DIRITTO PENALELegilsazione speciale

Il rilascio delle certificazioni delle ritenute nella struttura dell’art.10bis d.lgs. 74/2000: una vexata quaestio

in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 11 – ISSN 2499-846X

Tribunale-Monza

di Mattia Miglio e Corrado Ferriani

Tribunale di Monza, 28 giugno 2016 (ud. 9 giugno 2016), n. 2276
Giudice Monocratico, Stefano Cavallini

1.La pronuncia in commento offre alcuni interessanti spunti di riflessione in merito al rilascio delle certificazioni quale elemento costitutivo del delitto ex art. 10-bis del D.Lgs. 74/2000.

Il Tribunale di Monza prende spunto dall’omesso versamento di ritenute, per un importo di poco superiore a Euro 150.000,00, in relazione all’anno di imposta 2011, da parte di una Società a responsabilità limitata; dopo aver escluso che possa trovare applicazione la soglia di punibilità (di recente introduzione, in forza del D.Lgs. 158/2015) di Euro 150.000,00, il Giudice si sofferma, in particolare, sul ruolo e sul valore del “rilascio delle certificazioni“, specie nelle ipotesi – come nella vicenda sottoposta a giudizio – in cui l’omesso versamento venga provato in sede dibattimentale solo sulla scorta del modello 770, senza che venissero prodotte in giudizio anche le relative certificazioni.

In primis, la sentenza delinea la struttura del reato ex art. 10-bis (nella versione precedente alla recente riforma dettata dal D.Lgs. 158/2015), affermando che essa consiste nella “combinazione del versamento delle retribuzioni e delle effettuazione delle ritenute: elementi che, per granitico insegnamento pretorio, possono puntualmente desumersi dalla semplice presentazione del modello 770” (cfr. p. 2).

D’altro canto, sempre il Tribunale si cura di rilevare anche che “in riferimento al secondo (e parallelo) antecedente dell’omissione penalmente rilevante, vale a dire al rilascio delle certificazioni ai sostituti da parte della società contribuente, sostituto d’imposta” sono sorte, all’interno della giurisprudenza di legittimità, differenti correnti giurisprudenziali eterogenee tra loro.

1.1.Una prima corrente, di impostazione più tradizionale – e fondata “all’id quod plerumque accidit e su un procedimento apertamente deduttivo” (cfr. p. 3) – ammette che la prova della certificazione possa trarsi anche solo sulla scorta della semplice presentazione del modello 770 (in tal senso, cfr. ex multis, Cass. Pen., Sez. III, 27 marzo 2014, nr. 19454, in ius.explorer.it; Cass. Pen., Sez. III, 30 maggio 2014, nr. 27479, in ius.explorer.it.).

Una seconda impostazione, invece – pur riconoscendo che il rilascio della certificazione rientrasse negli elementi costitutivi del delitto ex art. 10-bis – riconosceva comunque la possibilità che la Pubblica Accusa potesse provare l’avvenuto rilascio delle certificazioni anche “mediante equipollenti – di carattere documentale, indiziario o testimoniale – tra i quali valore inferenziale preponderante assume […] proprio il modello 770” (cfr. p. 3. In tal senso, si veda, nella giurisprudenza di merito, Tribunale di Milano, 17 luglio 2015, n. 8741, inedita; Tribunale di Rovigo, 11 novembre 2014, n. 827, inedita).

Tali filoni sono stati poi rivisitati da recente giurisprudenza di legittimità, la quale ha rivalutato il ruolo del rilascio delle certificazioni, specificando, a tal proposito, che la sola presentazione del modello 770 appare inidonea a dimostrare l’avvenuto rilascio delle certificazione, dal momento che tale requisito costitutivo può essere provato, oltre ogni ragionevole dubbio, mediante la produzione in giudizio dei c.d. CUD (in tal senso, cfr., ex plurimis, Cass. Pen., Sez. III, 9 ottobre 2014, nr. 10475, in ius.explorer.it). Tale corrente, ovviamente, si fonda su alcune differenze formali e sostanziali, già richiamate nel paragrafo precedente, che intercorrono tra i due documenti.

In particolare, tra le certificazioni c.d. CUD e il modello 770 non vi è alcuna coincidenza o fungibilità, dal momento che tra i due documenti esistono numerose differenze, sia formali (si pensi solo che sono regolati da due distinti testi normativi e che non coincide il termine di presentazione) che sostanziali, in forza delle diverse finalità a cui i due documenti sono preposti. Infatti, a seguito del rilascio del CUD, il sostituito, in caso di ritenuta a titolo d’imposta, viene liberato dall’obbligazione tributaria, mentre, in caso di ritenuta a titolo d’acconto, sempre il soggetto passivo potrà effettuare una compensazione tra il proprio debito di imposta ed il credito corrispondente alla trattenuta subita. Al contrario, il modello 770 può anche non contenere alcun riferimento all’eventuale rilascio della certificazione e del loro numero, dal momento che il sostituto può anche non compilare la voce del 770 denominata “numero comunicazioni relative a certificazioni lavoro dipendente e assimilato” dalla quale può dedursi, in termini di ragionevole certezza, la prova del rilascio della certificazione.

In tale contesto, pertanto, tra le varie ipotesi prospettabili, potrebbe avvenire pertanto che il sostituto:

a)rilasci i certificati senza avere versato le ritenute e poi non presenti il modello 770;

b)non versi le ritenute e non rilasci il CUD ma presenti la dichiarazione 770;

c)non versi le ritenute, presenti il CUD tempestivamente e presenti tardivamente il CUD;

d)non versi le ritenute, presenti un CUD fraudolentemente alterato e presenti poi tempestivamente il modello 770.

In accoglimento all’ultima corrente giurisprudenziale, appena ricordato, il Tribunale conclude, puntualizzando “quale corollario processuale, la necessità di acquisire la documentazione dei sostituti presso l’Agenzia delle Entrate, ovvero di ricorrere alla prova testimoniale, prove dirette del rilascio delle certificazioni, pena la forzatura dei principi fondamentali del giudizio penale” (cfr. p. 4).

2.Orbene, tale impostazione valorizza, evidentemente, il ruolo “del rilascio delle certificazioni” quale criterio distintivo tra il delitto ex art. 10-bis (prima della riforma ex D.Lgs. 158/2015) e l’illecito amministrativo ex art. 13 D.Lgs. 471/1997, per definire l’ambito di rilevanza penale: “del resto, da un semplice raffronto tra la norma incriminatrice ante d.lgs 158/2015 e l’illecito amministrativo tipizzato dall’art. 13 d.lgs. 471/1997 si ritrae decisiva conferma all’assunto, giacché la scelta politico-criminale del legislatore era orientata, in palese discontinuità con il diretto referente della l. 516/1982, a munire di penale rilevanza solo le omissioni concernenti le ritenute “certificate”, presidiando con la sanzione amministrativa le violazioni nella liquidazioni delle restanti: un discrimine, invero, sul quale le Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 37425/2013) avevano edificato la compatibilità convenzionale del sistema” (cfr. p. 4).

Un discrimine – come evidenziato nelle motivazioni – poggiante sul fondamentale intervento delle Sezioni Unite, le quali avevano avuto il grande merito di valorizzare il presupposto del rilascio della certificazione (il CUD) al sostituto, superando così la tesi secondo cui la fattispecie di omesso versamento di ritenute certificate integrasse una forma di reato omissivo proprio (un c.d. reato-inadempimento).

Infatti, i due illeciti (penale e amministrativo) – pur condividendo parte dei presupposti e la condotta omissiva – divergevano (prima della riforma ex D.Lgs. 158/2015) tra di loro in alcuni elementi essenziali – il requisito della certificazione (richiesto solamente dall’art. 10-bis), il termine entro cui adempiere la condotta dovuta (il 16 del mese successivo per l’art. 13 del D.p.r. 471/1997, il 31 ottobre per la fattispecie penale) e la soglia di punibilità (prevista solo all’interno dell’art. 10-bis) – che avevano indotto le Sezioni Unite a ritenere che le due sanzioni si ponessero tra loro non tanto in termini di specialità, quanto, a ben vedere, in un rapporto di progressione, per cui la norma penale stabilisce presupposti e termini diversi per la propria applicazione, estendendo così le esigenze organizzative dell’imprenditore su una scala annuale e non solamente mensile, come invece sembra dedursi dalla lettura della norma amministrativa.

2.1.Sennonché, dopo la riforma dell’art. 10-bis del D.Lgs. 74/2000 sembrano essere davvero molti i dubbi circa la tenuta dell’impianto complessivo dettato dalla c.d. sentenza Favellato; la stessa sentenza qui annotata parla al passato, definendo il requisito del rilascio delle certificazioni “un discrimine, invero, sul quale le Sezioni Unite (Cass. pen., Sez. Un., 37425/2013) avevano (ndr.; avevano, non hanno) edificato la compatibilità convenzionale del sistema”.

Infatti, la modifica operata dall’art. 7 del D. Lgs. 158/2015 sulla struttura del delitto ex art. 10-bis, sembrerebbe – almeno stando al tenore letterale del nuovo art. 10-bis – aver esteso la condotta omissiva non solo alle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata al sostituto, ma anche a “quelle dovute sulla base della dichiarazione” annuale (c.d. mod. 770), nonostante, come si è descritto poco sopra, i due elementi non siano affatto fungibili e sovrapponibili tra di loro e, pertanto, una loro sostanziale parificazione si potrebbe porre in potenziale contrasto con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.

A ciò si aggiunga anche, e pare la questione più delicata, che la parificazione dei due requisiti – la “certificazione” e la “risultanza sulla scorta della dichiarazione annuale” – rischia di aprire la strada a una possibile duplicazione del sistema sanzionatorio in relazione a due illeciti sostanzialmente identici; l’elisione del requisito della certificazione – quale criterio distintivo tra i due illeciti – potrebbe, infatti, accomunare i due illeciti che si differenzierebbero tra loro solo per un paio di elementi di dettaglio – la presenza della soglia di punibilità e il differente momento temporale di consumazione dei due illeciti – che non inficerebbero il cuore comune di entrambi gli illeciti, dando così origine a una situazione di contrasto o di incertezza applicativa, ove potrebbe risultare necessario un nuovo intervento delle Sezioni Unite o, addirittura, delle corti europee, in applicazione del c.d. principio del ne bis in idem in ambito sanzionatorio.

3.Da ultimo, infine, deve essere dedicata qualche breve riflessione in merito alla discrasia intercorrente tra le finalità teoriche a cui mirava la riforma e la concreta realtà applicativa.

Come noto, il restyling dettato dal D.Lgs. 158/2015 mirava, almeno nelle intenzioni, “a una riduzione dell’area di intervento della sanzione punitiva per eccellenza – quella penale – ai soli casi connotati da un particolare disvalore giuridico, oltre che etico e sociale, identificati, in particolare, nei comportamenti artificiosi, fraudolenti, simulatori, oggettivamente e soggettivamente inesistenti, ritenuti insidiosi anche rispetto all’attività di controllo” (cfr. Relazione Governativa), riducendo la sfera del penalmente rilevante alle sole fattispecie maggiormente insidiose e fraudolente.

Tuttavia, per i motivi che si sono esposti poco sopra, il legislatore delegato sembra aver disatteso (se non addirittura totalmente inosservato) le finalità indicate dalla legge delega, estendendo, come si è visto, la minaccia penale anche a ipotesi di mero omesso versamento anche non certificatosprovviste di sanzione penale secondo la precedente formulazione dell’art. 10-bis – ma trascurando, al contempo, di punire condotte maggiormente fraudolente, quali l’omesso versamento di ritenute falsamente certificate.

E un elemento sintomatico di una scelta legislativa poco equilibrata può trarsi anche alla luce delle motivazioni della presente pronuncia; nonostante l’entrata in vigore della nuova formulazione dell’art. 10-bis, il Tribunale di Monza non ha fatto alcun cenno alle innovazioni dettate dal D.Lgs. 158/2015, limitandosi (correttamente) a riproporre l’intenso dibattito giurisprudenziale che aveva preceduto l’entrata in vigore della Riforma.

Si obietterà, ragionevolmente, che la nuova formulazione non avrebbe potuto trovare applicazione nella vicenda in esame, sulla scorta dei principi dell’art. 2 c.p., in quanto fattispecie più sfavorevole entrata in vigore dopo la consumazione del fatto e che, pertanto, l’unica strada percorribile era l’applicazione del “vecchio” art. 10-bis.

Ma tale rilievo conferma, purtroppo, che, almeno con riferimento al nuovo art. 10-bis, il restyling dettato dalla Riforma è una vera occasione persa, ove il Legislatore, lungi dal rispettare gli obiettivi della legge delega, è finito, addirittura, con l’aggravare tale fattispecie delittuosa, sotto certi aspetti.

In altri termini, l’imputato è stato assolto secondo i canoni della vecchia fattispecie di delitto di omesso versamento di ritenute certificate mentre, al contrario, la sua omissione avrebbe potuto integrare, in linea assolutamente teorica (stante l’art. 2 c.p.), il nuovo art. 10-bis.

Ma, rebus sic stantibus, la situazione normativa che si delinea appare davvero paradossale; da un lato, una riforma avente finalità dichiaratamente deflattive potrebbe estendere l’area del penalmente rilevante, dall’altro, la precedente formulazione, astrattamente più severa, rischia di essere più lieve e di mandare esenti da responsabilità penale numerose ipotesi di omesso versamento.

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio, C. Ferriani, Il rilascio delle certificazioni delle ritenute nella struttura dell’art.10bis d.lgs. 74/2000: una vexata quaestio, in Giurisprudenza Penale Web, 2016, 11