Ingiurie e minacce su Facebook: se integrano il “disegno” persecutorio dell’agente, è stalking.
in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 7-8 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sez. V, 16 dicembre 2015 (dep. 23 maggio 2016), n. 21407
Presidente Zaza, Relatore Pezzullo, P.G. Fraticelli
La Sentenza in commento si inserisce tra le altre numerose pronunce aventi ad oggetto i possibili risvolti penalistici dell’utilizzo distorto dei social network, e viene segnalata ai lettori non solo perché trattasi di uno tra i temi più attuali dell’odierno panorama giurisprudenziale, ma anche perché consente di integrare il quadro tratteggiato dalla Cassazione in una precedente decisione, intervenuta in tema di diffamazione aggravata, anch’essa annotata su questa rivista (ivi, Giurisprudenza Penale Web, 3, 2016).
Nel caso di specie, la Suprema Corte si è pronunciata in merito all’impugnazione, proposta dal ricorrente, avverso l’ordinanza cautelare del Tribunale di Catania (in funzione di giudice del riesame) con cui era stata confermata, a carico dell’indagato, la misura del divieto di avvicinamento alle persone offese, genitori dell’ex convivente.
In particolare, a seguito della cessazione della convivenza, le predette persone offese erano state nominate dal Tribunale per i minorenni affidatarie di due dei quattro figli minori della coppia e l’indagato, a far data dal mese di settembre 2014 e sino al mese di giugno 2015, aveva realizzato una vera e propria attività persecutoria nei loro confronti, ingiuriandoli, minacciandoli di morte, anche attraverso l’utilizzo di Facebook, e seguendone gli spostamenti, tanto da costringerli nella propria abitazione per paura di incontrarlo.
Ricorreva in Cassazione l’indagato, sostenendo, in particolare, come i messaggi pubblicati sul social network potessero, al più, integrare il diverso reato di diffamazione, ma non quello contestato, di cui all’art. 612 bis c.p., essendo necessario, per la configurabilità di quest’ultimo, che le minacce e le molestie si rivolgessero a soggetti facenti parte, nella realtà virtuale, della schiera degli “amici”; quasi a voler escludere dal disegno persecutorio dell’agente le condotte realizzate “online”.
Tale impostazione, seppur suggestiva, non ha, tuttavia, ottenuto il riscontro auspicato dinanzi alla Corte di Cassazione, la quale ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento di € 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.
In sede di motivazione (ed è ciò che qui maggiormente interessa) la Suprema Corte ha colto l’occasione per ricordare alcuni principi generali, costantemente ribaditi in giurisprudenza allorchè si discuta della configurabilità del delitto di atti persecutori.
Com’è noto, tale fattispecie si caratterizza per la reiterazione di condotte minacciose o moleste ai danni della persona offesa (reiterazione che, a sua volta, rappresenta il necessario fondamento per l’abitualità del predetto reato).
Quanto al numero di condotte reiterate, necessario a configurare il reato de quo, è indispensabile e sufficiente che esse siano (almeno) due, essendo del tutto ininfluente che, ove separatamente considerate, esse siano o meno perseguibili penalmente.
Ciò che rileva, invero, è che l’abitualità dei comportamenti (siano essi, ex se, penalmente rilevanti ovvero non specificamente previsti da alcuna fattispecie incriminatrice) sia idonea a cagionare nella persona offesa uno degli eventi previsti dall’art. 612 bis c.p. (grave stato d’ansia o di paura, ovvero fondato timore per la propria incolumità o per quella di un prossimo congiunto o di altra persona legata al medesimo da relazione affettiva, ovvero, infine, l’alterazione delle abitudini di vita della vittima).
A tal riguardo, riassume la Cassazione, «il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di “danno” o, in alternativa, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (sez. III, n. 9222 del 16.01.2015)».
Quanto, poi, al profilo soggettivo, «lo stalking è un reato abituale di evento assistito dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia o molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire».
Tale elemento soggettivo, tuttavia, non presuppone anche la preordinazione, da parte del soggetto agente, di tali condotte, potendo, queste ultime essere in tutto o in parte meramente casuali e realizzate “sul momento”, allorché se ne presenti l’occasione.
Alla luce di tali premesse, conclude la Suprema Corte, la circostanza evidenziata dal ricorrente, secondo cui i messaggi pubblicati su Facebook potrebbero, al più integrare il meno grave reato di diffamazione, non appare significativa e, dunque, non può essere accolta, posto che «il reato di atti persecutori tiene conto, così come già evidenziato, del fatto che viene in questione nella fattispecie di stalking la reiterazione delle condotte e non il singolo episodio che, pur potendo in ipotesi integrare in sé un autonomo reato, va letto nell’ambito delle complessive attività persecutorie».
Con l’inevitabile conseguenza che, laddove le condotte reiteratamente poste in essere siano tali da provocare uno degli eventi, di danno o di pericolo, specificamente previsti dall’art. 612 bis c.p., integrando, così, il disegno persecutorio architettato dal soggetto agente, a nulla vale che le medesime possano configurare altro (meno grave) reato, sia esso commesso “virtualmente” o nella realtà dei fatti, nei confronti di “amici” o di meri “conoscenti virtuali”.
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. AMERIO, Ingiurie e minacce su Facebook: se integrano il “disegno” persecutorio dell’agente, è stalking, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 7-8.