ARTICOLICONTRIBUTIDIRITTO PENALEIN PRIMO PIANOMERITO

L’esposizione ad amianto e il “fatale errore di prospettiva” nell’accertamento del nesso causale. Il punto del Tribunale di Milano sul cd. effetto acceleratore nel caso Ansaldo-Breda

in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 12 – ISSN 2499-846X

a cura di Enrico di Fiorino e Enrico Napoletano

Tribunale di Milano, Sez. IX, 12 settembre 2017 (ud. 15 giugno 2017), n. 6064
Giudice Dott. S. Luerti

Con sentenza del 15 giugno scorso (e motivazioni del 12 settembre 2017), il Tribunale di Milano contribuisce ad apportare chiarezza in un ambito, quello dei processi penali per ‘morte da amianto’, storicamente caratterizzato da «un alone di casualità, quando non di arbitrarietà» (così Padovani, 2014).

La pronuncia, incentrata unicamente sull’accertamento del nesso causale, appare apprezzabile sia per gli sforzi profusi nella ricostruzione eziologica di ciascun decesso, sia per la dichiarata volontà ‘divulgatrice’ dell’estensore, il quale, in abbrivio, si premura di offrire «una sintesi accessibile a tutti», tentando così di ridurre la distanza tra le logiche penali e la sensibilità dei lettori non esperti. Un tentativo di avvicinamento senza dubbio ammirevole, specie considerando il peso sociale che le vicende dei ‘morti da amianto’ assumono nel dibattito pubblico.

Il processo vede imputati dieci soggetti che, a partire dagli anni Settanta, avevano rivestito cariche lato sensu dirigenziali all’interno della Breda Termomeccanica S.p.A. (successivamente Ansaldo S.p.A.), azienda impegnata nella produzione di componenti per centrali nucleari e termoelettriche; ad essi, la Procura contesta il delitto di omicidio colposo plurimo, commesso in violazione della disciplina della sicurezza sul lavoro, ai danni di tredici persone, variamente impiegate all’interno dell’azienda tra i primi anni Settanta e la fine degli anni Ottanta. La Procura, in particolare, contesta agli imputati di aver omesso, da un lato, l’adozione di un ampio spettro di misure idonee a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori; dall’altro, l’informazione circa i rischi connessi all’uso dell’amianto, usato in tutte le fasi di lavorazione a caldo quale coibente termico e persino adoperato come giaciglio da parte dei lavoratori.

Il Tribunale, per converso, ricostruisce la condotta in chiave non omissiva, bensì commissiva; scelta che, in passato, in casi analoghi, s’è spesso risolta in forzature tese a semplificare l’accertamento del nesso causale, ma che, in realtà, qui non sembra avere conseguenze di particolare impatto. La ponderosa istruttoria vede contrapposti i consulenti tecnici, da un lato, di accusa e parti civili (eredi delle persone offese, associazioni e sindacati); dall’altro, delle difese. La controversia, in sostanza, ruota attorno alla validità della c.d. teoria dell’effetto acceleratore: posto un precedente periodo di esposizione all’amianto, ci si chiede, i periodi di esposizione durante l’impiego in Ansaldo-Breda assumono valenza causale, abbreviando il periodo di latenza e, dunque, anticipando la morte?

In caso di esposizioni plurime, come noto, la risposta affermativa a un quesito del genere costituisce presupposto obiettivo indefettibile per l’affermazione di penale responsabilità: secondo le opinioni scientifiche più accreditate, difatti, è pressoché impossibile risalire con esattezza al completamento del c.d. periodo d’induzione, vale a dire al momento di  effettiva ‘contrazione’ del tumore; ne deriva che, a ben vedere, diventa indispensabile accertare se, sussistenti più esposizioni, una di esse abbia quantomeno contribuito ad anticipare – quindi, a con-causare – l’evento-morte.

Nella propria ricostruzione, l’accusa muove da un documento pubblicato all’esito del III Consensus Conference on Malignant Mesothelioma of the Pleura (2015), proponendo una versione inedita della c.d. tesi dell’effetto acceleratore. In dettaglio, partendo dal confronto fra due popolazioni esposte per 40 anni a differenti dosi di amianto, si osserva che: (i) i casi di mesotelioma nella popolazione più esposta sono maggiori rispetto ai casi di mesotelioma nella popolazione meno esposta (aumento del rischio d’insorgenza); (ii) la popolazione più esposta raggiunge prima della popolazione meno esposta un determinato livello di incidenza (anticipazione dei casi).

Ritenuti i profili di ‘aumento del rischio’ e di ‘anticipazione dei casi’ «indistinguibili», il consulente del p.m. salta dal piano epidemiologico-statistico a quello matematico, affermando che i casi rientranti nella ‘eccedenza’ – vale a dire, nello scarto tra popolazione più esposta e popolazione meno esposta – subiscono un’anticipazione per effetto della dose maggiore. In altre parole, da una parte, viene sì smentita l’idea per cui il dato epidemiologico possa fornire prova diretta dell’accelerazione del processo canceroso; dall’altra, però, si pretende di ricavare un dato bio-medico (l’anticipazione dell’incidenza rispetto al singolo lavoratore) da un dato epidemiologico (il più rapido raggiungimento di un certo tasso d’incidenza da parte di una popolazione esposta a dose maggiore). La conclusione, ad ogni modo, è formulata in modo cauto e piuttosto ambiguo; è lo stesso consulente, in effetti, ad ammettere che l’anticipazione riguarda non tutti i casi, bensì «qualcuno di questi», atteso che «stiamo parlando di statistica, è difficile andare a individuare il caso A o il caso B».

Il Tribunale confuta questa indebita sovrapposizione di piani, apertamente bollandola un «fatale errore di prospettiva»: se è vero, si legge, che, a parità di c.d. latenza convenzionale – ossia, del periodo che inizia a decorrere dalla ‘semplice’ esposizione a un cancerogeno – «il singolo lavoratore appartenente alla popolazione più esposta subisce un tasso di rischio di contrarre la malattia più alto del lavoratore meno esposto», da ciò non è possibile dedurre se i singoli lavoratori «l’abbiano contratta più rapidamente, né se sia durata di meno la latenza vera e propria». «Non possiamo osservare da un punto di vista fenomenico», conclude il giudicante, «cosa sia accaduto nel dinamismo patogenetico individuale, ed anche in questo caso non è l’epidemiologia la scienza che deve rispondere».

In definitiva, il Tribunale conferma che la prova dell’accelerazione – e, dunque, della con-causalità – non può in alcun modo essere affidata alle sole informazioni epidemiologiche sugli incrementi di frequenza, dovendo fondarsi, semmai, sulla reale conoscenza del concreto dispiegarsi dei meccanismi biologici.

Il Tribunale pone così le premesse per giungere al proscioglimento di tutti gli imputati; diverse, tuttavia, sono le cadenze argomentative e, conseguentemente, le formule adoperate.

(i) Quanto ai decessi di un primo gruppo di lavoratori, il giudice assolve ‘perché il fatto non sussiste’. Si tratta di casi ove manca in apicibus prova ragionevolmente certa del collegamento tra evento-morte e mesotelioma pleurico. Da sottolineare che, rispetto a tali posizioni, anche il p.m. aveva chiesto l’assoluzione degli imputati.

(ii) Quanto ai decessi di un secondo gruppo di lavoratori, il giudice assolve ‘perché l’imputato non ha commesso il fatto’. Si tratta delle posizioni ricostruite con maggior puntiglio, per le quali risultano determinanti le acquisizioni riportate sopra: in questo caso, vengono affermati sia la morte per mesotelioma, sia la massiccia esposizione a fibre di amianto in costanza di rapporto presso l’Ansaldo-Breda; tuttavia, complici i periodi pregressi di esposizione del lavoratore – all’interno dei quali non è irragionevole ritenere che egli abbia sviluppato il carcinoma – e l’impossibilità di attribuire rilevanza alle esposizioni successive, il Tribunale giunge ad escludere la sussistenza del nesso di causalità.

(iii) Quanto ai decessi di un terzo gruppo di lavoratori, infine, ritenendo ipotizzabile la sussistenza del nesso causale tra esposizione e decesso, il Tribunale dichiara l’estinzione del reato per morte del reo. Significativo, in questo gruppo, il caso di A.T., dipendente della Ansaldo-Breda dal 1970 al 1976 e morto nel 2013 di mesotelioma pleurico: del soggetto, spiega il Tribunale, «si può affermare con adeguata certezza che questi sei anni sono stati gli unici in cui il lavoratore ha inalato in modo significativo fibre di amianto». Peraltro, il giudicante ricorre a questo specifico caso per confermare, in chiave generale, l’inattendibilità delle teorie sull’accelerazione: «certamente il caso di A.T. non è condizionato da alcun effetto acceleratore, essendo assai circoscritta nel tempo l’unica esposizione; nondimeno, il tempo della latenza convenzionale di 41 anni non è significativamente diverso, ed anzi in alcuni casi è più breve, di quello di molti altri lavoratori deceduti (comprendendo l’inizio delle esposizioni pregresse)».

In conclusione, la sentenza si fa apprezzare per il rigore nella ricostruzione e per la coerenza dell’approdo; resta da capire se la giurisprudenza successiva, di merito e di legittimità, continuerà nel solco autorevolmente e coraggiosamente tracciato dal giudice milanese.

Come citare il contributo in una bibliografia:
E. Di Fiorino – E. Napoletano, L’esposizione ad amianto e il “fatale errore di prospettiva” nell’accertamento del nesso causale. Il punto del Tribunale di Milano sul cd. effetto acceleratore nel caso Ansaldo-Breda, in Giurisprudenza Penale Web, 2017, 12