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Il caso Al-Mahdi innanzi alla Corte Penale Internazionale: la sentenza di condanna e l’ordine di riparazione

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 9 – ISSN 2499-846X

Il 17 Agosto 2017 la Trial Chamber VIII della Corte Penale Internazionale ha dato lettura dell’ordine di riparazione nel caso Ahmad Al Faqui Al-Mahdi (su cui questa Rivista, ivi). Il documento segue la sentenza del 27 settembre 2016 con cui la stessa Camera, alla presenza del Procuratore Bensouda e dell’imputato, ha condannato quest’ultimo per la violazione dell’articolo 8(2)(e)(iv), che qualifica quale crimine di guerra l’attacco intenzionale nell’ambito di un conflitto armato di carattere non-internazionale nei confronti di edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte, alla scienza o a scopi umanitari, monumenti storici, ospedali e luoghi di raccolta di malati e feriti, ove tali luoghi non siano impiegati con finalità militari.

1. I fatti

I fatti risalgono al 2012, quando il conflitto in Mali ha consentito al gruppo Al-Qaeda in the Islamic Maghreb (AQIM) e ai tuareg di Ansar Dine di instaurare un controllo amministrativo sulla storica città di Timbuktu. Al-Mahdi, studioso esperto di religione ed attivamente impegnato nell’organizzazione delle nuove istituzioni, divenne fin da subito figura centrale della Hisbah, struttura finalizzata a garantire il rispetto della dottrina imposta dai gruppi fondamentalisti menzionati. Già nell’atto di conferma delle accuse, gli elementi offerti dall’Ufficio del Procuratore avevano portato la Pre-Trial Chamber I a riconoscere come la sorte dei mausolei eretti sulle tombe di Timbuktu e della porta eterna della moschea di Sidi Yahia rientrasse nella competenza della Hisbah.

Dopo aver invano tentato di scoraggiare la popolazione dal proseguire nelle pratiche religiose e nei rituali tradizionalmente esercitati in questi luoghi, e nonostante Al-Mahdi stesso avesse cercato di scoraggiare i leader di Ansar Dine e AQUIM dal loro intento di distruggere i siti al fine di mantenere i rapporti con i locali, è stato dato avvio alla loro demolizione.

La risonanza internazionale del processo è stata principalmente dovuta alla notorietà dei santuari in questione, nove dei quali inseriti nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO per il loro valore artistico e culturale. Si tratta inoltre del primo caso in cui un imputato viene accusato esclusivamente di tale crimine, nonostante numerosi siano i precedenti riferimenti alla distruzione del patrimonio culturale nel diritto internazionale penale. Inoltre Al-Mahdi è fino ad ora l’unico accusato davanti alla Corte ad aver riconosciuto la propria responsabilità per i crimini addebitati dall’Ufficio del Procuratore ai sensi dell’art. 65 dello Statuto di Roma.

2. L’ordine di riparazione

Per la determinazione del contenuto dell’ordine di riparazione, la Camera ha beneficiato dell’ausilio di soggetti esterni, ma questo non ha comportato la pacifica accettazione delle proposte degli esperti. Queste sono state sottoposte al vaglio dei giudici, i quali hanno riconsiderato il quantum alla luce della necessità di limitarlo alle conseguenze del crimine per il quale Al-Mahdi è stato condannato, senza addebitare all’imputato conseguenze negative ulteriori. Ai 97.000 euro spesi dall’UNESCO per la ricostruzione dei soli mausolei indicati nella sentenza, si sono aggiunti 2.12 milioni di euro per la perdita economica subita e 483.000 euro di danno morale, per un totale di 2.7 milioni di euro.

La Corte ha operato una significativa riduzione del danno derivante dal mancato guadagno rispetto ai 44.6 milioni indicati dal report degli esperti. Questi erano calcolati su un territorio comprensivo anche della provincia di Bamako. Pur essendo questa una zona rientrante nella giurisdizione della Corte, i giudici hanno ritenuto che la comunità “vittima” del crimine debba essere limitata alla popolazione di Timbuktu, e che di conseguenza il danno debba essere calcolato rispetto ad un’area più circoscritta. Al fine di evitare doppi addebiti, sono inoltre stati scalati tutti i costi legati alla ricostruzione dei santuari, in quanto già compresi nel calcolo del danno emergente. È stata riconosciuta la necessità di calcolare il mancato guadagno esclusivamente rispetto agli introiti derivanti dal turismo nella città di Timbuktu, escludendo le conseguenze negative nel settore legate alle attività nazionali ed internazionali (come i trasporti). Infine i giudici hanno correttamente evitato di attribuire all’imputato gli effetti negativi determinati dalla guerra in corso e dalla presenza dei gruppi jihadisti in luogo, a cui pure Al-Mahdi era affiliato, in quanto non riconducibili al crimine. Ulteriori riduzioni approssimative sono state effettuate per limitare la determinazione del lucro cessante alla sola perdita di turismo legata alla distruzione dei mausolei e in particolare soltanto a quelli indicati nella sentenza.

La base giuridica per l’emanazione dell’ordine di riparazione è rinvenibile nell’art. 75 dello Statuto. Esso prevede che la Corte stabilisca i principi che regolano la riparazione nei confronti delle vittime  che includono restituzione, l’indennizzo e la riabilitazione. Sulla base di tali principi La Corte puó, su richiesta, o in casi eccezionali, di propria iniziativa, determinare l’entità del danno, della perdita o del pregiudizio cagionato alle vittime.

Nonostante l’assenza di un quadro generale di riferimento e la tendenza a mantenere un approccio casistico, la Camera non ritiene che il crimine in oggetto costituisca motivo valido per allontanarsi dalla prassi adottata fino ad oggi dalla Corte. Viene quindi richiamata la decisione adottata nel caso Lubanga con la quale per la prima volta sono stati enunciati i principi per la riparazione (ICC-01/04-01/06-2904), e i modelli di riferimento sono individuati nei “Principi base della giustizia per le vittime di crimini e abusi di potere” e nei “Principi di base e linee guida relativi ai ricorsi e alle riparazioni a favore delle vittime di flagranti violazioni del diritto internazionale dei diritti umani e di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario” enucleati rispettivamente nelle Risoluzioni 40/34 e 60/147 dell’Assemblea delle Nazioni Unite. La riparazione pone i responsabili dei crimini di fronte alle conseguenze dei loro atti e garantisce effettività alle condanne inflitte dalla Corte. Nonostante tali espressioni possano richiamare alla mente un istituto tipico degli ordinamenti di common law quale quello dei danni punitivi, l’ordine non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di attribuire alla riparazione una funzione sanzionatoria. L’attenzione è piuttosto rivolta alla riconciliazione tra l’autore del crimine, le vittime e la comunità.

Rispetto al concetto internazionalistico di riparazione, l’ordine in esame si limita a disporre l’adozione di misure riconducibili solo all’indennizzo e alla soddisfazione. Quest’ultima, in particolare, si concretizza nelle scuse espresse da Al-Mahdi nel corso del processo, e considerate dalla Camera genuine, categorical e empathetic. Di conseguenza non è stata accolta la richiesta del LRV che l’imputato formulasse ulteriori scuse, ma la Camera ha garantito l’invio di copia delle scuse già presentate in una lingua comprensibile a chiunque ne faccia richiesta. La natura del crimine di cui all’art. 8(2)(e)(iv) non consente invece di prendere in considerazione la restituzione ai fini della riparazione nel caso di specie.

In considerazione della tempestività dell’intervento dell’UNESCO nella ricostruzione dei siti distrutti, la riparazione nel suo complesso deve essere volta al recupero dei luoghi e del legame con la comunità e deve garantire la non ripetizione del crimine. Non essendo compito della Camera gestire la riparazione, questa fase prevede il possibile coinvolgimento anche delle autorità locali.

3. Ratio della riparazione e beneficiari 

La Camera ha ritenuto necessario impiegare qualche pagina per sottolineare l’importanza del patrimonio culturale, la cui distruzione costituisce il fondamento dell’intero processo. La tutela del patrimonio culturale è garantita da strumenti legali internazionali, quali i due Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra, la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato del 1954 e il successivo Protocollo aggiuntivo del 1999. La tutela del patrimonio culturale, pur non essendo l’unico bene giuridico protetto dall’art. 8(2)(e)(iv), così come dal paragrafo (2)(b)(ix) nell’ambito dei conflitti internazionali (tra gli edifici protetti sono annoverati anche ospedali e luoghi di raccolta dei feriti), è senza dubbio la cifra caratteristica di tale disposizione. Per questo motivo la Corte ha affermato la specialità di tale norma rispetto al più generico art. 8(2)(e)(xii), soprattutto alla luce dell’intento specifico di distruggere determinati edifici in virtù delle loro caratteristiche. Nel concetto di patrimonio culturale, rientrano senza dubbio patrimoni materiali tangibili, testimonianza della creatività e del genio umano come monumenti e siti archeologici, ma anche quelli non tangibili come tradizioni, costumi e pratiche. Al patrimonio culturale mondiale è poi riconosciuto il più elevato grado di espressione culturale e per questo è ritenuto meritevole del massimo livello di attenzione ed interesse internazionale: si tratta infatti di patrimoni non fungibili o non facilmente sostituibili. Per la sua tutela è stata redatta la “Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale” del 1972.

Nel caso di specie è evidente come la distruzione dei monumenti appaia finalizzata ad estirpare tradizioni locali non ritenute conformi alla dottrina imposta dai gruppi jihadisti. Nonostante questo emerga chiaramente dalla ricostruzione fattuale, il carattere non tangibile del principale bene giuridico aggredito sembra passare in secondo piano rispetto alla distruzione materiale dei luoghi di culto, che pur venivano considerati dagli autori come espressione di una deviazione della dottrina da loro imposta. L’ordine di riparazione, concentrandosi sulle misure collettive, e al contempo limitandole alla comunità di Timbuktu, pone la specificità della cultura locale nuovamente al centro dell’attenzione.

Le misure di riparazione collettive sono il modo più appropriato di fronteggiare la natura “collettiva” del danno cagionato dal crimine. Unica eccezione è rappresentata dal riconoscimento di misure individuali nei confronti di coloro per cui i mausolei  costituiscono l’unica fonte di sostentamento (come guardiani e custodi) e nei confronti dei discendenti di coloro che erano sepolti nei mausolei distrutti. La collettività del danno si estende ben oltre e non ha la stessa natura della sommatoria dei danni individuali subiti dalle 139 vittime rappresentate nel processo.  Proprio per questo la Corte rifiuta di riconoscere nell’esecuzione della riparazione una precedenza alle vittime rappresentate rispetto alle altre, in quanto la partecipazione al processo non può divenire elemento discriminante. Paradossalmente, la non specificità delle vittime ovvia ad alcuni limiti “genetici” della riparazione, quali l’impossibilità di sanare in toto le conseguenze del crimine e soprattutto l’impossibilità di risarcire individualmente tutte le vittime dei crimini internazionali in particolare, il cui numero è tradizionalmente esteso.

4. Conclusioni e prossime tappe

Come accennato, la Corte, pur senza esporsi troppo, tenta di tracciare delle linee guida per la riparazione collettiva, escludendo la comunità internazionale e maliana largamente intesa (nei confronti delle quali è imposto un obbligo di riparazione simbolico di un euro ciascuno) e invitando a concentrarsi più nello specifico sulla comunità di Timbuktu, direttamente colpita dagli effetti del crimine. Tale limitazione sottolinea la natura riparatoria dell’ordine in esame ed evita che la riparazione si trasformi in un aiuto umanitario.

L’introduzione dell’ordine di riparazione nel sistema della Corte, è una chiara espressione dell’importanza riconosciuta alle vittime.  Le caratteristiche dell’ordine appena illustrate rafforzano l’idea che la riparazione miri a realizzare alcuni degli obiettivi della giustizia penale internazionale, ponendo l’accento sulla responsabilità individuale, costituendo un deterrente per i crimini e favorendo la riconciliazione. Ora spetterà al Trust Fund for Victims (TFV) proporre un piano strutturato sulle linee guida dettate dalla Camera che dovrá poi essere approvato. Si riconferma infine la giurisprudenza dell’Appeals Chamber (ICC-01/04-01/06-3129) che riconosce l’autonomia del TFV e l’impossibilità per la Camera di obbligare il Fondo all’esecuzione dell’ordine di riparazione.

Come citare il contribuo in una bibliografia:
J. Governa, Il caso Al-Mahdi innanzi alla Corte Penale Internazionale: la sentenza di condanna e l’ordine di riparazione, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 9