profitto confiscabile in caso di reati-contratto e reati in contratto, applicando i principi sinora elaborati in materia all’ambito della criminalità cd. “economica”.

La vicenda da cui il caso trae origine è quella del direttore amministrativo di una S.p.A. che, nell’ambito di procedure ad evidenza pubblica amministrate per conto di un ente regionale, affidava in via diretta a diversi legali taluni servizi professionali in ambito stragiudiziale, in violazione della procedura prevista per legge e con una maggiorazione dei compensi relativi alle prestazioni effettivamente eseguite.

Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Milano, in conformità al rito alternativo scelto, procedeva ex art. 444 c.p.p. con l’applicazione della pena su richiesta per i reati di associazione per delinquere, turbata libertà nella scelta del contraente, truffa aggravata e falso. Inoltre, ritenendo si trattasse di reati-contratto, nell’ambito dei quali è la stessa stipula del negozio ad integrare la fattispecie, il giudice di primo grado disponeva la confisca per l’intero ammontare del profitto relativo ai reati nei quali l’imputato aveva concorso.

La Suprema Corte, in parziale accoglimento del ricorso presentato dall’imputato, annullava la sentenza limitatamente alla disposta confisca per equivalente, rinviando al Tribunale di Milano per una nuova deliberazione sul punto.

Nel motivare il rinvio in questione, la Cassazione richiama preliminarmente la definizione di “profitto”, già delineata a più riprese dalla Sezioni Unite, quale “lucro”, e cioè vantaggio economico che si ricava per effetto della commissione del reato, specificando che deve sempre trattarsi di un vantaggio di “diretta derivazione causale” dall’attività del reo.

Tuttavia, la nozione di “profitto” suscettibile di ablazione è stata tradizionalmente elaborata dalla giurisprudenza di legittimità con riguardo a reati contro il patrimonio che importano una spoliazione della persona offesa (quali il furto o la rapina), o comunque con riguardo a reati la cui condotta si sostanzia nella stipula di un contratto a prestazioni corrispettive, avente oggetto illecito (si pensi alla cessione di sostanze stupefacenti). Ebbene, rispetto a tali fattispecie, il profitto confiscabile è stato sempre individuato nell’intero valore delle cose ottenute attraverso la condotta criminosa o, comunque, nell’intero valore della controprestazione del rapporto sinallagmatico.

Di gran lunga più problematica – osserva la Corte – è la questione relativa alla determinazione del profitto confiscabile allorché si abbia a che fare, come nel caso di specie, con forme di criminalità cd. economica, vero punctum dolens della pronuncia in esame. Trattasi, infatti, di un tipo peculiare di criminalità, solitamente connessa ad un’attività lecita d’impresa, nella quale si insinuano condotte integranti reato. Si pensi, ad esempio, ai reati di truffa o di corruzione finalizzati alla aggiudicazione di un appalto ovvero ad ottenere la liquidazione da parte del pubblico ufficiale di un corrispettivo più elevato di quello dovuto nell’ambito di un rapporto sinallagmatico stipulato fra impresa privata ed ente pubblico.

A ben vedere, in questi casi, l’illecito si inserisce nell’ambito di un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, di per sé non illegale; conseguentemente, risulta più complesso stabilire se il profitto del reato sia rappresentato dall’intero valore del contratto stipulato, ovvero se esso debba essere circoscritto al guadagno netto conseguito dall’imprenditore nel dare esecuzione alla prestazione pattuita.

In ossequio al principio di legalità e alla regola in base alla quale crimen non lucrat, allorché si tratti di illecito commesso nell’ambito di una lecita attività d’impresa, il profitto deve necessariamente essere circoscritto al vantaggio “causalmente” riconducibile all’attività illegale. Contrariamente, il rischio sarebbe quello di danni irreparabili per l’impresa, come pure per i terzi incolpevoli, quali lavoratori e creditori.

La Suprema Corte propone, quindi, l’estensione dei principi già affermati in riferimento ad altri ambiti anche ai casi di criminalità economica, tracciando un netto discrimen tra profitto conseguente da un “reato contratto” e profitto derivante da un “reato in contratto” (cfr. ex plurimis Cass. pen., Sez. Un., n. 25654/2008).

In particolare, nel primo caso, si verrebbe a determinare una vera e propria immedesimazione del reato col negozio giuridico, con la conseguenza che quest’ultimo risulterebbe integralmente contaminato da illiceità.  Il relativo profitto, poiché conseguenza immediata dell’attività illecita, sarebbe quindi integralmente assoggettabile a confisca.

Nella seconda ipotesi, in cui il comportamento penalmente illecito – invece- non coincide con la stipula del contratto, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione del programma negoziale, il profitto tratto dall’agente ben potrebbe essere non direttamente riconducibile alla condotta penalmente rilevante. Ed invero, è possibile ravvisare in questo genere di rapporti aspetti del tutto leciti, posto che il contratto alla base è assolutamente valido inter partes (trattandosi, al più, di contratto annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.).

Ne segue che, in casi come questo, il profitto confiscabile non dovrà essere identificato con l’intero valore del rapporto sinallagmatico instaurato con la P.A., ma dovrà piuttosto distinguersi tra il vantaggio economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo conseguito per una prestazione lecita compiuta in favore della controparte (profitto non confiscabile). Altrimenti opinando si giungerebbe, infatti, ad una “estensione indiscriminata”  della confisca, sino a coprire qualsiasi vantaggio patrimoniale, indiretto o mediato, che possa comunque scaturire da un reato.

Da ultimo, la Suprema Corte esamina un problema di ordine prettamente pragmatico, vale a dire la determinazione del valore dell’utilitas conseguita dalla controparte in esecuzione del contratto, quale unica voce sottratta all’ablazione.

A tal proposito, si rileva che l’utilitas in parola non può essere commisurata né al prezzo indicato nel contratto,  che risulta necessariamente viziato dall’attività illecita, né al valore di mercato della prestazione, in quanto inglobante anche un margine di guadagno per l’impresa, ovverosia un quid pluris rispetto al valore  “nudo” della prestazione, che non può essere riconosciuto in base alla regola per cui l’illecito non paga.

La soluzione proposta dalla Corte postula che il valore della prestazione svolta a vantaggio della controparte, non assoggettabile a confisca poiché solo indirettamente collegato all’illecito, debba essere commisurato ai soli “costi vivi, concreti ed effettivi” che l’impresa ha sostenuto per dare esecuzione all’obbligazione contrattuale.