ARTICOLICONTRIBUTIDALLA CONSULTAIN PRIMO PIANO

Reati d’evento e bis in idem. Il punto sulla vicenda Eternit, in attesa dell’imminente pronuncia della Corte Costituzionale

in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 7-8 – ISSN 2499-846X

Eternit

Come avevamo anticipato, il secondo processo relativo alla vicenda Eternit, in corso di celebrazione avanti il Tribunale di Torino, veniva sospeso il 24 luglio 2015 all’esito dell’Udienza Preliminare, perché il Giudice, paventando che si versasse in ipotesi di bis in idem, e registrando sul punto un contrasto tra fonti normative nazionali ed internazionali, d’ufficio sollevava questione di legittimità costituzionale dell’articolo 649 c.p.p., così come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, per violazione dell’articolo 117 primo comma, Costituzione.

Il Giudice di Torino sospetta infatti che il divieto di doppio giudizio come applicato dai giudici nazionali confligga con l’art. 4, Protocollo 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, così come interpretato dalla Corte EDU, il quale costituisce uno dei “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” stabiliti dall’art. 117 Cost., cui l’attività normativa dello Stato ha l’obbligo di conformarsi.

La questione, affidata dunque al Giudice delle Leggi, ed affrontata all’udienza del 31 maggio scorso, sarà sciolta dall’ormai imminente sentenza della Corte.

In attesa di poter commentare questa pronuncia, con il presente contributo intendiamo ripercorrere le tappe fondamentali del percorso processuale di questa vicenda che, per la delicatezza e la gravità dei fatti, l’importanza e la modernità delle questioni giuridiche trattate, l’eco mediatica, e la portata internazionale dei principi giuridici in gioco, non ha precedenti in Italia.

1) l’iter processuale sino all’ordinanza di rimessione del GUP di Torino

Il caso, a tutti noto, riguarda fatti occorsi tra gli anni ’70 e ‘80 negli stabilimenti di lavorazione dell’amianto della società Eternit nei comuni di Cavagnolo, Casale Monferrato, Napoli Bagnoli e Rubiera, relativi alle modalità di trattamento, stoccaggio e smaltimento del pericoloso materiale, nonché ai (mancati) investimenti e cautele a tutela di tutti coloro (dipendenti e non) che ad esso furono esposti.

A seguito dei gravi danni alla salute che l’amianto aveva col tempo arrecato sia ai lavoratori, sia alla popolazione circostante agli stabilimenti, l’amministratore della società Stephan Ernst Schmidheiny, che tra il 1974 ed il 1986 aveva assunto l’effettiva responsabilità della gestione, fu sottoposto a procedimento penale per due ipotesi di reato: disastro innominato doloso, aggravato dalla verificazione dell’evento (art. 434, comma 2 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, aggravata dalla verificazione di infortuni (art. 437 comma 2 c.p.).

All’esito del primo grado di giudizio, il 13 febbraio 2012 (con motivazioni depositate il 14 maggio successivo) il Tribunale di Torino, riconosceva l’imputato colpevole di entrambi i reati a lui ascritti e lo condannava ad una pena di 16 anni di reclusione.

In momento successivo, la pronuncia della Corte d’Appello di Torino, emessa il 3 giugno 2013 (con motivazioni depositate il 2 settembre 2013), ravvisava l’intervenuta prescrizione della fattispecie di omissione dolosa di cautele, per la quale l’imputato veniva dunque prosciolto, mentre confermava la responsabilità di quest’ultimo per l’ipotesi di disastro innominato, condannandolo alla maggior pena di 18 anni di reclusione.

Tra le tante e complesse questioni affrontare in queste sentenze, merita un rapido accenno il tema -che risultò infine dirimente- dell’individuazione, ai fini di eventuale declaratoria di prescrizione, del momento consumativo del reato di disastro innominato.

Orbene, sul punto i Giudici di prime cure avevano anzitutto ritenuto che il comma 2 dell’articolo 434 prevedesse (non un’aggravante speciale della condotta di cui al comma 1, ma) una fattispecie autonoma di reato; un reato d’evento, il cui evento è il disastro. Da ciò evidentemente discendeva che il disastro era elemento costitutivo, e da esso pertanto decorreva il termine per il computo della prescrizione.

In seconda battuta, il Tribunale forniva una nozione di disastro corrispondente ad un accadimento di natura permanente, vale a dire l’esposizione delle persone alla sostanza nociva. In breve, l’esposizione all’asbesto costituisce un pericolo per l’incolumità pubblica, ed è dunque l’evento del reato di disastro aggravato.

Sulla scorta di tale considerazione, il Tribunale aveva distinto le situazioni negli stabilimenti di Bagnoli e Rubiera, nei quali l’esposizione all’amianto era principalmente connessa all’attività produttiva, e come tale doveva considerarsi cessata alla chiusura degli impianti, da quelli di Cavagnolo e Casale Monferrato, in cui invece i residui di produzione erano utilizzati per la costruzione di abitazioni e strade, con la conseguenza che l’esposizione doveva ritenersi ancora in atto. Conclusione: nei primi due casi il reato si era consumato alla data di fallimento della società (1986) ed era dunque prescritto, negli altri invece l’evento era ancora in corso e la prescrizione era quindi da escludersi.

I Giudici del gravame, pur partendo da identici presupposti in termini di qualificazione della fattispecie (fattispecie autonoma, reato d’evento), adottavano invece una nozione di disastro sensibilmente diversa. Esso infatti, ritenne la Corte d’Appello, va individuato nel “fenomeno epidemico” che le condotte dell’imputato hanno cagionato, con la conseguenza che “la consumazione del reato deve correttamente essere individuata soltanto nel momento in cui l’eccesso numerico dei casi di soggetti deceduti o ammalati rispetto agli attesi (..) sarà venuto meno”. E poiché l’eccesso di malattie e morti collegate all’esposizione da amianto erano ancora (e, per vero, sono tuttora) in corso in tutti i siti su cui insistevano gli stabilimenti, la Corte aveva negato l’intervenuta prescrizione per tutte le fattispecie di disastro contestate. Non è difficile trarre le ragioni della comminazione di una pena più severa.

Le descritte argomentazioni erano infine ritenute prive di pregio dalla Prima Sezione della Corte di Cassazione, che, con la nota sentenza n. 7941/2015, ha dichiarato integralmente prescritto anche l’addebito di disastro innominato, in tal modo definitivamente e completamente prosciogliendo l’imputato. Addirittura, notava la Corte, il termine di prescrizione era spirato prima che fosse intervenuta la sentenza di primo grado.

A siffatta conclusione la Cassazione perveniva dopo aver sancito che l’evento “disastro” evocato dal comma secondo dell’articolo 434 è “un fatto distruttivo di proporzioni straordinarie dal quale deriva pericolo per la pubblica incolumità, ma rispetto al quale sono effetti estranei ed ulteriori il persistere del pericolo o il suo inveramento nelle forme di una concreta lesione; ne consegue che non rilevano, ai fini dell’individuazione del ‘dies a quo’ per la decorrenza del termine di prescrizione, eventuali successivi decessi o lesioni pur riconducibili al disastro”.

Disastro, in sostanza, fu l’accadimento (non permanente, ma) istantaneo, consistente (non nell’esposizione alla sostanza o nel fenomeno epidemico, ma) nella dispersione delle fibre; e tale accadimento istantaneo, a ben vedere, si era verificato durante l’attività produttiva degli stabilimenti, ed era immediatamente cessato alla loro chiusura. Conclusione, stavolta definitiva: tutti gli addebiti di disastro si erano consumati al più tardi nel 1986, ed erano ormai tutti prescritti.

Il giorno successivo a tale pronuncia, la Procura di Torino concludeva le indagini preliminari e depositava la richiesta di rinvio a giudizio ancora nei confronti di Schmidheiny per fatti in gran parte uguali: medesimo soggetto, medesime condotte, medesimi tempi e luoghi. Ciò che mutava nel capo d’incolpazione era l’evento cagionato dalle condotte: non più il disastro (non più la disperazione delle fibre) ma i decessi delle vittime. Iniziava così il processo Eternit-bis per omicidio volontario plurimo e aggravato.

L’Udienza Preliminare di questo nuovo processo si teneva avanti il G.U.P. di Torino dott.ssa Federica Bompieri tra il 12 maggio ed il 24 luglio 2015.

Nel corso delle udienze la difesa non mancava di sollevare una questione di bis in idem, sostenendo che i fatti contestati erano gli stessi, pur se diversamente qualificati, e sottolineando come il nuovo capo d’imputazione fosse in parte addirittura identico. La richiesta finale rivolta al Giudice era pertanto una sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p., in applicazione dell’art. 649 c.p.p., per violazione del divieto di doppio giudizio.

In subordine, la difesa chiedeva che la questione fosse fatta oggetto da parte del Giudice di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (a norma dell’art. 267 TFUE), perché quest’ultima fornisse la corretta interpretazione (e dunque permettesse la corretta applicazione) dell’art. 50 della Carta Fondamentale dei Diritti dell’Unione Europea (c.d. Carta di Nizza), che disciplina anch’esso il divieto di doppio giudizio.

In buona sostanza, i termini della questione sono chiarissimi: la Procura di Torino ritiene che il disastro innominato e l’omicidio volontario, poiché cagionano eventi diversi, sono fatti diversi; viceversa la difesa, notando che soggetto, condotta, tempo e luogo sono identici, sostiene che i fatti sono i medesimi. Nel primo caso non si verserebbe in un’ipotesi di doppio giudizio, nel secondo sì. Nel primo caso il processo andrebbe chiuso, nel secondo no.

E’ evidente che tutto ruota attorno al concetto di “idem”, di “stesso fatto”. Sull’interpretazione di questa nozione era chiamato a pronunciarsi il G.U.P. di Torino.

2) le fonti nazionali ed internazionali del ne bis in idem

Prima di proseguire oltre, pare utile fornire un quadro succinto delle fonti di diritto da cui si trae il principio che vieta all’ordinamento di procedere più d’una volta nei confronti dello stesso soggetto per gli stessi fatti.

In primo luogo, il ne bis in idem trova vigore nelle norme pattizie dell’Unione Europea. Si tratta in particolare del citato articolo 50 della Carta di Nizza, il quale, in virtù dell’art. 6 TUE, ha la stessa forza vincolante dei trattati europei, ed è pertanto a tutti gli effetti una norma cogente nell’ordinamento interno.

Il testo della norma recita: “Nessuno può essere perseguito o condannato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato nell’Unione a seguito di una sentenza penale definitiva conformemente alla legge”.

D’altra parte, per ciò che riguarda il diritto del Consiglio d’Europa, la stessa Convenzione EDU, all’art. 4 comma 1, Protocollo 7, sancisce che: “1. Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge ed alla procedura penale di tale Stato – 2. Le disposizioni del paragrafo precedente non impediscono la riapertura del processo, conformemente alla legge e alla  procedura penale dello Stato interessato, se fatti sopravvenuti  o nuove rivelazioni o un vizio fondamentale nella procedura  antecedente sono in grado di inficiare la sentenza intervenuta – 3. Non è autorizzata alcuna deroga al presente articolo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione”.

Le suddette norme hanno sinora trovato vasta applicazione con riferimento agli illeciti per cui gli Stati europei prevedono un doppio procedimento ed una doppia sanzione, penali ed amministrativi, per il medesimo fatto. Si tratta per lo più di reati fiscali e di turbativa del mercato finanziario. Vedremo infra in quali termini la questione del doppio giudizio è stata affrontata per queste ipotesi.

Chiudendo il novero delle fonti internazionali, vale la pena di ricordare altresì l’art. 54 della Convenzione di Applicazione dell’Accordo di Schenghen (c.d. Acquis di Schenghen). La norma estende il vigore del principio anche ai casi cui i due giudizi siano celebrati in paesi contraenti diversi. In concreto, l’articolo recita: “Una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un’altra Parte contraente a condizione che, in caso di condanna, la pena sia stata eseguita o sia effettivamente in corso di esecuzione attualmente o, secondo la legge dello Stato contraente di condanna, non possa più essere eseguita

Giungiamo infine alla norma cardine della vicenda processuale, vale a dire l’articolo 649 c.p.p.. Si tratta di una regola processuale interna, che stabilisce “1. L’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili non può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, neppure se questo viene diversamente considerato per il titolo, per il grado o per le circostanza (..) – 2. Se ciò nonostante viene di nuovo iniziato procedimento penale, il giudice in ogni stato e grado del processo pronunciasentenza di proscioglimento o di non luogo a procedere, enunciandone la causa nel dispositivo”.

3) l’ordinanza del GUP di Torino

Tornando alle vicende processuali, il 24 luglio 2015 il Giudice per l’Udienza Preliminare, ritenuto di non dover disporre il giudizio o di dichiarare il non luogo a procedere, sollevava d’ufficio questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 4, Protocollo 7 CEDU.

Contestualmente, con separata ordinanza letta in udienza, il Giudice rigettava la richiesta difensiva di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia: “la situazione giuridica controversa non rientra, infatti, nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione e il procedimento principale non riguarda l’interpretazione o l’applicazione di una norma di diritto dell’Unione diversa da quelle della Carta, sicché la Corte avrebbe declinato la propria competenza”.

Volgendo poi l’attenzione alla questione di costituzionalità, il Giudice ha notato come l’applicazione da parte della giurisprudenza nazionale del principio sancito all’art. 649 c.p.p. si ponga in contrasto con l’articolo 4, Protocollo 7 CEDU, così come interpretato dalla Corte di Strasburgo.

Ove siffatta distonia fosse invero sussistente, l’interpretazione della norma nazionale si porrebbe in contrasto con l’articolo 117 comma 1 Cost., e ciò perché la Convenzione EDU, e l’interpretazione che di questo testo normativo dà la Corte EDU, costituiscono norme interposte tra la Costituzione e la legge nazionale, a cui quest’ultima è tenuta a conformarsi.

Ma veniamo alle motivazioni che hanno condotto il giudice a quo a ravvisare il descritto contrasto.

L’ordinanza di rimessione analizza in primo luogo la portata applicativa dell’art. 649 c.p.p. nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. Quest’ultima, nota il Giudice, rileva il bis in idem solo nei casi in cui si riscontri la coincidenza di tutti gli elementi costitutivi del reato e dei beni giuridici tutelati.

In altri termini, la Cassazione vieta la celebrazione di un secondo giudizio, solo qualora entrambi i processi abbiano ad oggetto due fattispecie assolutamente identiche: stessa condotta, stesso nesso causale, stesso evento, stesso bene giuridico offeso. Con la conseguenza che, ogniqualvolta si versi in ipotesi di concorso formale di reati (una condotta, più eventi, più beni giuridici offesi) non solo il soggetto potrà essere giudicato e condannato nel medesimo processo per più ipotesi delittuose, ma altrettanto potrà accadere in procedimenti diversi, attesa la non perfetta identità dei due fatti.

Un’applicazione di tal genere del 649 c.p.p. muove da una interpretazione di “medesimo fatto”, come “medesimo fatto giuridico”, vale a dire come identità in astratto di tutti gli elementi del fatto richiesti dalla legge.

La ricostruzione della giurisprudenza di legittimità sul punto svolta nell’ordinanza è estremamente articolata, le sentenze citate numerose; al punto da dover riscontrare un orientamento del tutto compatto, costante e mai sovvertito. Da cui evidentemente il Giudice a quo a ritenuto non potersi discostare.

Del tutto diversa (e confliggente) è invece l’applicazione della Corte EDU con riferimento al principio di ne bis in idem contenuto nell’art. 4 Protocollo 7 alla Convenzione.

Notava infatti il Giudice, che a partire dalla sentenza Zolotukhin c. Russia si sviluppava in seno alla Corte di Strasburgo un orientamento anch’esso assolutamente univoco e costante, passato anche per la celeberrima sentenza Grande Stevens c. Italia, il quale ha invece ricostruito il concetto di “medesimo fatto”, come “medesimo fatto storico” in quanto riconducibile alla medesima condotta, o, se si vuole, all’identità in concreto dei fatti contestati.

Sul punto, vale la pena citare, come anche è stato fatto nell’ordinanza di rimessione, un passaggio cruciale della successiva sentenza Lucky Dev c. Svezia, che giustifica le ragioni di un approccio applicativo di tal fatta, e che dà la misura del conflitto con l’interpretazione del giudice nazionale:

[the Court] considered that an approach which emphasised the legal characterisation of the offences in question was too restrictive on the rights of the individual and risked undermining the guarantee enshrined in that provision. Accordingly, it took the view that Article 4 of Protocol No. 7 had to be understood as prohibiting the prosecution or trial of a second “offence” in so far as it arises from identical facts or facts which are substantially the same”.

Insomma la Corte EDU ha proprio detto che una nozione di medesimo fatto, come identità di tutti gli elementi costitutivi del reato, violerebbe i diritti processuali dell’imputato e rischierebbe di svuotare di senso il principio stesso del ne bis in idem.

Infine, dopo aver citato anche in questo caso numerose pronunce conformi, l’ordinanza ha dato atto di una sentenza molto recente, la quale ha ripercorso e riassunto i principi col tempo affermati sul tema dalla Corte EDU.

Si tratta della sentenza Butnaru et Bejan-Piser c. Romania, la quale ha nell’ordine ricordato che:

a) Una persona non può essere processata due volte per fatti identici o che sono sostanzialmente i medesimi (para. 31);
b) L’art. 4 Prot. 7 costituisce una garanzia non solo a non essere “condannati” due volte, ma anche a non essere “processati” due volte (para. 33 e 45);
c) Per valutare se vi sia bis in idem, non si deve avere riguardo agli elementi costitutivi delle fattispecie oggetto di addebito, ma occorre valutare gli accadimenti, cioè l’insieme di circostanze fattuali inscindibilmente legate tra di loro, così come esse appaiono circostanziate, nello spazio e nel tempo, la cui esistenza deve essere dimostrata al fine di pervenire alla decisione (para. 34), originate dal medesimo comportamento (para. 36);
d) Se i fatti sono “essenzialmente i medesimi”, è irrilevante l’eventualità che i due procedimenti abbiano ad oggetto “elementi parzialmente differenti” (para. 38);
e) L’art. 4 Prot. 7 non preclude la celebrazione di processi “paralleli”, ma vieta di procedere con secondo processo penale quando il primo sia concluso con pronuncia definitiva (para. 47).

Così Ricostruite le rispettive interpretazioni della giurisprudenza nazionale ed internazionale, il Giudice rimettente non ha potuto che ravvisare la rilevanza della questione di legittimità. Applicando l’uno o l’altro orientamento al caso di specie si giungerebbe infatti a risultati diversi ed opposti. Nello specifico, l’adesione alle linee interpretative tracciate dalla Cassazione dovrebbe condurre il Giudice a non ravvisare un’ipotesi di bis in idem e, conseguentemente, a disporre il giudizio; viceversa, dando seguito alla Corte EDU, il giudice dovrebbe dichiarare il bis in idem,  e dunque pronunciare non luogo a procedere, con ciò prosciogliendo l’imputato.

Allo stesso modo, l’ordinanza dà atto della non manifesta infondatezza della questione. Da un lato, attesi il costante orientamento della Cassazione e la sua funzione nomofilattica, il Giudice rimettente ha ritenuto di non potersi discostare in via interpretativa da quanto da essa sancito. Allo stesso modo, seguendo l’indicazione delle sentenze della Corte Costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, il Giudice ha dichiarato di non poter autonomamente disapplicare la norma interna a favore di quella internazionale, ma si è visto costretto a sottoporre la questione alla Consulta.

4) l’udienza avanti la Consulta

Come accennato, il 31 maggio 2016 ha avuto luogo l’udienza avanti la Corte Costituzionale.

Dopo accurata relazione ad opera del Giudice relatore Giorgio Lattanzi, hanno discusso la difesa dell’imputato, nonché i difensori di alcune parti civili costituite nel processo a quo.

Gli argomenti sostenuti, in breve, sono stati i seguenti.

La difesa Schmidheiny ha chiesto che la Consulta si conformi alla giurisprudenza internazionale, con ciò dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 649 c.p.p., così come interpretato dai giudici nazionali.

In seconda battuta, si è limitata a ribadire la rilevanza, e dunque l’applicabilità, nel caso di specie del diritto europeo ed in particolare del succitato articolo 50 della Carta di Nizza. Ciò ha fatto sostenendo che l’oggetto del giudizio a quo rientri nella competenza del diritto dell’Unione.

D’un canto infatti la materia della tutela dei lavoratori dall’esposizione da amianto, così come quelle più generali della salute pubblica e dell’ambiente, sono oggetto di specifica normativa comunitaria derivata oltreché convenzionale; d’altro canto lo stesso divieto di doppio giudizio trova ampio riscontro nelle convenzioni e nei trattati europei.

Sulla scorta di queste considerazioni, in subordine alla prima richiesta, la difesa ha domandato la rimessione da parte della Corte Costituzionale alla Corte Europea di Giustizia, in virtù della procedura del rinvio pregiudiziale. Tale strumento è infatti direttamente attivabile dalla Consulta, come dalla stessa riconosciuto nell’ordinanza n. 207/2013.

Le parti civili costituite nel giudizio a quo hanno invece insistito per una pronuncia di inammissibilità da parte della Corte.

A parere di alcune non sussisterebbe il contrasto tra la norma nazionale e quella europea, e ciò in virtù del secondo comma dell’art. 4 Prot. 7 alla CEDU, il quale prevede la possibilità di celebrare un secondo giudizio per lo stesso fatto in caso di fatti sopravvenuti o nuove rivelazioni o di un vizio fondamentale nella procedura antecedente. Nella caso di specie, fatti nuovi sarebbero i danni alla salute, tuttora in corso di manifestazione, che le condotte contestate hanno cagionato dopo la conclusione del primo processo. In questi casi, hanno insistito le difese, non può certo farsi valere un divieto di doppio giudizio, atteso che un primo giudizio evidentemente non vi è stato.

Altri difensori hanno sostenuto la non pertinenza, atteso che si verte sull’interpretazione di una norma nazionale, dell’oggetto della questione di legittimità con il diritto europeo. E per conseguenza la non procedibilità di una questione pregiudiziale rivolta alla Corte di Lussemburgo.

Alcune infine hanno offerto una interpretazione strettamente letterale dell’art. 4 Prot. 7 alla CEDU, nella sua versione ufficiale in lingua francese. Hanno sostenuto le difese che il bis in idem a norma della CEDU si applica solo nei casi in cui l’imputato nel primo processo sia stato “condamné ou acquitté” (condannato o assolto). Orbene, in questo caso, poiché l’imputato fu prosciolto per intervenuta prescrizione, non potrebbe applicarsi la norma anzidetta. Con la conseguenza che la questione andrebbe dichiarata non rilevante.

5) brevi considerazioni conclusive

In attesa che la Corte pronunci l’atteso verdetto e a conclusione di questo breve scritto, si muovono di seguito alcune brevi riflessioni.

Anzitutto si registra la circostanza che sinora, in tema di ne bis in idem, la Corte EDU è stata chiamata a pronunciarsi solo su fattispecie di mera condotta, come i reati fiscali e quelli finanziari. Illeciti questi, nei quali il “fatto storico” corrisponde perfettamente al “fatto giuridico”, e dove pertanto non si pongono i problemi più sopra affrontati.

Sarebbe interessante vedere la reazione dei Giudici di Strasburgo ove ad essi fosse sottoposto un fatto di reato di evento, magari ambientale o di infortunio sul lavoro, nei quali alla condotta sono riconducibili molteplici eventi, che spesso si realizzano dopo lungo tempo.

Ma tant’è, l’orientamento della Corte EDU è univoco e chiarissimo: un divieto di doppio giudizio riferito a tutti gli elementi giuridici del fatto sarebbe lesivo dei diritti processuali dell’imputato. Bisogna quindi far riferimento alla sola condotta.

Dovesse la Consulta decidere di seguire una tal impostazione, non avrebbe evidentemente altra scelta: dovrebbe dichiarare l’incostituzionalità del 649 c.p.p., come interpretato dalla Cassazione e, contestualmente, il Giudice di Torino dovrebbe pronunciare non luogo a procedere nel giudizio a quo.

Qualora, tuttavia, la Consulta, con argomenti logici opposti, non ritenesse di percorrere la via internazionale, dovrebbe – a nostro parere – comunque considerare quanto segue.

Gran parte dei decessi sono stati oggetto di piena cognizione (e di giudicato) nel primo processo. Tre Giudici dello Stato in altrettanti gradi di giudizio hanno valutato tali accadimenti con profondo rigore, e l’ultimo di essi ha infine ritenuto di non donarvi rilevanza penale.

Nulla avrebbe impedito, in ossequio al noto principio iura novit curia, che agli eventi morte fosse data una diversa qualificazione. Tuttavia così non è stato ed essi non dovrebbero ora, in un secondo processo, poter essere nuovamente riesaminati sotto altro profilo giuridico.

Ben diverso, evidentemente, è il caso dei decessi avvenuti successivamente al giudicato; su questi fatti, mancando la cognizione del primo Giudice, a parere di chi scrive non si pone un tema di bis in idem. Con la conseguenza che il nuovo Giudice ben potrebbe proseguire il secondo processo, impregiudicate le norme nazionali ed internazionali a presidio del divieto di doppio giudizio.

Giungiamo dunque alla soluzione che, a nostro avviso, parrebbe la più equilibrata: da un lato dichiarazione del bis in idem per tutti e soli i decessi effettivamente oggetto di istruttoria nel primo processo; dall’altro lato nessuna violazione del divieto di doppio giudizio per i decessi avvenuti dopo.

La ripercussione sul giudizio a quo sarebbe a questo punto un non luogo a procedere solo parziale per i decessi precedenti e la disposizione del giudizio per i successivi.

Come citare il contributo in una bibliografia:
Redazione (a cura di), Reati d’evento e bis in idem. Il punto sulla vicenda Eternit, in attesa dell’imminente pronuncia della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 7-8

Redazione Giurisprudenza Penale

Per qualsiasi informazione: redazione@giurisprudenzapenale.com