ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PENALEParte speciale

Nuovi sviluppi ermeneutici in tema di responsabilità medica

in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 9 – ISSN 2499-846X

cassazione

Cassazione Penale, Sez. IV, 6 giugno 2016 (ud. 11 maggio 2016), n. 23283
Presidente Blaiotta, Relatore Montagni, P.G. Cedrangolo

Con la sentenza depositata in data 6 giugno 2016, la IV Sezione penale della Corte di Cassazione è tornata ad occuparsi della responsabilità medica alla luce della L. 8 novembre 2012, n. 189, e segnatamente del tema relativo alla ascrivibilità colposa della condotta omissiva del sanitario.

In via preliminare, è opportuno contestualizzare la previsione de qua. Com’è noto, l’attività medica è presidiata dalle tradizionali leges artis, regole tecniche non scritte che il professionista è tenuto ad osservare, anche a fronte della posizione di garanzia che egli assume nei confronti del paziente. Le regole cautelari la cui violazione configura un’ipotesi di colpa professionale sono enucleabili dalla norma cardine in tema di colpa penale, ossia l’art. 43 c.p. In forza di tale disposizione normativa, la fonte delle regole precauzionali può essere sociale o giuridica. Alla prima categoria, conosciuta come colpa generica, sono riconducibili le ipotesi di negligenza, imprudenza o imperizia. Quest’ultima qualifica normativa, particolarmente rilevante per la tematica in esame, allude ad una forma di negligenza o di imprudenza qualificate, in quanto riferita ad attività che esigono particolari conoscenze tecniche. La violazione di regole cautelari originate da una fonte (scritta) giuridica (leggi, regolamenti, ordini o discipline) configura, invece, la cd. colpa specifica.

A fronte dell’assenza di un’organica disciplina normativa dell’attività medica, l’interpretazione giurisprudenziale ha acquisito un ruolo centrale nella tematica in esame. Giova a tal proposito rammentarne gli sviluppi principali, che la stessa sentenza in esame si premura di ripercorrere. Originariamente, la colpa professionale penalmente rilevante veniva individuata sulla base di criteri generici e l’accertamento della colpa generica era condotto secondo parametri ampi e“indulgenti”, per giungere all’addebito di penale responsabilità unicamente nelle ipotesi estreme di errore grave e inescusabile.

Per dotare tale esegesi giurisprudenziale di un valido parametro normativo si è fatto espresso rinvio all’art. 2236 c.c., in forza del quale la responsabilità professionale è circoscritta alle ipotesi di dolo e colpa grave. Escludendo la responsabilità dolosa, in patente contraddizione con l’attività medica, l’imputazione colposa veniva così confermata per le ipotesi di errore grave e macroscopico, dovuto all’insussistenza del livello minimo di abilità, prudenza, perizia e diligenza richieste a chi esercita tale professione. Tuttavia, si è presto precisato che, in ossequio al disposto dell’art. 2236 c.c., occorre distinguere le diverse tipologie di intervento medico, in quanto la limitazione di responsabilità ivi prevista è circoscritta alle prestazioni implicanti «la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà». Conseguentemente, solo in caso di imperizia la responsabilità penale del medico dev’essere limitata alle gravi violazioni delle regole di condotta. Il giudizio concernente la diligenza e la prudenza risultava particolarmente rigoroso, ancorato ai tradizionali criteri di valutazione e di accertamento della responsabilità colposa. A tal fine, si ricorreva ai parametri ex art. 1176 co. 2 c.c., relativo alla diligenza qualificata richiesta nell’esercizio di un’attività professionale, sicché rilevava altresì la colpa lieve. Questa impostazione è stata peraltro avallata dalla Corte costituzionale nel 1973, la quale ha sostenuto la legittimità del trattamento di favore riservato alla categoria professionale in esame nelle ipotesi in cui la prestazione medica comporti problemi tecnico-scientifici di particolare complessità.

Successivamente, però, la giurisprudenza ha ritenuto inopportuna un’applicazione estensiva dell’art. 2236 c.c. al settore penale. Per assicurare l’omogeneità della disciplina della colpa penale, anche la colpa professionale dev’essere valutata in base alle regole generali ex art. 43 c.p. Inoltre, si è obiettato che il grado della colpa rileva, semmai, unicamente ai fini della determinazione della pena, operando come circostanza aggravante (la cd. colpa cosciente ex art. 61 n. 3 c.p.) ovvero per la commisurazione della pena in concreto, secondo quanto previsto dall’art. 133 co. 1 n. 3 c.p.

Si è così progressivamente affermata una lettura autonoma della responsabilità penale rispetto ai criteri civilistici che, tuttavia, non sono stati del tutto abbandonati. Come anche una recente giurisprudenza ha confermato, pur escludendo una diretta applicabilità dell’art. 2236 c.c. in campo penale, il criterio ivi previsto può fungere da regola di esperienza idonea ad orientare il giudice nella valutazione di imperizia, qualora il caso concreto abbia implicato la soluzione di problemi tecnici particolarmente difficoltosi ovvero quando si versi in una situazione emergenziale. Tale osservazione, che impone di considerare le difficoltà con le quali il professionista ha dovuto confrontarsi – oltre che il contesto concreto in cui egli ha agito – valorizza il profilo squisitamente soggettivo della responsabilità medica e si colloca nel consueto accertamento della colpa penale.

Tali approdi giurisprudenziali, volti a valorizzare, sul piano della rimproverabilità personale, il rischio insito nell’attività e le contingenze del caso concreto, possono dirsi a tutt’oggi validi nell’esegesi della responsabilità medica. L’intrinseca genericità delle regole di matrice sociale la cui violazione integra la tipicità della fattispecie colposa (secondo la concezione normativa della colpa) comporta un inevitabile abbassamento del livello di determinatezza della fattispecie medesima.

A fronte delle difficoltà dell’accertamento giudiziale della colpa generica, si è assistito ad una crescente positivizzazione delle regole di condotta poste a presidio dell’attività medica, derivanti però dall’attività di regolazione privata (non dal legislatore). Il riferimento è, in particolare, alle linee-guida, di matrice statunitense, ai protocolli diagnostico-terapeutici, nonché alle regole deontologiche, sui quali sono necessarie talune specificazioni.

Le linee-guida possono definirsi come delle raccomandazioni diagnostico-terapeutiche volte ad individuare, sulla base della miglior scienza ed esperienza in un dato momento storico, le modalità di assistenza più adeguate in relazione ad un determinato quadro clinico. Il dibattito circa la natura e l’efficacia vincolante o meno delle cd. guidelines, quali parametri di valutazione della responsabilità medica, è cresciuto a seguito della novella legislativa del 2012, nei termini che a breve verranno illustrati.

La positivizzazione di regole cautelari sembra infatti comportare l’ampliamento della sfera applicativa della colpa specifica, specie ove l’art. 43 c.p. si riferisce alle «discipline». Con tale espressione si allude a norme generali rivolte ad un determinato gruppo di soggetti, fissate da un’autorità pubblica o privata, sicché sembrano potervi rientrare le categorie esaminate, provenienti da organismi privati. Tale asserzione non può però essere confermata automaticamente. Data la loro valenza orientativa a livello diagnostico e terapeutico, un’eventuale violazione non può automaticamente configurare una responsabilità colposa e, al contempo, il loro rispetto non vale sempre ad escludere l’addebito penale, qualora la specificità del singolo quadro clinico richieda diversi o ulteriori interventi terapeutici. È preferibile, pertanto, collocare tali fonti regolamentari tra i parametri invocabili dal giudice nell’accertamento della colpa generica.

Come anticipato, il dibattito relativo alle linee-guida si è riacceso a seguito dell’introduzione dell’art. 3 l. 189/2012, di conversione al d.l. 158/2012. Tale disposizione prevede infatti che «l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica non risponde per colpa lieve». Ben si comprende, pertanto, l’importanza di una precisa definizione delle linee-guida, il cui rispetto può incidere sulla stessa tipicità della responsabilità colposa. Questo tuttavia non risulta l’unico punto controverso sollevato dalla novella legislativa, la quale introduce altresì il concetto di «colpa lieve», inedito nel diritto positivo penale, ma non estraneo all’interpretazione giurisprudenziale meno recente, come si è avuto modo di illustrare in apertura della trattazione.

Il legislatore, con l’intervento in esame, ha conferito un espresso rilievo al sapere scientifico e tecnologico consolidatosi in ambito medico e riconosciuto dalla comunità scientifica. Come parte della dottrina ha da subito sottolineato, il legislatore ha verosimilmente inteso enfatizzare il contenuto delle linee-guida, a prescindere dall’autorità che le ha emanate, purché la fonte sia autorevole e le direttive siano caratterizzate da un adeguato livello di scientificità.

Dalla lettera della norma introdotta emerge che il professionista che si adegui alle linee guida può nondimeno risultare in colpa, ma non punibile se questa è lieve. Ciò induce l’interprete a confermare quanto già precedentemente osservato e poi confermato dalla stessa giurisprudenza di legittimità.

Tali direttive rappresentano un importante ausilio tecnico-scientifico per il professionista, il quale tuttavia mantiene una certa autonomia nelle scelte terapeutiche, per raggiungere la miglior soluzione per il paziente. Al contempo, esse fungono da parametro ineludibile per il giudice nell’accertamento della responsabilità professionale, ma non azzerano la sua discrezionalità, in quanto egli può liberamente valutare se le circostanze concrete richiedessero una condotta diversa da quella indicata dalle linee-guida. In altri termini, esse assumono un rilievo probatorio notevole, ma non esaustivo. Naturalmente, in questa complessa verifica probatoria, il giudice dovrà servirsi degli esperti, periti e consulenti tecnici, i quali saranno tenuti ad esporgli il quadro attuale del sapere scientifico nell’ambito interessato dal processo.

In relazione all’aspetto più discusso della novella legislativa, ossia l’introduzione del concetto di «colpa lieve», occorre da subito sottolineare la mancanza di una precisa definizione e di una chiara linea di demarcazione rispetto alla colpa grave. Come anticipato, tali espressioni sono inedite nel diritto penale, ma la giurisprudenza risalente in tema di colpa medica faceva ad esse riferimento, quando invocava come parametro di giudizio l’art. 2236 c.c. Il discrimine tra colpa lieve e non è di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice. È evidente la difficoltà di tale operazione interpretativa, data la sua rilevanza nell’ambito delle fattispecie colpose, in particolare se causalmente orientate (la riforma ha inciso in particolar modo, infatti, sulle fattispecie di omicidio e lesioni colposi). Il giudizio si traduce nella verifica della stessa tipicità, data la natura normativa della colpa, priva di un contenuto psicologico effettivo, circoscrivendo l’area penalmente rilevante. Occorrerà verificare la misura dell’inosservanza delle linee guida ed affermare la sussistenza della colpa grave qualora vi sia una deviazione significativa rispetto alle direttive ivi impartite (eccesso di scostamento), ovvero se, pur non discostandosi da esse, la scelta terapeutica sia evidentemente estranea al caso concreto. Ancora, la colpa potrà definirsi grave se la necessità di un intervento difforme rispetto a quanto prescritto dalle linee guida sia evidente per la necessità di una scelta individualizzata (eccesso di conformismo). Al contempo, come ricorda la sentenza in commento, è necessario considerare le specifiche condizioni dell’agente ed il suo grado di specializzazione (secondo il tradizionale modello dell’homo eiusdem condicionis et professionis) nonché le peculiarità del caso concreto (per esempio, la complessità dell’intervento, l’eventuale situazione di urgenza, ovvero, in generale, la situazione in cui il professionista si è trovato ad operare), senza tralasciare altri aspetti, quali l’eventuale oscurità del quadro patologico, il grado di novità della situazione clinica, ecc.

La sentenza, richiamando l’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, ha ribadito che la riforma ha determinato una vera e propria abrogazione parziale delle fattispecie colpose commesse dagli esercenti le professioni sanitarie, perché la colpa lieve è ora penalmente irrilevante. Trattasi pertanto di un’ipotesi di aboliti ocriminis parziale, dove una norma incriminatrice speciale sopravviene restringendo l’area applicativa della norma previgente. Per i fatti non costituenti più reato (perché appartenenti alla “sottofattispecie” abrogata) sarà applicabile l’art. 2 co. 2 c.p. È di tutta evidenza l’effetto dirompente che la novella legislativa può avere avuto sulle numerose sentenze di condanna per omicidio o lesioni colposi pronunciate nei confronti di medici, data l’efficacia retroattiva del combinato disposto di cui all’art. 3 l. 189/2012 e 589-590 c.p.

Occorre ora soffermarsi sull’aspetto più innovativo della sentenza in commento. Come si è già posto in luce, l’ingresso del sapere scientifico nel processo penale consente di conferire oggettività al precetto, sovente generico, della responsabilità colposa e di individualizzare il più possibile la valutazione della rimproverabilità del professionista. Tuttavia, se si accede alla tesi (avallata dalla giurisprudenza) per cui il mancato rispetto delle linee guida non integra comunque una forma di colpa specifica, occorre chiedersi se la nuova normativa si riferisca ai soli casi di imperizia o anche a quelli di negligenza e imprudenza. La giurisprudenza di legittimità si è mostrata da subito orientata nel senso di limitare il parametro offerto dalle linee guida al campo della perizia. Il d.l. 2012, prima della conversione, faceva peraltro espresso riferimento all’art. 2236 c.c., riferibile alla sola imperizia. L’esonero dalla responsabilità non riguarderebbe pertanto le ipotesi di negligenza ed imprudenza, le quali risulterebbero incompatibili con un grado lieve di colpa, in quanto si risolvono in comportamenti caratterizzati da trascuratezza e poca attenzione.

La sentenza in esame dà atto di tale approccio ermeneutico, sottolineando però che si registrano pronunce in cui si è riconosciuto che la limitazione di responsabilità prevista dalla novella del 2012, pur trovando terreno d’elezione nell’ambito dell’imperizia, può rilevare anche laddove il parametro valutativo sia quello della diligenza. Tale contrasto, in verità, è solo apparente. La scienza penalistica – osservano i Giudici della IV Sezione – “non offre indicazioni di ordine tassativo nel distinguere le diverse ipotesi di colpa generica contenute nell’art. 43 c.p.”; nemmeno il tentativo di parametrare i giudizi di negligenza, imprudenza ed imperizia all’astratta figura dell’agente modello appare idoneo a soddisfare l’esigenza di tassatività.  L’indeterminatezza delle regole di diligenza sarebbe poi comprovata dalla variegata tipologia di obblighi che alle stesse sono stati ritenuti riconducibili. La sentenza menziona, a titolo esemplificativo, gli obblighi informativi posti a carico del capo dell’equipe chirurgica, comunque riferibili a regole di diligenza.

La sentenza osserva come allo stato dell’attuale elaborazione scientifica e giurisprudenziale “neppure la distinzione tra colpa per imprudenza (tradizionalmente qualificata da una condotta attiva, inosservante di cautele ritenute doverose) e colpa per imperizia (riguardante il comportamento, attivo od omissivo, che si ponga in contrasto con le leges artis) offra uno strumento euristico conferente, al fine di delimitare l’ambito di operatività della novella sulla responsabilità sanitaria”. Si registra infatti un’“intrinseca opinabilità” nella distinzione tra i diversi profili della colpa generica, mancando parametri che consentano di tratteggiare in termini tassativi le ontologiche diversità riscontrabili nelle regole di cautela.

Le considerazioni svolte nella motivazione de qua portano i Giudici di legittimità ad affermare che la valutazione del Giudice di merito non può che fondarsi sul canone del grado della colpa, secondo il consueto parametro della misura della divergenza tra la condotta effettivamente tenuta e quella che era da attendersi sulla base della norma cautelare inosservata. Nella determinazione della misura del rimprovero occorre poi considerare il contenuto della specifica direttiva clinica che viene in rilievo.

Le conclusioni cui è giunta la sentenza in commento testimoniano una rilevante evoluzione ermeneutica nell’ambito della responsabilità medica e traggono la loro matrice dall’interpretazione della cornice legale di riferimento, atteso che la l. 189/2012 non introduce, in effetti, alcun richiamo al canone della perizia ovvero alla particolare difficoltà del caso clinico. In base al combinato disposto degli artt. 3 l. 189/2012 e 43 comma 3 c.p. è stato pertanto enunciato il seguente principio di diritto: “la limitazione di responsabilità, in caso di colpa lieve, può operare, per le condotte professionali conformi alle linee guida ed alle buone pratiche, anche in caso di errori che siano connotati da profili di colpa generica diversi dalla imperizia”.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Aliatis, Nuovi sviluppi ermeneutici in tema di responsabilità medica, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 9