ARTICOLIDIRITTO PROCESSUALE PENALE

Reati tributari e sequestro per equivalente. La Cassazione delinea i confini di ammissibilità

Cassazione Penale, Sez. III, 9 febbraio 2017 (ud. 26 ottobre 2016), n. 6053
Presidente Carcano, Relatore Riccardi, P.M. Mazzotta

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte di Cassazione è tornata sul delicato ed attuale profilo – già affrontato dalle Sezioni Unite – concernente i limiti di ammissibilità dell’istituto del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente.

In estrema sintesi, il G.I.P. di Monza emette decreto di sequestro preventivo per equivalente (per un importo superiore a 7 milioni di Euro) nei confronti di due indagati, ai quali la Procura contesta il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti ex art. 2 D. Lgs. 74/2000. La difesa, tuttavia, contesta il provvedimento, lamentando che il Tribunale non avrebbe minimamente motivato le ragioni che avrebbero reso impossibile procedere al sequestro preventivo c.d. “diretto”; del resto, il risparmio fiscale maturato a valle dell’evasione altro non era che l’ottenimento di una somma di denaro, agevolmente rinvenibile nelle casse della società, amministrata dagli odierni indagati.

La Suprema Corte dichiara fondata la ragione di doglianza. Richiamandosi all’insegnamento di SS.UU. 10561/14 (c.d. sentenza Gubert), la Cassazione riconosce immediatamente la possibilità di adottare il sequestro per equivalente, anche nelle ipotesi in cui l’impossibilità di reperire i beni costituenti il profitto del reato sia semplicemente transitoria e reversibile, “essendo onere dell’indagato provare la concreta esistenza di beni nella Società su cui disporre la confisca diretta per evitare la confisca per equivalente”.

In particolare, come afferma anche l’orientamento giurisprudenziale successivo alle Sezioni Unite, “il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente del profitto può essere disposto sui beni personali degli amministratori solo nell’ipotesi in cui il profitto (o i beni ad esso direttamente riconducibili) non sia più nella disponibilità della persona giuridica […] sicché il pubblico ministero è legittimato, sulla base del compendio indiziario emergente dagli atti processuali, a chiedere al giudice il sequestro preventivo nella forma per “equivalente”, invece che ni quella “diretta”, solo all’esito di una valutazione allo stato degli atti in ordine alle risultanze relative al patrimonio dell’ente che ha tratto vantaggio dalla commissione del reato, non essendo invece necessario il compimento di specifici ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto diretto del reato […] o per ricercare in forma generalizzata i beni che ne costituiscono la trasformazione”.

Alla luce di tali principi, pertanto, “la richiesta e l’adozione del sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente sono legittimi solo quando il reperimento dei beni costituenti il profitto diretto del reato sia impossibile, o quando i beni non siano aggredibili; pur non essendo necessario un vero e proprio accertamento […], nondimeno il P.M. non ha una libertà di scelta tra il sequestro diretto e il sequestro per equivalente, potendo chiedere quest’ultimo solo all’esito di una valutazione sommaria, sulla base del compendio indiziario acquisito, in ordine alle disponibilità patrimoniali dell’ente che tratto vantaggio dalla commissione del reato, ma senza la necessità di specifici accertamenti preliminari o di una ricerca generalizzata di beni sociali”.

Detto in altri termini, pur senza necessariamente dar conto delle attività svolte per ricercare l’originario profitto del reato, il P.M. può chiedere il sequestro per equivalente solo a condizione di fornire comunque una motivazione che giustifichi la temporanea indisponibilità dei beni nel patrimonio sociale.

Tuttavia, ove tale onere di motivazione non venga assolto, non si potrà mai adottare un provvedimento di sequestro per equivalente, in luogo del sequestro diretto, e ogni provvedimento in tal senso risulterà annullabile, così come è accaduto nella vicenda de quo.

Infatti, nella vicenda che ci interessa, la Cassazione ha annullato con rinvio il provvedimento di sequestro per equivalente impugnato proprio, perché il G.I.P. non aveva neppure dedicato una riga per giustificare la (presunta ed infondata) impossibilità di procedere al sequestro diretto: “nella fattispecie in esame […] l’ordinanza impugnata non ha dato conto dell’impossibilità del reperimento dei beni costituenti il profitto del reato che, essendo, nel caso di specie, rappresentato dal risparmio di spesa derivante dall’evasione di imposta, e, dunque, da una somma di denaro, era altresì suscettibile di confisca diretta”.

Non solo. Il Tribunale del Riesame, a seguito della riforma, non ha più il potere di integrare una motivazione mancante, potendo unicamente revocare – ex artt. 309 comma 9 e 324 cpp – il sequestro preventivo per equivalente erroneamente disposto dal G.I.P.

In altri termini, i Giudici di legittimità hanno ancora una volta ribadito la necessità, onde dar corso al sequestro per equivalente sui beni personali dei componenti la governance dell’ente, di attuare una puntuale e motivata valutazione allo stato degli atti, in relazione alla consistenza del patrimonio della società che ha tratto vantaggio e beneficio dalla commissione del reato.

Pertanto, affinché il sequestro preventivo per equivalente possa essere ritenuto legittimo, se da un lato non è necessario il compimento di particolari ed ulteriori accertamenti preliminari per rinvenire il prezzo o il profitto nelle casse della società, d’altro risulta imprescindibile verificare l’insussistenza di una reale, tangibile e delineata possibilità di avanzare il sequestro sui beni della società che, nell’ottica dell’accusa, avrebbe beneficiato dell’evasione fiscale.