La responsabilità penale del professionista attestatore nelle soluzioni concordate delle crisi di impresa (Tesi di laurea)
Prof. relatore: Filippo Sgubbi
Prof. correlatore: Angelo Carmona
Ateneo: Università Luiss di Roma
Anno accademico: 2015-2016
La riflessione svolta nel presente lavoro prende il via dal presupposto secondo cui è prerogativa del diritto penale quella di non perdere di vista le circostanze concrete della realtà e tantomeno divenire strumento politico per la soddisfazione di pretese particolari. Quello della macroscopica proliferazione di norme artificiali tese a controllare ogni potenziale fattore di rischio è un fenomeno tristemente reale e attuale, che conduce alla svalutazione del disvalore oggettivo delle condotte e al mutamento della funzione originaria della sanzione, che da strumento protettivo di un ordine naturale diventa strumento rafforzativo di un ordine artificiale. Le pericolose conseguenze di questa tendenza si fanno sentire, tra l’altro, nel settore dell’impresa e nel momento della sua crisi: se, come da premessa, la funzione del diritto penale non può essere quella di placare le ansie collettive di fronte all’insuccesso economico che, per quanto doloroso, rappresenta sempre un possibile esito del rischio di impresa e se l’attività di impresa comporta fisiologicamente dei rischi, di talché l’insuccesso deve essere accettato come un plausibile risvolto degli stessi, allora sarà necessario che il diritto penale trovi un punto di equilibrio con la realtà imprenditoriale.
Fondamentale esigenza diventa dunque quella di evitare di incorrere in eccessi sanzionatori nei confronti in primis dell’imprenditore, individuando un’area di “rischio consentito” nello svolgimento dell’attività d’impresa ed indagando le cause della crisi ed i suoi possibili esiti. Ciò non significa che il giurista debba addentrarsi nel terreno delle scienze aziendali, analizzando razionalmente i fattori che hanno condotto all’insuccesso economico. Al contrario, egli dovrà partire dalla considerazione delle circostanze concrete per comprendere quale sia lo strumento migliore da utilizzare per gestire la crisi.
Circoscrivere l’area di responsabilità dell’imprenditore, infatti, va di pari passo con l’accantonamento di quella concezione necessariamente liquidatoria che fino ad un recente passato ha connotato l’ambito della gestione della crisi. L’impresa deve essere guardata, infatti, non come un male necessario o come un fattore naturalmente produttivo di rischi e perciò meritevole di rappresentare terreno d’elezione della procedura fallimentare, bensì come un bene da tutelare e salvaguardare nella sua integrità. Ciò ci conduce alla riflessione sull’importanza delle soluzioni concordate, che rappresentano ad oggi una valida alternativa alla disgregazione dell’impresa e consentono all’imprenditore di dar voce alla sua posizione, di dialogare con i creditori e di consentire la sopravvivenza dell’azienda. Con il concordato preventivo, il piano attestato di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei debiti il legislatore ha inteso offrire tre soluzioni differenti in base alla gravità della situazione concreta, esaltando maggiormente il ruolo del controllo giurisdizionale nella prima, alla quale si farà ricorso in caso di perdite ingenti e consistente accumulo del debito, e valorizzando maggiormente l’autonomia privata nelle restanti.
Ad assistere in queste procedure l’imprenditore e ad assicurare ai creditori l’attendibilità delle sue proposte, il legislatore ha introdotto una figura inedita, quella del professionista attestatore. Il vuoto di tutela pubblicistica lasciato dalle riforme che hanno esaltato il ruolo delle parti nella composizione della crisi rende infatti indispensabile la presenza di un’autorità che garantisca il corretto svolgimento delle operazioni e la reale praticabilità delle soluzioni proposte. Proprio per questo motivo l’attestatore è dotato di elevata capacità tecnica ed è indipendente sia dall’imprenditore che lo nomina, sia dai soggetti a vario titolo coinvolti nella gestione della crisi.
Il compito fondamentale che il legislatore gli ha consegnato è quello di attestare la veridicità dei dati aziendali – per il cui reperimento egli risulta però dipendere dall’imprenditore, con le conseguenti questioni riguardanti il concorso di persone nel reato – e la fattibilità del piano di risanamento. Al fine di assicurare adeguata protezione all’affidamento che i destinatari della relazione ripongono circa la sua attendibilità e per responsabilizzare una figura dotata di tanta importanza, nel 2012 il legislatore è intervenuto introducendo l’art. 236-bis l. fall., rubricato “falso in attestazioni e relazioni”. Alla corretta intenzione di sanzionare gravemente le condotte infedeli di chi ha addirittura il compito di sostituirsi al giudice nell’accertamento della componibilità della crisi, tuttavia, non ha fatto seguito una costruzione nitida e tassativa della fattispecie. Essa infatti, oltre a mancare di adeguata armonizzazione nel sistema dei reati fallimentari, rischia di incriminare condotte non realmente colpevoli e di non consentire al professionista di individuare un proprio eventuale comportamento illecito, con conseguente frustrazione dei principi di offensività e tassatività. Il problema della rilevanza del falso valutativo, l’utilizzo di concetti poco chiari la genericità del requisito della “rilevanza” delle informazioni, nonché l’assenza di poteri ispettivi autonomi in capo all’attestatore sono solo alcune delle cifre problematiche che innalzano le aspettative di una risposta risolutiva da parte del legislatore.
In caso contrario, riaffiorerebbe anche per il professionista la questione inizialmente paventata per l’imprenditore: la norma penale, svuotata di contenuto, perderebbe di vista il bene giuridico tutelato, finirebbe per sanzionare comportamenti effettivamente privi di disvalore e porterebbe l’attestatore a vedersi rimproverato a prescindere da una responsabilità penale autenticamente colpevole. Il percorso di indagine che si intraprende prenderà dunque il via dalla considerazione della questione relativa alla crisi di impresa, passando poi per l’analisi del significato delle soluzione concordate e giungendo infine al tentativo di delineare con maggiore precisione i compiti e la portata della responsabilità penale del professionista, non mancando, in ultima battuta, una considerazione circa l’effettività dell’intervento normativo del 2012 e una proposta di soluzioni interpretative che circoscrivano il campo di applicazione dell’art. 236-bis l. fall.