I poteri della Corte costituzionale sulla lex mitior: brevi considerazioni critiche del prof. Roberto Bin
in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 1 – ISSN 2499-846X
Cassazione Penale, Sezione VI, Ordinanza 12 gennaio 2017 (ud. 13 dicembre 2016), n. 1418
Presidente Carcano, Relatore Bassi
Alcuni giorni or sono avevamo studiato l’ordinanza in epigrafe, con cui la Corte di Cassazione Penale ha sollevato questione di legittimità costituzionale in merito all’art. 73, D.P.R. n. 309/90 perché frutto di una sentenza costituzionale resa – riteneva il Collegio – in violazione del principio di riserva di legge. Attraverso tale pronuncia, la Consulta aveva annullato una norma più favorevole alla precedente e ripristinato il vigore di quest’ultima, con ciò arrogandosi un potere riservato al Legislatore parlamentare.
Quest’oggi pubblichiamo alcune brevi considerazioni critiche sul tema, svolte dal professor Roberto Bin, che ringraziamo per la sua rapida disponibilità.
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L’ordinanza della Cassazione mostra quanto male possa fare la letteratura sulla crisi del sistema delle fonti. Seguendo forse l'”autorevole dottrina costituzionalistica”, l’ordinanza infila una serie di perle che la portano a non vedere più il filo del ragionamento.
Liberiamo il campo anzitutto dalla strana idea che il principio di legalità imponga che “gli interventi in materia penale tesi ad ampliare l’area di un’incriminazione ovvero ad inasprirne le sanzioni possono essere legittimamente compiuti soltanto ad opera del legislatore parlamentare. La Carta Fondamentale assicura così al cittadino che la produzione della legislazione penale – quella che più delle altre incide sui diritti e sulle libertà fondamentali della persona – sia affidata al Parlamento, quale organo dotato della massima legittimazione democratica”.
Lo si può dire forse altrove, non nel paese in cui “i casi e i modi” di cui all’art. 13 Cost. sono principalmente fissati dai codici, cioè da legislazione delegata emanata dal Governo su delega delle Camere. Né d’altra parte il fatto che una norma sia posta dall’organo “dotato della massima legittimazione democratica” impedisce che essa venga dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, quando si tratti di garantire la prevalenza della Costituzione.
Non si tratta di “bilanciare” il principio di legalità “con altri principi” (anche qui mi sembra di avvertire echi deviati di pensiero costituzionalistico), ma di impedire che la Costituzione venga violata. E questo limite vale sempre e comunque, in nulla rilevando che l’atto legislativo sia prodotto dal Governo o dal Parlamento (anzi, le buone letture costituzionali servono a sottolineare che il judicial review delle leggi nasce proprio dall’esigenza di evitare abusi della maggioranza parlamentare “democraticamente eletta”).
Se alla Corte, e solo alla Corte, spetta di dichiarare l’illegittimità di una legge, producendo di conseguenza, attraverso l’annullamento di atti (tipicamente per vizi “formali”) o di disposizioni, le norme che questa esprimono, questo non consente di confondere la giurisprudenza costituzionale con le “fonti del diritto”: anche questo è il prodotto di cattive letture, probabilmente.
La Corte decide in merito alla compatibilità costituzionale delle fonti, ma nulla può dire con autorità sulla ripercussione che le sue sentenze avranno sul piano dell’interpretazione delle leggi (si ricordi l’antica querelle sulle c.d. sentenze interpretative di rigetto e la “guerra tra le Corti” che esse hanno provocato). Da qui nasce il grossissimo problema delle sentenze con cui la Corte cerca talvolta di “regolare gli effetti” delle sue sentenze: questi sono definiti dalla Costituzione e dalle leggi di attuazione in termini di “divieto di applicazione” delle disposizioni/norme dichiarate illegittime: ma quando le leggi si possano o si debbano applicare è materia che è pienamente affidata ai giudici.
In ciò sta anche la soluzione del problema delle norme penali di favore: la Corte, quando non vuole stringere il rubinetto dell’ammissibilità, dice che spetta al giudice remittente giudicare della rilevanza, essendo il dominus del giudizio principale: alla Corte compete soltanto valutare la sufficienza della motivazione contenuta nell’ordinanza. Analogamente, alla Corte spetta di dichiarare o meno l’illegittimità della legge/disposizione/norma, mentre spetta ad ogni giudice valutare se e in che modo la sentenza rilevi nel suo caso.
Quindi la Cassazione non ha nessun motivo di chiedere alla Corte di dichiarare l’illegittimità di una legge che può evitare di applicare se lo impedisce il principio di legalità.
Come citare il contributo in una bibliografia:R. Bin, Il rapporto tra Corte costituzionale e lex mitior: brevi considerazioni critiche, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 1