Le motivazioni della Cassazione sul caso Cirio. Un’occasione per ribadire alcuni approdi del Giudice di legittimità in tema di bancarotta
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 2 – ISSN 2499-846X
Cassazione penale, Sezione V, (ud. 6 ottobre 2017) 30 gennaio 2018, n. 4400
Presidente Fumo, Relatore Zaza, P.G. Iacoviello
Lo scorso 30 gennaio sono state depositate le motivazioni della Cassazione in merito al noto e complesso caso Cirio.
Tale pronuncia, che più sotto alleghiamo, ancorché non chiuda definitivamente la vicenda giudiziaria, avendo disposto l’annullamento con rinvio ad altra Corte territoriale con riguardo ad uno dei capi dell’imputazione, suscita tuttavia un certo interesse scientifico, per aver ribadito e consolidato l’orientamento del Giudice di legittimità in merito ad alcune questioni in tema di bancarotta, nonché ad alcuni temi di natura processuale.
Di seguito, dunque, ci limitiamo a riportare i principali temi affrontati e le soluzioni volta per volta offerte dalla Corte, in modo da fornire al lettore un quadro complessivo degli approdi sin qui raggiungi dalla Cassazione.
1. La struttura tipica del reato di bancarotta fraudolenta ed il ruolo della sentenza dichiarativa del fallimento (sentenza, p. 34)
Nella fattispecie della bancarotta fraudolenta, il fallimento, come recentemente affermato da questa Corte Suprema, costituisce una condizione obiettiva di punibilità, ed è pertanto estraneo all’offesa tipica del reato ed alla sfera di volizione del soggetto agente (Sez. 5, n. 13910/2017, Santoro), rimanendo di conseguenza irrilevanti i profili della sussistenza o meno di un rapporto causale fra la condotta distruttiva ed il dissesto e della consapevolezza di ciò da parte dell’autore della condotta, la cui lesività è integrata dal depauperamento del patrimonio dell’impresa (Sez. U, n. 22474/2016, Passarelli; Sez. 5, n. 11095/2014, Ghirardelli; Sez. 5, n. 32352/2014, Tanzi; Sez. 5, n. 47616/2014, Simone; Sez. 5, n. 26542/2014, Riva).
Quanto alle ipotesi di bancarotta impropria per causazione del dissesto in conseguenza di operazioni dolose, ciò che rileva nelle stesse è il compimento di siffatte operazioni con connotazioni di coscienza e volontà che non comprendono il fine di cagionare il dissesto, ma si limitano alla consapevole realizzazione delle operazioni nella prevedibilità e nell’accettazione del dissesto quale possibile conseguenza della condotta (Sez. 5, n. 45672/2015, Lubrina; Sez. 5, n. 38728/2014, Rampino; Sez. 5, n. 17690/2010, Cassa di Risparmio di Rieti s.p.a.).
Dai principi appena rammentati discende poi (si vedano in particolare Sez. U Passarelli e le immediatamente successive riportate) l’irrilevanza della sussistenza o meno di uno stato di insolvenza della società all’epoca della commissione dei fatti contestati; essendo sufficiente, per la configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta per distrazione, che la condotta abbia cagionato il depauperamento dell’impresa, destinandone le risorse ad impieghi estranei all’attività della stessa, e, quanto alla ravvisabilità del reato di bancarotta impropria per causazione del fallimento con operazioni dolose, che vengano poste in essere attività qualificabili come tali in quanto intrinsecamente pericolose per la salute economica e finanziaria dell’impresa (Sez. 5, n. 47621/2014, Prandini; Sez. 5, n. 29586/2014, Belleri; Sez. 5, n. 12426/2013, dep. 2014, Beretta).
2. Sull’esimente dei vantaggi compensativi delle operazioni realizzate all’interno di un gruppo di società (sentenza, p. 35)
La sentenza affronta il tema dell’applicabilità alle fattispecie di bancarotta della cd. esimente dei vantaggi compensativi, espressamente prevista per la fattispecie di infedeltà patrimoniale dall’art. 2634 comma 3 cod. civ., che recita “in ogni caso non è ingiusto il profitto della società collegata o del gruppo, se compensato da vantaggi, conseguiti o fondatamente prevedibili, derivanti dal collegamento o dall’appartenenza al gruppo”.
Sul punto, la Corte richiama i principi generali affermati dalla giurisprudenza di legittimità, per i quali, pur se tale efficacia esimente deve essere estesa nella sua operatività ai reati di bancarotta (Sez. 5, n. 49787/2013, Bellemans), la stessa presuppone non solo l’esistenza di un vantaggio complessivamente ricevuto dal gruppo a seguito delle operazioni, ma anche l’idoneità dello stesso a compensare efficacemente gli effetti immediatamente negativi cagionati alla società fallita dalle operazioni, in modo che le stesse risultino non incidenti sulle ragioni dei creditori; condizioni, queste, che sono espressione del particolare rigore che deve contraddistinguere le valutazioni sull’esistenza e la significatività di vantaggi compensativi in presenza dell’intervenuto fallimento della società e dell’inevitabile pregiudizio che esso implica per le posizioni creditorie.
È in altre parole necessario perché possa essere esclusa la rilevanza penale del fatto, come pure stabilito dalla giurisprudenza di legittimità, che le operazioni contestate abbiano prodotto benefici indiretti tali da renderle in concreto ininfluenti sulla creazione di tale pregiudizio (Sez. 5, n. 30333/2016, Falciola), e un saldo finale positivo che rendano le operazioni soltanto temporaneamente svantaggiose, e quindi in conclusione non depauperative (Sez. 5, n. 46689/2016, Coatti).
3. Sulla punibilità per fatti di bancarotta fraudolenta nel caso di società fusa per incorporazione in altra società, poi fallita (sentenza, p. 36)
Nel caso di specie erano contestate condotte di bancarotta in merito alla Compagnia Mobiliare Italiana poi incorporata nella Cirio Holding, a sua volta incorporata nella Centrofinanziaria, anch’essa successivamente denominata Cirio Holding.
In assenza di alcuna dichiarazione di insolvenza delle prime due società, la tesi del ricorrente era nel senso della avvenuta cessazione dell’esercizio della Compagnia Mobiliare Italiana e della vecchia Cirio Holding, in conseguenza delle descritte operazioni di fusione per incorporazione, e della conseguente applicabilità della previsione dell’art. 10 legge fall., per la quale l’impresa che abbia cessato l’esercizio può essere sottoposta a procedura concorsuale entro un anno da tale cessazione. In conseguenza di ciò, non essendo stata adottata tale procedura nei confronti di dette società, pur essendo ciò possibile nonostante la fusione e sia pure nel termine sopra indicato, per i fatti commessi nella loro gestione prima delle fusioni non ricorrerebbe la condizione obiettiva di punibilità prevista per i reati contestati.
Sul punto, la Corte premette che la giurisprudenza civilistica di legittimità (Sez. 1 civ., n. 5679/1996), richiamata anche in sede penale (Sez. 5, n. 38230/2002, Palatresi), assimila l’estinzione per fusione alla cessazione dell’esercizio dell’impresa ai fini dell’applicabilità della disciplina prevista dal citato art. 10. Ciò posto, con riguardo al fenomeno della fusione societaria astrattamente considerato, la Corte ritiene che il giudice penale sia in ogni caso chiamato a verificare se la nominale operazione di fusione abbia avuto natura reale e non meramente fittizia, e se la stessa si sia tradotta o meno in un’effettiva cessazione dell’attività dell’impresa incorporata.
Nel caso di specie, la fittizietà dell’operazione è stata riconosciuta sulla base di una pluralità di elementi sintomatici; segnatamente, l’ininterrotta prosecuzione dell’attività della preesistente Cirio Holding, il permanere dello stesso oggetto di detta attività e del medesimo azionista di riferimento nella persona di Sergio Cragnotti, l’anomalia della fusione di una società di rilevanti dimensioni in altra strutturata con la disponibilità di un solo dipendente, quale la Centrofinanziaria, e la significativa circostanza per la quale quest’ultima, dopo soli ventitre giorni, assumeva la denominazione di Cirio Holding. Per tali ragioni, la Corte ritiene infondata la censura di insussistenza per detta attività della condizione obiettiva di punibilità prevista dalla legge.
4. Sulla configurabilità del concorso formale tra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e quello di bancarotta impropria mediante operazioni dolose (sentenza, p. 45)
Sul tema, i Giudici di legittimità preliminarmente ricordano i principi costantemente affermati dalla Corte Suprema, per i quali fra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale e quello di bancarotta impropria per causazione del dissesto con operazioni dolose, ove contestati in relazione alla medesima procedura fallimentare, non è configurabile il concorso formale, rimanendo pertanto il secondo reato assorbito nel primo nel caso in cui la relativa condotta sia individuata nell’imputazione con riguardo agli stessi fatti addebitati nell’accusa di bancarotta fraudolenta (Sez. 5, n. 44103/2016, Ferlaino).
Le operazioni dolose incriminate in quanto causa del dissesto, per acquisire autonoma rilevanza penale ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 223, comma secondo, n. 2 legge fall., devono in altre parole consistere in fatti diversi da quelli contestati nell’imputazione di bancarotta fraudolenta, in termini tali da integrare un concorso materiale con questi ultimi (Sez. 5, n. 533/2016, Zaccaria). Ne segue, ad esempio, che una condotta distrattiva, addebitata quale reato di bancarotta fraudolenta, non può essere di per sé essere valutata anche quale operazione dolosa ai fini della diversa imputazione di bancarotta impropria (Sez. 5, n. 24051/2014, Lorenzini; Sez. 5, n. 34559/2010, Biolè); imputazione che, in mancanza di fatti ulteriori individuabili come fattori che abbiano concorso a cagionare il dissesto, sarà pertanto assorbita in quella di cui all’art. 216 legge fall..
5. Sulla configurabilità dell’aggravante della rilevanza del danno per i fatti previsti dall’art. 223 L.F. (sentenza, p. 55)
I ricorrenti hanno fra l’altro sostenuto la tesi dell’inapplicabilità dell’aggravante della rilevanza del danno ai fatti di bancarotta impropria commessi da amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori di società fallite, previsti dall’art. 223 legge fall.. Tale motivo di gravame si fondava su una pronuncia di legittimità in tal senso (Sez. 5, n. 8828/2009, Truzzi), ed era sostenuto sulla base del testuale richiamo dell’art. 219, comma primo, legge fall., il quale prevede che le pene sono aumentate laddove gli stessi abbiano cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità, a quelli previsti dai soli artt. 216, 217 e 218 della legge, e sulla ritenuta diversità strutturale ed analogica fra la bancarotta impropria e quella ordinaria, che non consentirebbe un’applicazione estensiva della previsione anche ai fatti di cui all’art. 223 senza incorrere in una non consentita interpretazione analogica.
Rileva però la Corte che ormai ampiamente prevalente è l’orientamento, per il quale l’aggravante è applicabile anche alle fattispecie di bancarotta impropria in esame (Sez. 5, n. 38978/2013, Fregnan; Sez. 5, n. 2903/2013, Venturato; Sez. 5, n. 18695/2013, Liori; Sez. 5, n. 10791/2012, Bonomo; Sez. 5, n. 127/2012, Pennino; Sez. 5, n. 44933/2011, Pisani; Sez. 5, n. 30932/2010, Poli; Sez. 5, n. 17690/2010, Cassa di Risparmio di Rieti Spa); e ciò sulla base di considerazioni attinenti sia al dato testuale che alla ragionevole interpretazione delle norme.
Per il primo aspetto, un’analisi limitata al rinvio contenuto nell’art. 219, comma primo, legge fall., indiscutibilmente riferito ai soli artt. 216, 217 e 218 della stessa legge, è riduttiva. La complessità del sistema di rinvii esistente fra le norme applicabili nel caso di specie richiede infatti che detta analisi comprenda anche il rinvio che lo stesso art. 223, incriminante i fatti qui contestati, fa all’art. 216; per effetto del quale le condotte e le pene previste da quest’ultima norma sono richiamate per sancire l’applicabilità delle seconde alle prime anche laddove le condotte siano realizzate nell’ambito di società dichiarate fallite da amministratori o altri soggetti agli stessi equiparati per la loro funzione gestionale. Il raffronto rende evidente la diversità sostanziale delle due disposizioni di rinvio. La prima, infatti, opera configurando per i fatti tipici previsti dall’art. 216 legge fall., oltre che per quelli incriminati dagli artt. 217 e 218, la circostanza aggravante data dalla rilevante gravità del danno; il rinvio svolge pertanto in questo caso una funzione integrativa, sotto il profilo degli elementi accidentali del reato, delle fattispecie criminose di cui alle norme richiamate. La seconda, invece, ricomprende nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 216 i fatti, corrispondenti alla stessa, posti in essere nella gestione di società fallite da parte di soggetti della stessa incaricati; ed ha di conseguenza una funzione estensiva dell’ambito di operatività della stessa fattispecie-base del reato di bancarotta fraudolenta.
È partendo dal rinvio presente nell’art. 223 che deve dunque procedersi nella costruzione della complessiva fattispecie della bancarotta impropria del gestore di società. E l’integralità del richiamo contenuto nello stesso alla fattispecie di cui all’art. 216 non può che intendersi come implicitamente riferito anche all’elemento accidentale di quest’ultima, costituito dalla circostanza aggravante della rilevanza del danno, introdotto in detta fattispecie dal rinvio operato dall’art. 219, comma primo; norma che deve pertanto ritenersi anch’essa indirettamente richiamata dall’art. 223, comma primo, come applicabile al reato di bancarotta impropria ivi previsto. Tali considerazioni rendono evidente come, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, la conclusione sull’applicabilità dell’aggravante ai fatti di bancarotta impropria sia il risultato non di un’interpretazione analogica in malam partem, ma di una lettura coerente dell’art. 223 legge fall. nel contesto delle altre norme penali della legge, che consente di comprendere, nell’espresso rinvio della norma al precedente art. 216, anche le aggravanti previste dall’art. 219 per le condotte incriminate da detto art. 216.
Sotto altro profilo, laddove si ritenesse l’aggravante in esame non ravvisabile nei fatti di bancarotta commessi dal gestore di società, si perverrebbe all’irragionevole risultato di sottoporre l’imprenditore individuale ad un trattamento sanzionatorio astrattamente più afflittivo, in quanto opportunamente identificato anche negli effetti speciali della circostanza aggravante in esame, rispetto a quello previsto per i fatti sostanzialmente analoghi commessi nell’ambito della gestione societaria, sicuramente non meno gravi, per i quali sarebbe al più configurabile l’aggravante ad effetto comune di cui all’art. 61, n.7, cod. pen.. In conclusione la configurazione formale della previsione come circostanza aggravante ne comporta l’assoggettabilità al giudizio di bilanciamento con le circostanze attenuanti (Sez. 5, n. 50349/2014, Dalla Torre; Sez. 5, n. 51194/2013, Carrara).
6. Sul vizio del travisamento del fatto di cui all’art. 606 comma 1, lett. e) c.p.p. (sentenza, p. 40)
La sentenza affronta altresì un tema di natura squisitamente processuale, consistente nella deducibilità del vizio del travisamento del fatto. Tale motivo di gravame, come è noto, si trae dalla formulazione dell’art. 606, comma 1, lett. e) cod. proc. pen. nella parte in cui la stessa riferisce la più ampia fattispecie della contraddittorietà della motivazione al caso in cui detta contraddittorietà risulti non dal testo del provvedimento impugnato, ma “da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame”.
Quest’ultima condizione, direttamente prescrittiva dell’onere di specifica indicazione degli atti dei quali si deduce il travisamento, non si riduce tuttavia a tale aspetto procedurale, ma presuppone altresì, perché l’onere di indicazione imposto al ricorrente abbia senso funzionale nel sistema, che la contraddittorietà intercorra fra le conclusioni del provvedimento e gli atti indicati. Ne segue logicamente che l’errore deducibile in questa prospettiva, in quanto apprezzabile attraverso l’indicazione di atti singoli e determinati, deve cadere sul dato significante costituito dalla circostanza di fatto riportata quale contenuto dell’elemento di prova, per la cui rilevabilità in questa sede è necessaria la specifica indicazione dell’atto da cui l’elemento risulta, e non sul significato attribuibile allo stesso (Sez. 5, n. 18542/2011, Carone); e ricorre nei soli casi in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su un determinato elemento che si riveli insussistente o, per come esposto nel provvedimento impugnato, incontestabilmente diverso da quello reale, ovvero abbia trascurato un elemento esistente e decisivo, in modo da sollecitare un intervento del giudice di legittimità nel senso non di una reinterpretazione degli elementi valutati dal giudice di merito, ma della verifica sulla sussistenza e sul contenuto di detti elementi (Sez. 2, n. 47035/2013, Giugliano; Sez. 6, n. 25255/2012, Minervini; Sez. 5, n. 39048/2007, Casavola).
Pertanto, ove la censura consista nell’esposizione di valutazioni sul significato probatorio degli elementi di prova considerati, la situazione denunciata sarà estranea al vizio lamentato (Sez. 5, n. 9338/2013, Maggio; Sez. 3, n. 46451/2009, Carella). Va peraltro aggiunto che, in una situazione di doppia conformità delle sentenze di merito, la deduzione del vizio di travisamento è comunque consentita con esclusivo riguardo ad elementi introdotti per la prima volta nel giudizio di appello (Sez. 6, n. 5146/2014, Del Gaudio; Sez. 4, n. 4060/2014, Capuzzi; Sez. 1, n. 24667/2007, Musumeci; Sez. 2, n. 5223/2007, Medina).
Come citare il contributo in una bibliografia:
L. Roccatagliata, Le motivazioni della Cassazione sul caso Cirio. Un’occasione per ribadire alcuni approdi del Giudice di legittimità in tema di bancarotta, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 2