La coltivazione di cannabis per uso personale è condotta penalmente rilevante. La Consulta deposita le motivazioni
in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 5
Corte Costituzionale, Sentenza n. 109/2016
Presidente Grossi, Redattore Frigo
Come avevamo anticipato, con sentenza del 9 marzo scorso la Corte Costituzionale aveva dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d’Appello di Brescia con riferimento all’art. 75, DPR 9 ottobre 1990, n. 309. Tale questione era riferita alla particolare condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti per uso personale, la quale a norma di legge assume rilevanza penale.
Venerdì scorso, 20 maggio, la Consulta ha depositato le motivazioni, che si vanno qui brevemente ad illustrare.
Come è noto, l’art. 75 sancisce la irrilevanza penale di alcune condotte aventi ad oggetto le sostanze stupefacenti. Esso in particolare qualifica come meri illeciti amministrativi l’importazione, l’esportazione, l’acquisto, la ricezione a qualsiasi titolo e la mera detenzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, qualora questi atti siano posti in essere con la finalità dell’uso personale.
Tale norma si pone evidentemente in contrapposizione con l’art. 73 della medesima legge, che invece assegna rilevanza penale, quale che ne sia la finalità, alle condotte -tra l’altro- di coltivazione, produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione, vendita, offerta o messa in vendita, cessione di tali sostanze.
Orbene, il giudice a quo aveva sollevato la questione relativamente alla specifica condotta della coltivazione, paventando un contrasto dell’art. 75 con alcune disposizioni costituzionali, nella parte in cui non prevede che anch’essa sia degradata ad illecito amministrativo ove posta in essere per la finalità di uso personale.
Nello specifico, ad avviso della Corte territoriale, la norma in parola si porrebbe anzitutto in contrasto con l’art. 3 Cost., per violazione dei principi di eguaglianza e ragionevolezza. L’art. 75 infatti considererebbe penalmente irrilevante la condotta di chi detiene lo stupefacente a fini di consumo personale, quale che sia il comportamento pregresso (coltivazione o, ad esempio, acquisto).
Quanto sopra condurrebbe evidentemente a contrasto flagrante col dettato dell’art. 3, poiché imporrebbe la particolare (ed ingiustificata) disparità di trattamento fra chi detiene per uso personale la sostanza stupefacente ricavata da piante da lui stesso in precedenza coltivate e chi è invece sorpreso mentre ha ancora in corso l’attività di coltivazione, finalizzata sempre all’uso personale. In questo modo la prima circostanza indurrebbe ad un assorbimento dell’illecito penale in quello amministrativo, mentre la seconda integrerebbe effettivamente il reato. La rilevanza amministrativa o penale dell’illecito finirebbe, in altre parole, per dipendere – irrazionalmente – dal momento della scoperta.
La seconda doglianza era invece relativa alla sospetta violazione del principio di necessaria offensività del fatto, ricavabile dalla disposizione combinata degli artt. 13, secondo comma, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost..
Il giudice a quo, ben consapevole che tale questione era già stata posta in passato all’attenzione della Consulta, la quale aveva fornito risposta negativa, ha tuttavia ritenuto di riproporre siffatte censure alla luce di due (asseriti) elementi di novità: l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità in ordine alla ratio delle norme incriminatrici di settore e la normativa sovranazionale sopravvenuta.
Sotto il primo profilo, facendo leva sul dettato della sentenza delle Sezioni Unite n. 9973/1998, la quale aveva individuato lo scopo dell’incriminazione all’art. 73 nel “combattere il mercato della droga, (..) che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni”, la Corte territoriale notava che la coltivazione di piante di cannabis finalizzata al consumo personale, proprio perché non prodromica all’immissione della droga sul mercato, risulterebbe radicalmente inidonea a ledere tali beni giuridici e, dunque, inoffensiva.
Quanto invece al profilo internazionale, la Decisione Quadro 25 ottobre 2004, n. 2004/757/GAI, riguardante la fissazione di norme minime relative agli elementi costitutivi dei reati e alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti, asseritamente corrobora l’inoffensività della condotta di coltivazione ad uso personale, laddove, dopo aver enumerato le condotte connesse al traffico di stupefacenti che gli Stati membri dell’Unione europea sono chiamati a configurare come reati (tra cui figura anche la coltivazione della cannabis), la stessa esclude dal proprio campo applicativo le condotte (coltivazione compresa) poste in essere a mero fine di uso personale.
Come anticipato, la Consulta ha ritenuto che tutte tali questioni fossero infondate, e le ha dunque rigettate.
Quanto precipuamente all’asserito contrasto con l’art. 3, si è osservato che tale censura “poggia su una premessa inesatta: ossia, che la detenzione per uso personale dello stupefacente ‘autoprodotto’ renda non punibile la condotta di coltivazione, rimanendo il precedente illecito penale ‘assorbito’ dal successivo illecito amministrativo. In realtà, tale assorbimento non si verifica affatto: a rimanere ‘assorbito’, semmai, è l’illecito amministrativo, dato che la disponibilità del prodotto della coltivazione non rappresenta altro che l’ultima fase della coltivazione stessa, ossia la ‘raccolta’ del coltivato. In questa prospettiva, la disparità di trattamento denunciata non sussiste: il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente ‘raccolto’ e il coltivatore ’in atto’ rispondono entrambi penalmente”.
La doglianza riferita alla supposta violazione del principio di offensività ha invece richiesto un ragionamento più articolato.
In primis la Corte, citando la propria giurisprudenza, ha rammentato che il principio di offensività può operare anche in astratto, sempreché la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all’id quod plerumque accidit. Sulla scorta di questa osservazione, i Giudici hanno poi ricordato che, con sentenza n. 360/1995, la Corte aveva ritenuto che l’incriminazione della coltivazione di piante da cui si estraggono sostanze stupefacenti, a prescindere dalla destinazione del prodotto, rispettasse la suddetta condizione, poggiando su una non irragionevole valutazione prognostica di attentato al bene giuridico protetto.
Confermando tali valutazioni, la Corte ha notato come il Legislatore abbia riconosciuto, per condotte in sé neutre, quali la coltivazione, la produzione, la fabbricazione, l’estrazione e la raffinazione, un tenore di pericolosità tale da prevedere per esse la sanzione penale.
Tutte siffatte condotte in effetti presentano la “peculiarità di dare luogo ad un processo produttivo in grado di ‘autoalimentarsi’ e di espandersi, potenzialmente senza alcun limite predefinito, tramite la riproduzione dei vegetali. Tale attitudine ad innescare un meccanismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pubblica (..) oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico”.
Il principio di offensività non è dunque compromesso, né tale conclusione può essere sovvertita dall’ultimo argomento sollevato dal giudice rimettente e riferito alla citata normativa internazionale.
La Decisione Quadro in parola infatti “reca solo «norme minime» in tema di repressione penale delle condotte aventi ad oggetto sostanze stupefacenti. Essa non obbliga gli Stati membri a prevedere come reato la coltivazione per uso personale, ma neppure impedisce loro di farlo. Nel quarto ‘considerando’ si afferma, anzi, espressamente che «l’esclusione di talune condotte relative al consumo personale dal campo di applicazione della presente decisione quadro non rappresenta un orientamento del Consiglio sul modo in cui gli Stati membri dovrebbero trattare questi altri casi nella loro legislazione nazionale»”.
Per tutti questi motivi dunque, la Corte Costituzionale ha dichiarato la questione non fondata. Per conseguenza, la coltivazione di sostanze stupefacenti rimane penalmente rilevante, a prescindere dalla finalità per cui tale condotta sia posta in essere.