“No case to answer” per Ruto e Sang: la Corte Penale Internazionale lascia cadere le accuse, tra molti dubbi
In Giurisprudenza Penale Web, 2016, 5
International Criminal Court
Decision on Defence Applications for Judgments of Acquittal, 15 January – 5 April 2016
in the Case of The Prosecutor v. William Samoei Ruto and Joshua Arap Sang
La persecuzione dei crimini contro l’umanità compiuti nel contesto delle violenze post-elettorali del 2007 in Kenya ha conosciuto un’altra battuta d’arresto con la recente sentenza della Trial Chamber V della Corte Penale Internazionale, emanata il 5 aprile 2016. I tre giudici di primo grado hanno deciso, a maggioranza, di annullare per insufficienza di prove le accuse formulate contro l’attuale Vice Presidente Keniano William Ruto e l’ex giornalista radiofonico Arap Sang, entrambi accusati dei seguenti crimini contro l’umanità: omicidio (ai sensi dell’art. 7(1)(a) dello Statuto di Roma), deportazione o trasferimento forzato della popolazione (ex art. 7 (1) (d)), persecuzione (ex art. 7 (1)(h)).
Già in precedenza, nel dicembre del 2014, la Procura della Corte aveva dovuto ritirare le accuse a carico del Presidente Uhuru Kenyatta(1), primo capo di Stato a comparire davanti alla CPI, in quanto le prove fino a quel momento raccolte non erano state ritenute sufficienti a formulare nei suoi confronti un giudizio di responsabilità al di là di ogni ragionevole dubbio. In entrambi i casi, l’esito dell’esercizio dell’azione penale ha reso evidenti le difficoltà della Procura della Corte a compiere delle investigazioni efficaci all’interno di un paese spesso restio a prestare la propria collaborazione.
1. I fatti in breve: cenni sul contesto storico e politico della vicenda
In seguito alla proclamazione dei risultati dell’elezioni presidenziali del 2007, il Kenya fu scenario di violenti attacchi perpetrati da alcuni gruppi della popolazione Kalenji, abitanti della zona centrale della Rift Valley, nei confronti della popolazione civile appartenente ad altri gruppi etnici, percepiti come oppositori al partito di maggioranza, l’Orange Democratic Movement. Tali attacchi furono sferrati in modo sistematico da un’organizzazione (indicata poi nel corso del processo come “Network “, rete), che rispondevano a un comando superiore ed erano organizzati secondo una gerarchia interna. La rete disponeva dei mezzi necessari per condurre attacchi su vasta scala contro la popolazione civile, comprese ingenti quantità di denaro, armi e soldati.
Secondo la ricostruzione della Procura, il sig. William Ruto, allora membro dell’Orange Democratic Movement, prestò un contributo essenziale alla messa in pratica del piano di repressione, organizzando e coordinando la commissione di attacchi sistematici su vasta scala, da qualificarsi quali crimini contro l’umanità. In particolare, egli era accusato di aver in prima persona pianificato gli attacchi e curato la loro realizzazione nell’area della Rift Valley, di aver creato una rete di esecutori in supporto della messa in azione del piano, di aver direttamente negoziato o monitorato l’acquisto delle armi, di aver fornito istruzioni precise agli assalitori sugli obiettivi da colpire e da ultimo, di aver ideato un sistema di retribuzione a cottimo degli esecutori, in base al numero di oppositori uccisi o proprietà depredate.
Sempre stando all’accusa, anche il sig. Joshua Arap Sang contribuì alla realizzazione del piano, facendo uso della sua influente posizione all’interno dell’emittente radio Kass FM. Egli, infatti, avrebbe messo il suo programma radiofonico a completa disposizione dell’organizzazione, pubblicizzandone riunioni e assemblee, diffondendo messaggi di odio volti alla repressione degli oppositori e trasmettendo notizie false riguardanti attacchi contro la popolazione Kalenji per alimentare il clima di tensione e violenza tra gli abitanti della regione.
Il 31 marzo 2010, la Pre-Trial Chamber II della Corte accordò alla Procura il permesso di aprire le investigazioni sulla situazione in Kenya. Nel 2012 furono confermati i capi di accusa contro i signori Ruto e Sang.
2. La decisione della Corte: “no case to answer”
I giudici della Corte si sono pronunciati per la prima volta in questo caso su una “no case to answer” motion, ossia su un’istanza presentata dalle parti per ottenere un verdetto di non luogo a procedere (o direttamente di non colpevolezza), a fronte della carenza del materiale probatorio presentato per sostenere l’accusa. Tale istituto è proprio della prassi procedurale dei paesi di common-law ed è in uso anche nella giurisprudenza dei tribunali internazionali ad-hoc.
Per quanto riguarda la CPI, non essendo tale strumento espressamente previsto dalla cornice normativa della Corte, l’istanza è stata ammessa con apposita decisione della Camera(2). Quest’ultima ha dichiarato che la ratio sottesa a tale tipo di richiesta è il principio secondo il quale l’imputato non deve essere chiamato a rispondere di un’accusa quando il materiale probatorio presentato dalla Procura è sostanzialmente insufficiente a far sorgere la necessità di sostenere una difesa. Tale ragionamento trova fondamento sui diritti dell’accusato, in particolare sul principio di presunzione di innocenza e sul diritto ad un processo equo e rapido, sanciti negli articoli 66(1) e 67(1) dello Statuto di Roma.
Per stabilire se via sia una situazione di “no case to answer”, la Camera deve quindi considerare, sulla base di una valutazione probatoria prima facie, se sussista un caso: essa deve cioè verificare se siano state presentate sufficienti prove, sulla base delle quali la Camera potrebbe ragionevolmente condannare l’imputato.
Con una sentenza molto articolata e controversa, il 5 aprile 2016 la Trial Chamber V ha deciso a maggioranza (con i pareri favorevoli dei giudici Chile Eboe-Osuji e Robert Fremr e il dissenso del giudice Olga Herrera Carbuccia, di cui subito infra), di annullare le accuse avverso gli imputati tramite una dichiarazione di “no case to answer” in ragione dell’inconsistenza delle prove presentate dall’accusa, senza però formulare un giudizio di non colpevolezza. Una sentenza articolata, in quanto anche i due giudici di maggioranza, sebbene concordi sulla pronuncia finale, hanno addotto motivazioni differenti per giungere alla stessa.
3. Un coro di voci diverse
Secondo il Giudice Eboe-Osuji, se le prove presentate dal Procuratore sono insufficienti a sostenere l’accusa, la Corte dovrebbe emanare un verdetto di non colpevolezza nei confronti dell’imputato. Tuttavia, ciò può avvenire solo quando l’azione penale sia stata esercitata liberamente, anche durante le indagini, scevra da interferenze o intimidazioni. Su tali premesse e date le peculiarità del caso, il giudice ha affermato che le prove emerse nel procedimento e alcune circostanze intercorse portano a credere che via stata un’indebita interferenza nelle testimonianze, tramite un’ingerenza politica tale da intimidire i testimoni. Per questo motivo, sempre a parere del giudice Eboe-Osuji, si dovrebbe formulare una dichiarazione di “mistrial”: istituto sempre di matrice common-law, con il quale si indica la fine precoce del processo. Un mistrial può verificarsi quando il processo risulta viziato da irregolarità così gravi da rendere i giudici incapaci di giudicare sul merito, oppure quando il procedimento si è svolto in circostanze tali da minarne i principi giustizia ed equità. Siffatta dichiarazione, a differenza di una sentenza sul merito, non preclude un nuovo esercizio dell’azione penale nei confronti dell’imputato, qualora le circostanze dovessero mutare.
Il Giudice Fremr, pur riconoscendo che nel procedimento vi siano state interferenze e tentativi politici di influenzare i risultati dello stesso, non ha ritenuto che tali ingerenze siano di gravità tale da rendere nullo l’intero procedimento, come invece sostenuto dal giudice Eboe-Osuji. Egli avrebbe generalmente preferito l’emanazione di un verdetto di non colpevolezza, reso impossibile dal disaccordo degli altri membri della Camera. Tuttavia, il giudice Fremr ha affermato che, date le particolari circostanze del caso, si trova a condividere il verdetto finale di “no case to answer”. A suo avviso infatti gli imputati, sebbene non vi sia prova del loro coinvolgimento diretto nel turbamento del processo, hanno beneficiato dell’interferenza nelle testimonianze, che ha avuto come risultato quello di far cadere le dichiarazioni di alcuni testimoni chiave dell’accusa. Il giudice Fremr ha ritenuto ragionevole lasciare aperta per la Procura la possibilità di risollevare il caso, qualora fossero presentate nuove prove.
Di tutt’altro avviso invece il Giudice Herrera Carbuccia, che nella sua “dissenting opinion” allegata al testo della sentenza, ha dichiarato che a suo parere le accuse nei confronti degli imputati non avrebbero dovuto essere ritirate(3). Il giudice sostiene infatti, inter alia, che sulle base delle prove fornite dalla Procura, la Camera sarebbe in grado di esprimere un giudizio ragionevole nei confronti degli accusati su tutti i capi d’accusa formulati, seppure con delle limitazioni geografiche e temporali agli stessi.
4. Conclusione
Una sentenza così articolata deriva dal bilanciamento di principi ed interessi differenti.
Da una parte, il diritto degli accusati al giusto processo, a non doversi difendere da un’imputazione inconsistente, o a non subire un procedimento penale allorché appaia evidente che un verdetto di colpevolezza non potrebbe essere emanato al di là di ogni ragionevole dubbio.
D’altro lato, il diritto delle vittime ad ottenere un giusto ristoro per le gravi lesioni sofferte, e comunque a non diventare doppiamente vittime a causa dell’impunità dei crimini subiti.
In aggiunta a ciò, si avverte la necessità della Corte di salvaguardare la propria autorevolezza e legittimazione in situazioni in cui, come nel caso del Kenya, l’attività investigativa della Procura e lo svolgimento pacifico del processo trovano come ostacolo l’atteggiamento non collaborativo, se non addirittura ostile, dello Stato membro coinvolto. Nella sentenza in esame, i giudici hanno a più riprese ribadito che le interferenze politiche e le intimidazioni intervenute non hanno in alcun modo scalfito l’indipendenza e l’integrità della Trial Chamber nel condurre la propria attività giudicante e che la decisione finale non è da ritenersi risultato diretto di tale attività turbativa.
Infine, occorre far notare che su tre individui pende mandato d’arresto per il compimento di numerosi reati ai danni dell’amministrazione della giustizia, ex art. 70 (1)(c) dello Statuto di Roma, in relazione alle investigazioni in Kenya.
(1) “Notice of withdrawal of the charges against Uhuru Muigai Kenyatta”, in the Case of the Prosecutor v. Uhuru Muigai Kenyatta, Trial Chamber V (B), 5 Dicembre 2014, ICC-01/09-02/11-983.
(2) “Decision No. 5 on the Conduct of Trial Proceedings (Principles and Procedure on ‘No Case to Answer’ Motions)”, in the Case of the Prosecutor V. William Samoeiruto And Joshua Arap Sang, Trial Chamber V(A), 3 Giugno 2014, ICC-01/09-01/11-1334.
(3) Dissenting Opinion of Judge Herrera Carbuccia, ICC-01/09-01/11-2027-AnxI.