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Niente Facebook ai domiciliari: la Cassazione lo conferma

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 2 – ISSN 2499-846X

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Cassazione Penale, Sez. II, 8 novembre 2016 (ud. 14 luglio 2016), n. 46874 
Presidente Fiandanese, Relatore Taddei, P.G. Viola (concl. conf.)

Massima

Viola il divieto di cui all’art. 284 comma 2 c.p.p., il soggetto sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari che intrattiene comunicazioni con terzi soggetti tramite congegni elettronici del tipo Facebook, mediante la condivisione di un “post” chiaramente indirizzato (per caratteristiche specifiche del messaggio) a destinatari determinati. Ne consegue l’aggravamento della misura cautelare disposta, da domiciliare a inframuraria.

Il commento

1. In sintesi

Con la decisione in commento [1], la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi in tema di divieti ed obblighi derivanti dallo stato di detenzione, ribadendo un proprio orientamento piuttosto rigoroso (e nei fatti complesso da attuare) nei confronti delle moderne tecnologie informatiche-telematiche.

Nella recente sentenza n. 46874 del 2016, infatti, viene confermato l’orientamento già enunciato negli anni precedenti in tema di utilizzo di Internet e Facebook da parte del soggetto ristretto: il sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari viola il divieto di cui all’art. 284 comma 2 c.p.p. allorquando viene trovato a comunicare con terzi soggetti tramite la piattaforma social Facebook.

2. Il fatto e la vicenda giudiziale

La vicenda concreta trae origine dall’impugnazione da parte del ristretto dell’ordinanza del Tribunale del Riesame che aveva confermato l’aggravamento della misura custodiale, da domiciliare a inframuraria, in seguito a contestate violazioni della misura domiciliare ritenute gravi in sede di merito: all’impugnante veniva contestato di aver violato il divieto di comunicazione di cui all’art. 284 c.p.p.[2] condividendo sul social-network Facebook commenti e pensieri cripticamente rivolti ad un certo destinatario e aventi per di più contenuto intimidatorio.

Le obiezioni a sostegno dell’impugnazione riguardavano vari aspetti: l’indagato spiegava di aver soltanto condiviso pubblicamente un “post”, perciò la sua condotta non avrebbe integrato gli estremi di una vera e propria “comunicazione”; il messaggio non aveva contenuto intimidatorio per vari motivi; la condotta posta in essere non avrebbe nel concreto violato gli obblighi derivanti dall’art. 284 c.p.p. né sarebbe stata caratterizzata da una seppur minima lesività.

L’esito di Cassazione, che rigetta l’impugnazione formulata dall’indagato, a ben vedere non affronta nel merito le doglianze avanzate: preliminarmente sottolinea infatti come la difesa abbia tentato di fornire una nuova ricostruzione dei medesimi fatti, nel senso di una loro diversa lettura, preclusa come tale in sede di legittimità. Nel ribadire che il compito del giudice delle leggi è vagliare se la motivazione fornita dal giudice di merito sia coerente, logica e razionale (in proposito, si cita Cass. n. 42369/2009), la pronuncia de quo conferma la validità razionale dell’iter logico-giuridico seguito dal Tribunale del Riesame.

Invero, il ragionamento formulato in primo grado appare logico, condivisibile e adeguatamente motivato con riguardo all’obbligo di non comunicare con persone estranee che “deve essere [correttamente]inteso nel senso di un divieto non solo di parlare con persone non conviventi, ma anche di stabilire contatti con altri soggetti, sia vocali che a mezzo congegni elettronici”. Rientrano quindi nel concetto di comunicazione tutti gli scambi di informazioni il mittente/ristretto ed un suo destinatario, a prescindere dallo strumento utilizzato: dai tradizionali “pizzini”, ai messaggi SMS od oggi Whatsapp fino ad arrivare a tutte le comunicazioni a mezzo informatico-telematico.

Il Tribunale, interpretando in maniera lata il concetto di comunicazione, tenta di rendere effettivo il precetto di cui all’art. 284 c.p.p. alla luce dello sviluppo tecnologico, dilatandone considerevolmente i confini: per comunicazione si arriva così ad intendere qualsiasi contatto, sia esso reale o virtuale, intervenuto fra il ristretto e terzi soggetti, siano essi determinati o solo determinabili.

3. La conferma e l’ampliamento dei precedenti

La pronuncia del Collegio di legittimità del 2016 conferma due precedenti del 2010 e del 2012[3]  e si colloca nel solco di un orientamento piuttosto diffuso soprattutto in sede di merito: per vero, il precedente del 2010 affronta il tema in maniera più approfondita rispetto alla nuova pronuncia, soffermandosi a sottolineare come “la moderna tecnologia consente oggi un agevole scambio di informazioni anche con mezzi diversi dalla parola, tramite web e anche tale trasmissione di informazioni deve ritenersi ricompresa nel concetto di comunicazione, pur se non espressamente vietata dal giudice, dovendo ritenersi previsto nel generico ‘divieto di comunicare’ il divieto non solo di parlare direttamente, ma anche di comunicare attraverso altri strumenti, compresi quelli informatici, sia in forma verbale che scritta o con qualsiasi altra modalità che ponga in contatto l’indagato con terzi”. Sulla base di tale ragionamento, il Collegio del 2010 ha espressamente ritenuto che la prescrizione di cui al secondo comma dell’art. 284 c.p.p. debba essere oggetto, in mancanza di più dettagliate specificazioni, di un’interpretazione estensiva alla luce delle esigenze proprie della fase cautelare.

Si tratta di una presa di posizione criticabile dal punto di vista della garanzia dei diritti del ristretto, pur se probabilmente appare motivata dall’esigenza di fornire immediate risposte alle istanze di tutela che si presentano nelle vicende concrete (soprattutto in fase cautelare, quando parte del ragionamento sono le esigenze cautelari), che non trovano riscontro in adeguati provvedimenti normativi.

Di qui l’estensione giurisprudenziale del divieto di comunicare non solo alle persone non familiari e non conviventi, ma anche, pur in assenza di disposizioni specifiche, di “comunicare” attraverso internet nel senso di indirizzare un proprio messaggio a soggetti di fatto indeterminati.

Già nel precedente del 2010 e in quello del 2012, il divieto sembra interessare non solo la comunicazione personale e diretta fra un mittente ed uno o più destinatari specifici, ma altresì tanti altri mezzi di diffusione di comunicazioni ad una pluralità di soggetti, per arrivare ai contenuti diffusi su social-network. Il divieto di cui all’art. 284 c.p.p., per essere effettivo, non può essere inteso nell’accezione ristretta, poiché in tal caso colpirebbe soltanto le conversazioni dirette con altre persone determinate, senza tener conto di tutte le possibilità di comunicazione che Internet e gli ambienti social oggi offrono; ne consegue che deve essere inteso nell’accezione più ampia “di comunicare, attraverso altri strumenti, compresi quelli informatici, sia in forma verbale che scritta o con qualsiasi altra modalità che ponga in contatto l’indagato con terzi”.

La ratio sottesa a tale ragionamento è evidente: la misura cautelare degli arresti domiciliari non deve essere intesa come premiale rispetto alla detenzione cautelare intramuraria, configurandosi come effettivo stato di limitazione temporanea della libertà personale e trovando comunque la propria legittimazione in specifici presupposti ed esigenze cautelari indicati dal legislatore. Conseguentemente, il divieto di comunicazioni con persone diverse dai famigliari conviventi o il difensore si estende a tutte le comunicazioni che l’indagato diffonde anche attraverso Facebook, non potendo Internet trasformarsi in uno strumento di evasione di fatto.

In effetti, l’utilizzo della piattaforma Facebook da parte dei soggetti ristretti comporta numerosi rischi di “evasione” dagli obblighi, ma non sempre appare corretto arginarne l’uso con il richiamo al divieto di cui all’art. 284 c.p.p.: da un lato perché dalla lettera della norma pare corretto evincere che qualsiasi limitazione alle comunicazioni da parte del ristretto dovrebbe essere specificamente prevista dal giudice nell’ordinanza cautelare; dall’altro perché, nei fatti, l’utilizzo di un social-network consente diverse opzioni, non tutte direttamente collegate al concetto di comunicazione. È ben vero che Facebook – come tante altre piattaforme social – offre il servizio di messaggistica istantanea, attraverso il quale possono intercorrere delle vere e proprie comunicazioni fra due o più soggetti; cionondimeno, è altrettanto vero che in tutti i social-network, e Facebook non fa eccezione, è del pari possibile limitarsi a condividere un c.d. “post” di qualcun altro [4] oppure virtualmente recarsi – come in una vera e propria piazza – a visitare le bacheche degli altri soggetti presenti nella rete.

Orbene, è quindi evidente come la nuova decisione in commento, confermando ed ampliando l’orientamento di cui danno esempio i precedenti del 2010 e del 2012, amplia i confini del divieto di cui all’art. 284 c.p.p. e vi include qualsiasi tipo di diffusione a mezzo Facebook di informazioni, abbiano o non abbiano queste un preciso destinatario. Il punto pare di non poco momento, dato che nei fatti vengono elise in via giurisprudenziale le garanzie del ristretto (in primis il diritto di espressione) attraverso l’interpretazione ampia di un divieto che tende ad una equazione tutt’altro che dimostrata (uso Facebook = comunicazione). Peraltro, tale orientamento era limitato nella sentenza del 2010 dalla necessità, secondo i giudici di Cassazione, di una prova rigorosa: dedicando un punto della motivazione alle difficoltà di accertamento, in ottica pro reo si sottolineava infatti che la comunicazione “deve essere provata dall’accusa e non può ritenersi presunta dall’uso dello strumento informatico”.

In altri termini, secondo tale precedente interpretazione non doveva bastare, al fine di chiedere la revoca degli arresti domiciliari e la loro sostituzione con la custodia cautelare in carcere, la dimostrazione che l’indagato avesse utilizzato Facebook da casa: serviva la prova concreta della sua comunicazione virtuale con soggetti terzi.

Si noti che, nel caso che ha dato origine alla pronuncia del 2016, una delle doglianze della difesa riguardava proprio questo specifico aspetto: l’indagato si doleva dell’esito del Riesame fra l’altro perché avrebbe solo condiviso un elemento della “bacheca” inserito da altri, senza scriverlo di propria mano e senza indirizzarlo specificamente ad un destinatario ma semplicemente diffondendolo attraverso il proprio profilo.

Il punto relativo al contenuto intimidatorio del messaggio viene trattato in un obiter dictum per rafforzare la conferma della decisione del Riesame con la creazione di un nesso all’individuazione di un possibile destinatario alla comunicazione: ai fini della valutazione in ordine alla violazione degli obblighi di cui all’art. 284 c.p.p. non rilevano ex se il contenuto e le caratteristiche della comunicazione (nel caso considerata oggettivamente intimidatoria), bensì solo in quanto permettano di ritenere che il messaggio diffuso nella Rete avesse uno o più destinatari. In proposito, la Corte di Cassazione così si esprime: “il messaggio diffuso sul social network peraltro, è oggettivamente criptico per i più ed indirizzato a chi può comprendere perché sottintende qualcosa di riservato e conosciuto da una ristretta cerchia di persone ed è chiaramente intimidatorio ,a dispetto del tono volutamente suggestivo, rafforzato dalle coloratissime emoticon , ancora più esplicitamente intimidatorie”. Il solo fatto quindi di aver diffuso in Facebook, tramite la propria “bacheca”, un contributo criptico e comprensibile solo a determinati soggetti permette di desumere che vi è stata comunicazione, come tale vietata dall’art. 284 c.p.p. così interpretato.

4. Le riflessioni sul punto

L’interpretazione proposta nella sentenza si pone quindi ai limiti dell’analogia con riguardo alla configurazione fornita del divieto di contatti previsto nel codice di procedura penale, esteso allo spazio web e ai molteplici canali di informazione e comunicazione che esso mette a disposizione.

Probabilmente i motivi di tale atteggiamento creativo sul punto sono molteplici: da un lato la giurisprudenza, trovandosi quotidianamente ad affrontare gli effetti dell’evoluzione tecnologica sulle vicende umane, ha necessità di creare un argine immediato alle enormi possibilità di comunicazione e diffusione di contenuti che Internet può offrire, pure a coloro che sono per varie esigenze sottoposti a restrizioni della libertà personale; dall’altro, permane la cronica inerzia del legislatore, il quale avrebbe da tempo dovuto occuparsi del tema fornendo una specifica regolamentazione dell’utilizzo di Internet e dei social network da parte dei detenuti/ristretti. A livello giurisprudenziale, stante tale silenzio, la risposta deve essere rinvenuta nelle norme esistenti.

Naturalmente, nei precedenti del 2010 e 2012 i giudici di legittimità stati sono attenti nel sottolineare come non venga condannato l’uso di Internet tout-court, utile anzi anche al fine di risocializzazione del ristretto, bensì l’uso della Rete come strumento utile all’evasione “virtuale” permessa dalle comunicazioni. La Corte, infatti, ha in entrambe le pronunce ammesso l’uso del Web solamente con “funzione conoscitiva o di ricerca“, purché esso venga fruito senza entrare in contatto con altre persone connesse.

5. Conclusioni

Effettivamente, ne emerge un quadro forse chiaro in astratto ma estremamente complesso in termini di attuazione concreta, dato che le due “funzioni” di Internet (comunicativa da un lato e di ricerca dall’altro) non sempre appaiono scindibili in un ambiente come la Rete, ove ogni elemento, per esistere virtualmente, in qualche modo deve essere condiviso e diffuso: portando alle estreme conseguenze tale ragionamento si potrebbe arrivare a sostenere che tutto in Internet è comunicazione, di fatto elidendo totalmente lo spazio della deroga individuata.

Ecco perché sarebbe sul punto auspicabile una regolamentazione specifica, atta a fornire per lo meno delle linee-guida rispetto all’utilizzo della Rete e delle sue infinite possibilità: e ciò sarebbe estremamente coerente con l’intero sistema, atteso che appare illogico che esista un luogo – seppur virtuale – nel quale il ristretto sia libero di fare tutto ciò che desidera. Lo stato di restrizione deve essere definito e delineato dal legislatore il quale, solo, può limitare la libertà personale: come tutti gli altri diritti e facoltà che si esercitano nel mondo “reale”, così le estrinsecazioni della personalità in rete devono trovare una regolamentazione legislativa precisa, in grado di definire cosa è permesso e cosa è vietato. Bisogna sempre ricordare infatti che la libertà di comunicazione è garantita quale diritto costituzionale inviolabile e limitabile solo in via legislativa, così come riconosciuto incidentalmente in un’altra importante pronuncia della Cassazione, emessa proprio in tema di violazione di prescrizioni e divieto di comunicare con soggetti terzi [5]: soltanto il legislatore può definire il confine fra esigenze cautelari o detentive ed esercizio “in forma 2.0” di diritti costituzionalmente garantiti.

Intanto sorge spontaneo chiedersi se persino un cinguettìo tramite Twitter, piuttosto che un mero aggiornamento di stato su Facebook rischino di essere considerati comunicazioni con terzi e non debbano piuttosto essere considerati quali espressioni di manifestazione del pensiero piuttosto che (data la moltitudine e l’indeterminatezza di interlocutori), in quanto tali permesse anche a chi deve seguire le prescrizioni imposte dall’Autorità.


[1]  Cass. Pen., sez. II, sentenza n. 46874/2016.
[2] Ai sensi dell’art. 284 c.p.p., “il giudice, quando necessario, impone limiti o divieti alla facoltà dell’imputato di comunicare con persone diverse da quelle che con lui coabitano o che lo assistono”.
[3] Cass. Pen., sentenza n. 37151/2010, Cass. Pen., sentenza n. 4064/2012.
[4] In tal caso, non è posta in essere alcuna comunicazione fra un mittente e un destinatario; semplicemente si rende disponibile sulla propria “bacheca”, che è lo spazio individuale di partecipazione alla rete social, un’informazione proveniente da terzi soggetti, rendendola fruibile alla genericità dei propri “amici”)
[5] Cass. Pen. sentenza n. 21296/2009.

Come citare il contributo in una bibliografia:
E. Vicentini, Niente Facebook ai domiciliari: la Cassazione lo conferma, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 2