ARTICOLICONTRIBUTIDA STRASBURGO

Dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p.p. e giusto processo: per Strasburgo l’Italia sbaglia ancora

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 10 – ISSN 2499-846X

Corte EDU (I Sezione), sentenza 12 ottobre 2017, Cafagna c. Italia

La Prima Sezione della Corte EDU, con sentenza pubblicata il 12 ottobre 2017, è tornata a pronunciarsi sulla compatibilità con i principi del giusto processo della condanna dell’imputato sulla base delle dichiarazioni unilateralmente raccolte del teste unico o determinante in assenza di contraddittorio.

La pronuncia desta particolare interesse in quanto i giudici di Strasburgo, applicando i criteri già delineati nella precedente sentenza del 23 giugno 2016 relativa alla causa Ben Moumen c. Italia, sono giunti nel caso in esame ad un risultato opposto, riscontrando la responsabilità dello Stato Italiano per violazione dell’art. 6 par.1 e 3 della Convenzione e condannandolo al risarcimento dei danni morali a favore del ricorrente.

1. I fatti in breve

All’origine della causa vi è la denuncia presentata il 3 giugno 1996 da C.C., cittadino italiano, nei confronti del ricorrente, sig. Cafagna, per essersi quest’ultimo impossessato del suo portafogli con l’aiuto di un complice (L.D.), nonché per avergli sferrato un pugno nell’intento di impedire l’inseguimento. La denuncia veniva raccolta dal carabiniere L.R., con il quale C.C. procedeva al riconoscimento fotografico dei due aggressori.

In seguito la Procura faceva richiesta di incidente probatorio per l’audizione della persona offesa e per la ricognizione personale davanti al G.I.P. di Trani, alla luce del rischio che la testimonianza del C.C. sarebbe potuta risultare non più affidabile al momento del dibattimento. Nonostante i diversi tentativi di ottenere la comparizione in udienza del denunciante, non fu possibile procedere all’audizione di quest’ultimo, in quanto egli risultava aver lasciato il domicilio dei genitori e non aver ricevuto la notifica dell’ordine di comparizione.

Il 16 giugno 1998 il ricorrente veniva rinviato a giudizio avanti al Tribunale di Trani e C.C. continuava a risultare irreperibile. Sei anni più tardi, venivano sentiti in udienza il carabiniere che aveva raccolto la denuncia ed il coimputato L.D.. Il Tribunale ordinava quindi ai sensi dell’art. 512 c.p.p. l’acquisizione al fascicolo del dibattimento della deposizione fatta da C.C. al carabiniere il giorno dello scippo, nonostante la richiesta da parte della difesa di continuare le ricerche.

Con sentenza dell’11 aprile 2005, il ricorrente veniva condannato in primo grado alla pena della reclusione di un anno e quattro mesi: la dichiarazione del C.C. veniva ritenuta dal tribunale sufficientemente precisa e circostanziata, tanto da poter essere posta alla base dell’accertamento della responsabilità penale del Cafagna. Invero, secondo il giudice di prime cure, si era in presenza di una circostanza imprevedibile (l’irreperibilità) che aveva reso oggettivamente impossibile l’audizione del teste in dibattimento e che legittimava quindi l’applicazione dell’art. 512 c.p.p.. Inoltre, il tribunale sosteneva che la condanna del ricorrente trovava fondamento altresì nella dichiarazione del carabiniere, il quale aveva illustrato in udienza lo svolgimento della procedura di riconoscimento fotografico operata dal C.C.

La Corte di Appello di Bari dava avallo alla tesi del giudice di primo grado confermandone la sentenza. Il sig. Cafagna proponeva quindi ricorso in cassazione, dolendosi in particolare della violazione dell’art. 6 CEDU. La Corte di Cassazione, omettendo completamente di esaminare tale censura, rigettava il ricorso, non riscontrando alcuna illegittimità nell’operato dei giudici di merito.

2. La Decisione della Corte EDU

Investita del ricorso del sig. Cafagna, la Corte si è pronunciata in favore della ricevibilità, rigettando in particolare l’eccezione di mancato esperimento dei rimedi interni formulata dal Governo Italiano, il quale obiettava che il ricorrente aveva omesso, in seno al procedimento penale, di opporsi all’acquisizione della dichiarazione del C.C. al fascicolo del dibattimento. I giudici di Strasburgo hanno infatti osservato che la mancata proposizione di un’ eccezione formale al momento del dibattimento non può essere interpretata quale rinuncia tacita da parte del ricorrente al diritto di interrogare o far interrogare i testimoni dell’accusa (par. 28 della sentenza).

Quanto al merito, la Corte ha ribadito che le garanzie sancite dall’art. 6 par. 3 CEDU a favore dell’imputato (ed in particolare quella di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”) rappresentano profili specifici del diritto a un processo equo sancito dall’articolo 1 di tale disposizione. Lo scrutinio sull’equità del processo riguarda il procedimento nel suo insieme, comprendente i diritti della difesa, ma anche l’interesse del pubblico e delle vittime a che gli autori del reato siano debitamente perseguiti e, se necessario, i diritti dei testimoni.

I giudici europei hanno poi ricordato che il principio sancito dall’art. 6 secondo il quale, prima che un imputato possa essere dichiarato colpevole, tutti gli elementi a carico devono in linea di principio essere prodotti dinanzi a lui in pubblica udienza, ai fini di un dibattimento in contraddittorio, non è privo di eccezioni. Esse tuttavia possono essere accettate soltanto fatti salvi i diritti della difesa, i quali impongono di dare all’imputato una possibilità adeguata e sufficiente di contestare le testimonianze a carico e di interrogarne gli autori, al momento della loro deposizione o in una fase successiva. (par. 38 della sentenza).

La Corte deve quindi procedere ad un triplice scrutinio, conformemente ai principi elaborati dalla propria giurisprudenza, valutando se:

  • l’impossibilità per la difesa di interrogare o di far interrogare un testimone a carico fosse giustificata da un motivo serio;
  • le deposizioni del testimone assente abbiano costituito la prova unica o determinante della colpevolezza del ricorrente; e, infine,
  • esistessero sufficienti elementi in grado di compensare gli inconvenienti legati all’ammissione di una tale prova per permettere una valutazione corretta ed equa della sua affidabilità.

Nel caso in esame la Corte ha ritenuto, rispettivamente ai summenzionati criteri che:

  • il Governo non ha dimostrato che le autorità giurisdizionali italiane abbiano compiuto tutti gli sforzi ragionevolmente volti ad assicurare la comparizione del testimone C.C. Infatti, al fine di assicurare il godimento effettivo del diritto ex art. 6 CEDU, è necessario che gli organi nazionali procedano a un controllo minuzioso delle ragioni addotte per giustificare l’incapacità del testimone di assistere al processo, tenuto conto della situazione particolare dell’interessato e ponendo in essere tutte le misure positive per permettere all’accusato di interrogare o far interrogare i testimoni a carico.
  • le deposizioni rese dal C.C. nel 1996 hanno costituito la prova unica o determinante della colpevolezza del ricorrente. Invero, nonostante fossero state considerante anche le dichiarazioni del carabiniere L.R. e sia stata intrapresa la procedura di riconoscimento fotografico per validare la prova principale, non vi è mai stato un confronto diretto tra accusato e accusatore, né durante il processo, né durante le indagini preliminari, stante la mancata comparizione del C.C. all’udienza tenutasi ad hoc davanti al GIP.
  • il diritto all’interrogatorio dei testimoni a carico costituisce uno strumento essenziale di controllo della credibilità e dell’affidabilità delle deposizioni incriminanti e, di conseguenza, del fondamento dei capi d’accusa. Lo scrutinio della credibilità della deposizione del C.C. operato dalla Corte d’Appello nel caso di specie non è sufficiente a compensare la mancanza dell’audizione del testimone da parte della difesa. Invero, l’esame del giudice di merito costituisce uno strumento di controllo imperfetto nella misura in cui non permette di disporre degli elementi dai quali può emergere una confronto diretto in udienza pubblica tra accusa e difesa. Non essendosi realizzato tale confronto nel caso in esame, si deve concludere che le autorità giurisdizionali interne non hanno potuto apprezzare correttamente ed equamente l’affidabilità della prova.

Per questi motivi la Corte (Giudice Wojtyczek dissenziente), ha ritenuto che il diritto alla difesa del ricorrente ha subito nel caso di specie una limitazione incompatibile con il principio di equo processo garantito dall’art. 6 par. 1 e 3 d) della Convenzione, condannando lo Stato Italiano per la violazione di tali disposizioni.

3. Conclusioni

Si ritiene opportuno rilevare che la sentenza in esame è solo l’ultima di una serie di pronunce della Corte EDU che da tempo ha cristallizzato i principi in materia, essendosi la stessa già espressa nei casi Bracci c. Italia del 2005, Majadallah c. Italia del 2006, Kollcaku c. Italia del 2007, Ogaristi c. Italia del 2010 e in modo ancor più significativo nel 2011 con la sentenza della Grande Camera nel caso Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito.

La sentenza della Cassazione nel caso di specie ed in particolare la totale trascuranza dei diritti della Convenzione,  risulta ancor più incomprensibile ove si consideri che le Sezioni Unite, con sentenza n. 27918/2010 avevano dimostrato piena comprensione e adesione ai principi elaborati dalla giurisprudenza europea, affermando, tra l’altro che “la giurisprudenza di questa Corte più recente ed assolutamente maggioritaria ritiene che è possibile, e quindi doveroso, dare alle norme di valutazione probatoria nazionali una interpretazione adeguatrice che le renda conformi alla norma della CEDU”.

Come citare il contributo in una bibliografia:
S. Carrer, Dichiarazioni acquisite ex art. 512 c.p. e giusto processo: per Strasburgo l’Italia sbaglia ancora, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 10