ARTICOLICONTRIBUTIDiritto PenitenziarioDIRITTO PROCESSUALE PENALE

La Corte di cassazione sulla continuazione in esecuzione: il comune senso di giustizia e altri argomenti “in favorem rei”

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 4 – ISSN 2499-846X

Cassazione Penale, Sezioni Unite, 10 febbraio 2017 (ud. 24 novembre 2016), n. 6296
Presidente Canzio, Relatore Bonito

La massima

Il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna

1. Quaestio iuris  

La vicenda posta all’attenzione delle sezioni unite prende origine da un provvedimento della Corte d’appello di Napoli in funzione di giudice dell’esecuzione. Il 5 ottobre 2011 la Corte d’appello di Napoli condanna N.B. a sette anni e mezzo di reclusione e alla multa di novemila euro per i reati di associazione per delinquere e spaccio di sostanze stupefacenti. A quasi due anni esatti di distanza, il 4 ottobre 2013 la corte partenopea lo condanna a sei anni di reclusione e seimila euro di multa per due episodi di spaccio di sostanze stupefacenti.

Il 26 giugno scorso la Corte d’appello di Napoli, giudice dell’esecuzione, con ordinanza ha riconosciuto il vincolo della continuazione fra i fatti oggetto delle due pronunce. I fatti della prima sentenza sono stati considerati «violazione più grave» ai sensi dell’art. 81 c.p. Individuata così la pena base, il collegio ha applicato due aumenti, pari a due anni, per ciascuno dei due reati di spaccio giudicati nella seconda sentenza. In sede di cognizione, tuttavia, l’aumento per ciascuno di questi due reati era stato di un anno e quattro mesi. Il ricorrente lamenta, quindi, la violazione del divieto di reformatio in peius che vige in sede esecutiva, in quanto, pur nel rispetto del dato legale che vieta di infliggere una pena superiore alla somma di quelle inflitte in sede di cognizione (art. 671 c.p.p.), la Corte d’appello ha applicato aumenti superiori a quelli inflitti dal giudice della cognizione.

Sul punto la prima sezione della Corte di cassazione rileva un contrasto giurisprudenziale e, pur aderendo alla tesi che sostiene la legittimità della soluzione adottata dall’ordinanza della Corte d’appello di Napoli,  rimette la decisione alle sezioni unite.

Queste ultime, al contrario, hanno risolto il quesito in senso favorevole alle richieste del ricorrente. Ad avviso del collegio, infatti, non è possibile in sede di esecuzione applicare aumenti per continuazione che siano superiori a quelli inflitti in fase di cognizione, fermo il limite già ricordato dell’art. 671 del codice di rito.

2. Una battaglia napoleonica (ossia l’argomentazione della sentenza)

La soluzione individuata dalle sezioni unite è suffragata da molteplici ragioni, fra le quali occupa un posto di rilievo il ripensamento del ruolo della fase esecutiva. Come se fossimo sul campo di Austerlitz o di Jena, la strategia argomentativa delle sezioni unite si articola in un iniziale fuoco di artiglieria, cui seguono una carica di cavalleria e infine lo sfondamento da parte della fanteria.

La salva preliminare è costituita da argomenti tanto processualistici che sostanzialistici.

La prima batteria ad aprire il fuoco è rappresentata dall’argomento storico: il codice dell’88, a differenza del codice Rocco, favorisce la separazione dei processi; la possibilità di riconoscere la continuazione anche in sede esecutiva costituisce quindi un correttivo alla maggiore difficoltà di applicarla già in fase di cognizione. Più in generale l’art. 671 c.p.p. è espressione del favor rei che informa di sé l’intero processo penale, e nello specifico la fase esecutiva.

Per altro verso – e questo è il secondo fuoco – nell’incidente di esecuzione per l’applicazione della continuazione a norma dell’articolo da ultimo citato il giudice è chiamato ad una “quasi-cognizione”. È chiamato, cioè, a conoscere anche del merito della vicenda, nella misura in cui egli deve individuare quale fra più condotte debba essere considerata la più grave, e nel momento in cui decide l’entità dei singoli aumenti per i reati cosiddetti satellite. Il giudice dell’esecuzione, tuttavia, non può certamente conoscere dei fatti oggetto di causa; ciò rende impossibile una valutazione di maggiore gravità dei fatti oggetto delle sentenze su cui si incentra il giudizio di esecuzione.

L’ultimo colpo di questo fuoco di apertura è costituito dalla struttura «atomistica» del reato continuato: i singoli fatti uniti dal vincolo della continuazione rimangono fatti autonomi; da questo le sezioni unite deducono l’irragionevolezza di un sistema che permettesse in sede esecutiva di peggiorare il trattamento per ciascuno dei singoli fatti posti in continuazione.

Si deve riconoscere che questo primo insieme di argomenti predisposti in sentenza non è efficacissimo. Dall’argomento storico del favor continuationis (sia perdonato il latinetto!) non si può dedurre rigorosamente che gli aumenti in esecuzione debbano essere inferiori a quelli applicati in cognizione; d’altra parte, anche con aumenti maggiori di quelli applicati in cognizione, il cumulo giuridico discendente dal riconoscimento del vincolo della continuazione è pur sempre un vantaggio rispetto alla disciplina del cumulo materiale che sarebbe l’unica altra soluzione possibile. Anche la constatazione della limitata discrezionalità del giudice dell’esecuzione non è dirimente, perché al giudice dell’esecuzione sarebbe lecito tanto aumentare, quanto diminuire il valore dell’aumento della pena, a prescindere dalla conoscenza che egli abbia avuto del merito della vicenda. In ultimo, dalla constatazione della struttura «atomistica» del reato continuato – lo insegna Hume – infine non è dato desumere alcuna regola di giudizio valida per il giudice dell’esecuzione.

Molto più efficace, invece, è la carica di cavalleria lanciata dalle sezioni unite contro l’opinione della sezione prima.

I reggimenti di cavalleria impiegati nell’azione hanno un nome ben preciso: «comune senso di giustizia», nome che le sezioni unite non esitano a pronunciare in modo franco e deciso.

Le sezioni unite, infatti, muovono da una considerazione ormai pacifica: «la riconosciuta cedevolezza del giudicato è stata applicata sempre e soltanto in favore del condannato e mai contro di guisa che l’opzione favorevole alla possibilità di decisione in peius del giudice di esecuzione,  chiamato a determinare la sanzione del reato satellite […] si appalesa contraria all’attuale fase evolutiva del diritto penale e processuale[2]».

È interessante notare che la Suprema Corte riconosca questo movimento del diritto penale dalle spiagge rigorose e severe dei codici Rocco del ’30, attraverso la tappa del nuovo codice di rito e delle varie riforme del codice penale, verso i nuovi lidi di un ripensamento della pena.

Ben lungi dalla lode di (improbabili) magnifiche sorti e progressive di una disciplina che per sua natura conosce poco di magnifico e lodevole, è significativo che le sezioni unite diano ormai per riconosciuta l’insufficienza della pena così come strutturata nel codice Rocco e attribuiscano implicitamente un valore di “quasi-formante” al pensiero dominante sulla pena e le sue funzioni. Questo, infatti, è ciò che le sezioni unite chiamano «fase evolutiva del diritto penale e processuale» e che, infine, altro non sarebbe se non l’espressione di quel «comune senso di giustizia» poco prima richiamato.

Le sezioni unite, quindi, riconoscono che il giudicato cessa di essere intangibile; al contrario esso pare essere divenuto per definizione «cedevole». Tale lo renderebbe – si deve ritenere nel silenzio della pronuncia – la finalità rieducativa e la personalità della pena, riflesso della personalità della responsabilità penale, sancite dalla Costituzione.

Dopo la carica di cavalleria, ecco la fanteria: si tratta dell’argomento formale[3]. Le sezioni unite si richiamano al principio devolutivo che regge il rimedio esecutivo proposto. In base a questo principio il giudice si può pronunciare, in assenza di specifiche richieste avanzate dal pubblico ministero, solo sulle richieste del condannato che propone l’incidente d’esecuzione[4]. Essendo improbabile che il condannato chieda l’aggravamento della pena, è da escludere che il giudice possa procedere a ciò ex officio.

All’esito della argomentazione, le sezioni unite cassano l’ordinanza della Corte d’appello di Napoli con rinvio alla stessa per la nuova decisione del caso stabilendo che la corte territoriale provveda allo scioglimento di tutti i cumuli giudicati nelle due sentenza, al fine di individuare il reato più grave[5]; e quindi provveda all’applicazione di aumenti non superiori a quelli già indicati dal giudice della cognizione.

3. Considerazioni

Il parere del procuratore generale aveva già individuato e messo in luce l’argomento principe a favore della negazione della possibilità di aumenti superiori a quelli applicati in fase cognitiva: ‹‹la disciplina in materia di continuazione è ispirata al favor rei [;] l’adattamento del giudicato in sede esecutiva non può che flettere a favore del condannato›› e ciò in quanto ‹‹la fase dell’esecuzione viene valorizzata come strumento di umanizzazione della pena[6]››.

Si tratta dell’argomento che abbiamo metaforicamente indicato come la carica di cavalleria nel paragrafo precedente. Esso è, probabilmente, l’unica vera ragione che può aver determinato la decisione delle sezioni unite; gli altri argomenti, infatti, non sono apparsi dirimenti per stabilire il dovere del giudice dell’esecuzione di non superare gli aumenti applicati dal giudice della cognizione. D’altra parte questa regola introdotta dalle sezioni unite con la sentenza in commento non è una stretta conseguenza logica delle regole che vigono in materia di continuazione, dal momento che l’unico limite sussistente in materia è quello previsto dall’art. 671, co. 2, c.p.p.

La sola ragione che rende necessaria la soluzione adottata è quindi il riconoscimento del divieto di reformatio in peius come principio espressione ‹‹sostanzial[e]›› di ‹‹comune senso di giustizia[7]››. In altre parole, le sezioni unite riconoscono dignità alla legittima aspettativa del condannato a non vedere aggravata la sua pena, una volta che sia calato il giudicato sulla vicenda penale di cui è protagonista. Per altro verso, l’esigenza di personalizzazione della pena nell’ottica rieducativa giustifica la deroga al principio – ormai vacillante nel processo penale – dell’intangibilità del giudicato in direzione di un “alleggerimento” della pena.

Ben lontani dalla prospettiva della pena certa ed inflessibile, pare ormai acquisita la necessità che la pena si configuri come un procedimento dinamico, adattabile alle esigenze rieducative del reo. Questo scopo viene perseguito in primo luogo attraverso la valorizzazione delle potenzialità di istituti “classici”, come la continuazione, a cui la sentenza in commento ha inteso assicurare effetti esclusivamente migliorativi.


[1] Dalla sentenza: punto 4 delle motivazioni.
[2] Cfr. paragrafo 3.1 della sentenza
[3] Salvatore Satta ci consente di usare questo termine senza alcuna accezione negativa: le forme del diritto e, ancora di più quelle del processo, sono il modo di esprimersi della realtà; esse sono il modo di conoscere e penetrare l’essenza delle cose della vita che il diritto prende in considerazione (cfr. Satta, Il formalismo nel processo in Satta, Soliloqui e colloqui di un giurista, Nuoro, 2004, pp. 71 e ss.). In questo caso la struttura devolutiva dell’incidente di esecuzione, riconosciuta dalla sentenza in commento, altro non è che il corrispondente formale della garanzia sostanziale dell’impossibilità di una modifica peggiorativa della situazione conseguente alla conclusione della fase di cognizione del processo.
[4] Questo principio è funzionale ad escludere che si possa invocare il precedente rappresentato dalla sentenza 16208/2014. La sentenza concerneva, infatti, la rideterminazione in peius degli aumenti per la continuazione in sede d’appello. Le sezioni unite operano a questo proposito un distinguishing: a differenza dell’incidente di esecuzione, il grado di appello ha cognizione piena sul merito della vicenda, nei limiti dei motivi di appello proposti. Per questo motivo l’aggravamento degli aumenti per la continuazione sono giustificabili dalla piena cognizione di merito che i giudici d’appello hanno sulla vicenda. Si tratta, in sostanza, della riproposizione del motivo proposto precedentemente relativo alla limitata cognizione del giudice dell’esecuzione.
[5] Come si sarà notato, la Corte d’appello di Napoli aveva giudicato erroneamente come ‹‹violazione più grave›› tutti i fatti giudicati nella prima sentenza, senza sciogliere il cumulo giuridico operato in essa dal giudice della cognizione.
[6] Cfr. punto 4 dello ‹‹svolgimento del processo›› nella sentenza.
[7] Cfr. punto 3.1 delle motivazioni della sentenza.

Come citare il contributo in una bibliografia:
V. Ciliberti, La Corte di cassazione sulla continuazione in esecuzione: il comune senso di giustizia e altri argomenti “in favorem rei”, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 4