L’articolo 41-bis O.P.: fino a che punto il bisogno di sicurezza può legittimare il regime detentivo speciale?
in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 7-8 – ISSN 2499-846X
Sono passati ormai venticinque anni da quell’ “annus horribilis” che è stato il 1992. L’anno delle stragi, quello degli attacchi del clan dei corleonesi contro lo Stato. È l’anno della violenza, delle bombe di Capaci e via D’Amelio e delle minacce. È l’anno della trattativa e del ‘papello’ in cui Cosa Nostra presenta un elenco di richieste per porre fine alla stagione stragista. È l’anno in cui le elezioni politiche del 5-6 aprile lasciano l’Italia in una crisi drammatica e profonda, che getta discredito sulle vecchie élite politiche travolte dai primi avvisi di garanzia della stagione tangentopoli. È l’anno in cui Giulio Andreotti vede sfumare la propria elezione al Quirinale, al suo posto si insedia Oscar Luigi Scalfaro.
Venticinque anni da tutto questo, e venticinque anni dall’introduzione del secondo comma dell’articolo 41-bis nella legge 26 luglio 1975 n. 354, fra le norme sull’ordinamento penitenziario. Una disposizione fortemente controversa, che rappresenta la risposta dello Stato italiano ai feroci colpi della mafia e che permette al Ministro della Giustizia, per sua iniziativa o su richiesta del Ministro dell’Interno, di sospendere “per gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica” l’applicazione delle normali regole di trattamento penitenziario nei confronti di: condannati, imputati ed indagati, per i reati enunciati nel primo comma dell’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario, cioè per mafiosi, terroristi ed altri criminali che hanno compiuto determinati reati con lo scopo di agevolare le attività mafiose.
La sospensione delle “normali regole di trattamento” iniziò a colpire i più variegati diritti riconosciuti dall’ordinamento e le libertà dei detenuti subirono pesanti restrizioni: i colloqui, le telefonate, gli oggetti personali da detenere in cella, le ore d’aria, il peculio, la corrispondenza, tutto era limitato e differente, al fine, dichiarato, di evitare che “boss” e presunti tali comunicassero con le organizzazioni di appartenenza.
La presa d’atto di una deleteria prassi creatasi attorno all’applicazione di un istituto, che devolveva alla amministrazione penitenziaria la possibilità di incidere pesantemente su dei diritti costituzionali, alcuni dei quali, coperti anche da riserva di legge, portò alla naturale conseguenza di numerose proteste da parte degli avvocati dei detenuti, sfociate in numerose questioni di costituzionalità davanti alla Consulta che nel solo 1993, ne affrontò 5.
Ed è proprio questo il fulcro di questo lavoro: analizzare il 41-bis O.P. a partire dalla sentenza 143 del 2013 della Corte costituzionale, importante non solo perché è, fino al momento, unica (avendo per la prima volta dichiarato parzialmente illegittimo l’articolo in esame) ma anche in quanto pone dei punti fermi circa la ponderazione di due interessi meritevoli di tutela che si trovano in conflitto in una data situazione. Nel caso in esame i due interessi, di portata costituzionale, che vediamo scontrarsi sono da una parte la protezione dell’ordine pubblico, e dall’altra l’inviolabilità del diritto di difesa.
Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Nestola, L’articolo 41-bis O.P.: fino a che punto il bisogno di sicurezza può legittimare il regime detentivo speciale?, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 7-8