Esercizio abusivo della professione di guida alpina. Errore sul precetto o errore di fatto su norma extrapenale?
in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 11 – ISSN 2499-846X
Tribunale di Belluno, 28 luglio 2017 (ud. 21 giugno 2017), n. 408
La sentenza qui pubblicata offre l’occasione di approfondire alcuni aspetti concernenti la struttura del delitto ex art. 348 c.p. (Abusivo esercizio di una professione).
Questi i fatti: all’odierno imputato – guida naturalistica – viene contestato di aver esercitato abusivamente la professione di guida alpina per aver accompagnato alcuni turisti in un’escursione alpinistica su un terreno completamente innevato.
Orbene, prendendo spunto dall’analisi della normativa nazionale in materia di ordinamento della professione di Guida alpina (L. 2 gennaio 1989, n. 6) congiuntamente alla normativa regionale (L.R. 3 gennaio 2005), il Tribunale di Belluno procede a una puntuale ricognizione delle attività riservate alle figure della guida alpina e dell’accompagnatore di media montagna (tra cui rientra la figura della guida naturalistica), sancendo, in definitiva, che quest’ultimo può accompagnare le persone solamente su boschi, pascoli e sentieri di montagna in stagione secca.
Al contrario, le escursioni su terreni innevati, su terreni di montagna rocciosi, su ghiaccio o su terreni che richiedono per la progressione l’uso di strumenti tecnici idonei, sono da ritenersi attività riservate alle guide alpine.
Ciò premesso, il Tribunale ritiene sussistente – sul piano oggettivo – il delitto ex art. 348 c.p., precisando, in particolare, che per la sua consumazione “è sufficiente il compimento anche di un solo atto tipico o proprio della professione“(cfr. p. 8), anche se, dalle emergenze processuali, era comunque emerso il requisito della professionalità della professione svolta dall’imputato.
Come si vedrà, la decisione presenta aspetti decisamente innovativi.
Non tanto in punta di diritto, dal momento che il prevalente orientamento giurisprudenziale ritiene sussistente il delitto ex art. 348 c.p. anche nelle ipotesi di compimento di un solo atto tipico o proprio della professione (cfr., ex plurimis, App. Milano, II Pen., 11 settembre 2015; Cass. Pen., Sez. IV, 24 gennaio 2013, n. 11493; Cass. Pen., Sez. VI, 2 luglio 2012, n. 30068), prescindendo così dal requisito della professionalità in capo al soggetto agente.
Piuttosto, la sentenza costituisce uno dei primi precedenti in cui viene riconosciuta la penale responsabilità ex art. 348 c.p. nei confronti delle guide ambientali escursionistiche; infatti, in casi analoghi, la prevalente giurisprudenza aveva sempre disposto l’archiviazione (cfr. G.I.P. Pesaro, 28 luglio 2015), asserendo che “la figura della guida ambientale naturalistica ha una sua autonomia che si differenzia dall’altra figura professionale di guida alpina, che deve guidare percorsi di particolare difficoltà”, che non richiedevano, in altri termini, “l’uso di attrezzature e di tecniche alpinistiche, vale a dire corda, picozza e ramponi” (cfr. Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pesaro, 9 luglio 2015)
Detto in altri termini, la sentenza del Tribunale di Belluno si discosta (implicitamente) dalle indicazioni della prevalente giurisprudenza, la quale aveva riservato alle guide alpine esclusivamente le escursioni montane di particolare difficoltà – richiedenti l’uso di attrezzature e tecniche alpinistiche – senza che la presenza del terreno innevato potesse avere alcuna rilevanza per distinguere le attività riservate.
Passando all’esame dell’elemento soggettivo in capo all’imputato, il Tribunale – osservato che la difesa dell’imputato aveva rilevato la poca chiarezza normativa sul tema – applica i criteri sanciti dalla nota sentenza Corte Cost. 364/1988 in tema di errore sul precetto ex art. 5 c.p.
In particolare, il Tribunale ricorda che “la Corte Costituzionale (C.Cost. 24.3.1988, n. 364) ha testualmente affermato che “se il soggetto si rappresenta effettivamente la possibilità che il suo fatto sia antigiuridico non può ravvisarsi ignoranza inevitabile della legge penale, essendo egli obbligato a risolvere l’eventuale dubbio attraverso l’esatta e completa conoscenza della (singola) legge penale o, nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio, ad astenersi dall’azione”. Il dubbio oggettivamente irrisolvibile, che esclude la rimproverabilità sia dell’azione sia dell’astensione è soltanto quello in cui, agendo o non agendo. si incorre, ugualmente, nella sanzione penale” (cfr. p. 9).
Di conseguenza, prosegue il Tribunale, “l’imputato pertanto avendo maturato in sé il dubbio che la sua condotta potesse essere antigiuridica e non avendolo risolto in un senso o nell’altro, avrebbe dovuto astenersi dal compiere l’azione. Nel momento in cui agisce, la sua condotta è in violazione della legge penale” (cfr. p. 10).
Orbene, rebus sic stantibus, il Tribunale pare accogliere la tradizionale tesi dottrinale secondo cui l’art. 348 c.p. sarebbe una norma penale in bianco, nell’ambito della quale la normativa che disciplina l’esercizio delle professioni integrerebbe il precetto penale e, di conseguenza, sarebbe esclusa dall’oggetto del dolo (in tal senso, ex multis, Manzini, Trattato di diritto penale italiano, 1982, p. 633; Contieri, Esercizio abusivo di arti, professioni e mestieri, in Enc.dir., XV, 1966, p. 607; Terrusi, Orientamenti giurisprudenziali in tema di abusivismo professionale, in Giur.mer., 1990, II, Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte speciale, 2007, p. 328, i quali, tuttavia, riconducono l’errore sulla legge professionale nella sfera di operatività dell’art. 47, comma 3 c.p., anziché nella struttura dell’errore sul precetto ex art. 5 c.p.)
Tale interpretazione, tuttavia, è stata respinta dalla Corte Costituzionale che, in una sentenza del 1993, si è curata di puntualizzare che “l’art. 348 c.p. lungi dall’operare un meccanico rinvio ad altre fonti dell’ordinamento quali elementi strutturali del precetto, delinea esaurientemente la fattispecie in tutte le sue componenti essenziali. Il fatto costitutivo del reato, infatti, assume i connotati dell’antigiuridicità attraverso la realizzazione dell’atto o degli atti mediante i quali “abusivamente” viene esercitata una determinata professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato” (cfr. Corte Cost., 27.4.1993, n. 199. In linea con questa impostazione, Autorevole dottrina ha così sostenuto che “la disciplina amministrativa non contribuisce a forgiare il tipo di reato, ma funge soltanto da criterio di riferimento per determinare il concreto abuso“, cfr. M.Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei privati, 2008, p. 145. Per un’approfondita ricostruzione di tutte le posizioni dottrinali, si rinvia a Torre, Esercizio abusivo di professioni, 2016, in www.treccani.it).
Orbene, questa seconda soluzione comporta conseguenze pratiche decisamente rilevanti: infatti, oltre ad influire sulla tematica della successione delle leggi penali nel tempo ex art. 2 c.p., questa tesi esclude che l’errore sulla legge professionale possa essere inquadrato come errore sul precetto ex art. 5 c.p.
Infatti, la legge professionale ricadrebbe nell’oggetto del dolo e ogni errore su essa sarebbe da inquadrare nella disciplina dell’errore sulla legge extrapenale ex art. 47, comma 3 c.p. che, come noto, esclude la punibilità in capo al soggetto agente “quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce reato“.
Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio, Esercizio abusivo della professione di guida alpina. Errore sul precetto o errore di fatto su norma extrapenale?, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 11