La Cassazione salva il doppio binario sanzionatorio. Impossibile interpretare l’art. 649 c.p.p. in modo conforme alla CEDU
in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 7-8 – ISSN 2499-846X
Cass. pen. sez. III, (ud. 21 aprile 2016) 22 giugno 2016, n. 25815
Presidente Amoresano, Relatore Di Stasi
Con la sentenza che qui si annota, la Corte di Cassazione ha assunto una posizione di grande interesse sulla questione, oggi caldissima, del rapporto tra fonti nazionali ed internazionali in tema di ne bis in idem.
Più in particolare, la Terza Sezione della Corte si è trovata ad affrontare una fattispecie, per vero ormai frequente nelle aule giudiziarie, di c.d. “doppio binario sanzionatorio” (amministrativo e penale) per un fatto di reato fiscale (omesso versamento dell’IVA ex art. 10-ter, D. lgs. n. 74/2000).
Il Tribunale penale di Asti, con una pronuncia al tempo pubblicata (ivi) su questa Rivista, accertata la precedente inflizione della sanzione amministrativa per il medesimo fatto, e ritenuto che tale sanzione avesse “natura sostanzialmente penale” alla luce dell’articolo 4 Prot. 7 alla CEDU, come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU (si tratta dei noti “criteri Engel” individuati da Engel c. Paesi Bassi e rielaborati da Grande Stevens c. Italia), aveva pronunciato sentenza di non doversi procedere ex artt. 529 e 649 c.p.p. per sussistenza di bis in idem.
Avverso la pronuncia, proponeva ricorso per Cassazione per saltum il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Torino, sostenendo che il Giudice di prime cure avesse scorrettamente qualificato come penali un procedimento ed una sanzione che nell’ordinamento nazionale tali non sono. Di qui, la censura di erronea applicazione dell’art. 649 c.p.p..
I Giudici di legittimità hanno ritenuto fondato il ricorso e annullato la sentenza con rinvio alla Corte d’Appello di Torino. Vediamo con ordine il ragionamento che ha condotto alla dichiarazione di fondatezza.
Anzitutto, la Corte fa riferimento alle note “sentenze gemelle” della Corte Costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007), sul rapporto tra legge nazionale, Costituzione e Convenzione EDU. Per effetto di tali pronunce – ricordano i Giudici – le norme della Convenzione costituiscono “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali” imposti dall’art. 117 Costituzione, cui la norma nazionale è tenuta a conformarsi. Con la conseguenza che una norma contraria alla Convenzione EDU, sarà anche contraria alla Costituzione.
Le due decisioni della Consulta avevano altresì precisato che, innanzi ad un contrasto tra norma interna e norma della Convenzione, il Giudice nazionale deve in prima battuta adottare un approccio ermeneutico in modo da interpretare la prima in senso conforme alla seconda. Ove, tuttavia, il conflitto tra norme risulti netto e la strada dell’interpretazione non percorribile, il Giudice non potrà disapplicare la norma interna, la quale è pur sempre cogente, ma dovrà sollevare questione di legittimità costituzionale per sospetta violazione dell’art. 117.
In breve, tertium non datur: si risolve il contrasto in via interpretativa, o lo si affida alla Consulta.
Orbene, nel caso di specie la Cassazione ha ritenuto che non vi siano interpretazioni convenzionalmente orientate dell’art. 649 c.p.p. e che dunque il Giudice non possa in alcun caso farne un’applicazione conforme all’art. 4 Prot. 7 alla CEDU.
A conclusione siffatta, giunge la Corte muovendo da due presupposti logici, l’uno di natura sistematica, l’altro letterale.
Con riferimento al primo, notano i Giudici che nell’ordinamento nazionale il principio di ne bis in idem, il quale mira ad evitare la duplicazione dei giudizi e dei provvedimenti per lo stesso fatto, trova vigore solo in materia penale, essendo disciplinato dalle norme sui conflitti positivi di competenza (artt. 28 e seguenti c.p.p.), sul divieto di un secondo giudizio (art. 649 c.p.p.) e sulle ipotesi di pluralità di sentenze per il medesimo fatto (art. 669 c.p.p.). Tutte queste norme presuppongono la riferibilità dei più procedimenti per il medesimo fatto all’autorità giudiziaria penale.
Ma l’assunto della Corte trova altresì conforto nella mera lettura del testo dell’articolo. Il 649 c.p.p. garantisce il diritto solo a “l’imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale”, con ciò precludendone l’estensione ai casi in cui il primo giudizio avesse natura extra-penale, come nel caso di specie.
Il Tribunale, ha in effetti operato un’interpretazione convenzionalmente conforme della norma nazionale, ma ciò ha fatto forzando il dato letterale della stessa, oltreché la portata sistematica del principio. Evidente, a questo punto, la violazione di legge.
Diversamente, ritiene la Corte, il Giudice avrebbe dovuto prendere atto di non poter praticare la via ermeneutica, ed in ossequio alle citate “sentenze gemelle” avrebbe dovuto sollevare questione di legittimità costituzionale.
In seconda battuta, la Corte ha poi inteso non procedere, pur potendo, a sollevare la questione d’ufficio, per la ragione che agli atti del processo non vi sarebbe prova della irrevocabilità dell’accertamento tributario, mancando in tal modo una condizione necessaria per l’applicazione della norma in parola, id est la irrevocabilità del primo giudizio. Un’eventuale questione di legittimità costituzionale sarebbe pertanto stata dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza.
Da ultimo, ed è questo un passaggio di notevole interesse, la Cassazione ricorda la sentenza della Corte Costituzionale n. 102/2016 (su cui questa Rivista, ivi, con successivo più ampio commento, ivi), la quale, in tema di doppio binario sanzionatorio per un fatto di abuso di mercato, aveva sancito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. per difetto di rilevanza. Aveva infatti chiarito la Consulta che spetta al Legislatore, e non ad essa medesima, risolvere il conflitto tra norma interna e norma convenzionale, procedendo, ove necessario, ad interventi additivi o modificativi, che costruiscano una disciplina organica e coerente.
In altre parole, sembra velatamente suggerire la Cassazione, l’eventuale rimessione al Giudice delle Leggi non condurrebbe ad un risultato di successo, perché lo stesso, ora come allora, deciderebbe di non decidere. Più opportuno, invece, rinviare ad altro Giudice di merito.
Volendo trarre alcune brevi considerazioni conclusive, si nota quanto segue.
Da una lettura organica e congiunta dell’odierna pronuncia e della sentenza 102/2016 della Consulta, si trae che il Giudice penale non può nel secondo giudizio dichiarare non doversi procedere invocando il bis in idem, senza violare la lettera dell’art. 649 c.p.p., ogni volta che il primo giudizio abbia avuto natura extra-penale. In questi casi, dovrebbe semmai sottoporre la questione alla Corte Costituzionale, ma quest’ultima dichiarerebbe la questione inammissibile, come già ha fatto, passando la palla al Legislatore.
In altre parole, non il Giudice di merito, non quello di legittimità, non il Giudice delle Leggi, né – ancora – altro Giudice di merito, per l’insanabile conflitto tra norma interna e norma convenzionale, potrebbero escludere l’inflizione della doppia sanzione, più volte censurata dalla Corte di Strasburgo. Nessuno di essi, in breve, potrebbe garantire al cittadino il diritto garantito dall’art. 4 Prot. 7 alla CEDU.
Ciò posto, sembra profilarsi il seguente doppio scenario alternativo, che escluderebbe ogni terza via: o il Legislatore nazionale procede in tempi brevi a riforma di tutte le norme che impongono il doppio binario sanzionatorio amministrativo-penale, con ciò armonizzando la legge italiana alla Convenzione EDU, oppure si avrà sistematica disapplicazione del divieto di doppio giudizio come da quest’ultima previsto. In questo secondo caso, in tutta evidenza, si avrà altrettanto sistematica condanna dell’Italia per violazione della Convenzione.
In verità, una terza via vi sarebbe. Il Giudice di merito potrebbe rimettere la questione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con la procedura del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE, chiedendo di verificare se la norma nazionale (l’art. 649 c.p.p.) sia compatibile con la norma della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il principio di ne bis in idem (art. 50, CDFUE). L’unica condizione per poter attivare tale procedimento è che la materia che ne forma oggetto rientri nell’ambito del diritto dell’Unione; condizione che, in tema di illeciti IVA, deve ritenersi pienamente soddisfatta.
Questa terza strada è già stata percorsa da altri giudici di merito, le cui ordinanze sono oggi riunite nella Causa Orsi C-217/15, pendente innanzi alla Corte di Lussemburgo. La decisione su tali rinvii risulterà invero dirimente per la questione – altrimenti irrisolta – del doppio binario sanzionatorio.
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Roccatagliata, La Cassazione salva il doppio binario sanzionatorio. Impossibile interpretare l’art. 649 c.p.p. in modo conforme alla CEDU, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 7-8