Violazione degli obblighi di assistenza familiare: la contestazione del reato permanente al vaglio della Corte Costituzionale
in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 4 – ISSN 2499-846X
Corte costituzionale, Sentenza 7 febbraio – 8 marzo 2018, n. 53
Presidente Lattanzi, Relatore Modugno
1. Con ordinanza del 9 novembre 2016, il Tribunale ordinario di Chieti, sezione distaccata di Ortona, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 671 del codice di procedura penale, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Di recente, la Corte Costituzionale, con sentenza n. 53/2018, si è pronunciata – in termini di infondatezza – sulla legittimità della norma, nella parte in cui “non prevede, in caso di pluralità di condanne intervenute per il medesimo reato permanente in relazione a distinte frazioni della condotta, il potere del [giudice dell’esecuzione] di rideterminare una pena unica, in applicazione degli artt. 132 e 133 c.p., che tenga conto dell’intero fatto storico accertato nelle plurime sentenze irrevocabili, e di assumere le determinazioni conseguenti in tema di concessione o revoca della sospensione condizionale, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p.”.
2. Giova premettere che la vicenda ha occasionato il giudice dell’esecuzione per via dell’istanza presentata dal difensore di un soggetto, destinatario di tre condanne definitive, in ordine al medesimo reato di cui all’art. 570, secondo comma, del codice penale.
Com’è noto, l’illecito in parola postula la violazione degli obblighi di assistenza familiare, segnatamente consumata a danno di figli minorenni privati dei mezzi di sussistenza.
Le condotte oggetto di contestazione riguardano fatti ascrivibili a segmenti temporali ben circoscritti e distinti tra loro, ragion per cui vengono instaurati più procedimenti penali.
Sennonché, vista la natura permanente del reato e l’unicità del fatto storico cui fanno riferimento le condanne, il difensore avanzava la predetta istanza chiedendo, in via principale, l’esecuzione della sola prima sentenza di condanna, ai sensi degli artt. 649 e 669 c.p.p.; inoltre, in via subordinata, richiamava l’art. 671 c.p.p., norma che disciplina il reato continuato, chiedendo la rideterminazione della pena complessiva.
3. A tal punto, è opportuno analizzare nel merito l’ordinanza, con particolare riguardo ai principi costituzionalmente garantiti – vale a dire quello di uguaglianza e di inviolabilità della difesa – posti al vaglio della Consulta. Stando alle doglianze del ricorrente, la mancata valutazione unitaria delle diverse frazioni di condotta sarebbe sinonimo di una deficitaria tutela giurisdizionale, poiché ostativa ad evitare il cumulo delle pene irrogate nonché a valutare unitariamente l’offesa.
Pertanto, una scelta simile potrebbe comportare, e per cause indipendenti dal reo, non solo la revoca della sospensione condizionale della pena, ove concessa con le prime condanne, ma anche il deterioramento del trattamento sanzionatorio rispetto a quello che si otterrebbe considerando i reati avvinti dal concorso formale o dalla continuazione, ai sensi dell’art. 671 c.p.
Posta in questi termini, la questione appare viziata da un trattamento sanzionatorio irrazionale e da una tutela difensiva alquanto scarna.
4. Con riferimento al percorso ermeneutico intrapreso dalla Consulta, esso involge l’istituto del reato permanente – figura solo richiamata, ma non definita né dal codice penale né dal codice di procedura penale. Le esigenze di carattere sostanziale sottese al ragionamento svolto vanno connesse a quelle di carattere processuale che spesso conducono, in sede cognitiva, a plurime decisioni per frazioni di condotta sussumibili nel medesimo reato permanente.
Preliminarmente, giova introdurre alcune delle peculiarità del reato permanente: in primo luogo, esso si caratterizza per la durata dell’offesa arrecata al bene giuridico che, diversamente da quanto accade nel reato istantaneo, si protrae nel tempo in concomitanza con la condotta volontaria del reo e si esaurisce con la cessazione di quest’ultima in secondo luogo, esso si contraddistingue per la natura unitaria, riconosciuta dalla giurisprudenza costante in contrasto con la teoria pluralistica della dottrina, sicché una volta integrati gli elementi tipici di fattispecie con l’inizio della condotta illecita, quest’ultima soggiace alla disciplina del reato permanente qualunque sia la durata.
Ne consegue che il carattere unitario non attiene soltanto alla condotta, bensì coinvolge più ampiamente anche l’offesa e tutta la struttura del reato.
5. Come già anticipato, un fenomeno derogatorio dell’unitarietà volto al frazionamento dell’illecito si configura allorquando il reato permanente diviene destinatario di una pluralità di giudicati di condanna, per via di fattori di tipo processuale che impediscono l’esercizio unitario dell’azione penale.
Si pensi, ad esempio, all’acquisizione graduale di prove da parte del pubblico ministero, circostanza che impedirebbe l’instaurarsi di un unico procedimento penale a carico del medesimo imputato.
Invero, la vicenda oggetto del giudizio a quo corrisponde a questa occasionale circostanza ove la presentazione di plurime denunce da parte del coniuge separato a carico del ricorrente, per avere inadempiuto agli obblighi di assistenza familiare in modo continuativo, faceva insorgere tre distinti procedimenti penali quante le singole condotte contestategli.
Ciò in quanto vi è difetto di corrispondenza tra dato storico e naturalistico per ciascun elemento costitutivo del reato: ad esempio, le condotte appaiono dissociate sul piano storico. Dunque, è pacifico come una simile circostanza osti al principio del ne bis in idem che, viceversa, eleva a condizione di applicabilità la corrispondenza storico-naturalistica di ciascun elemento del reato.
6. Auspicando che rafforzi l’argomentazione, occorre altresì dar luogo alle modalità di formulazione dell’imputazione fatta dal pubblico ministero. Di solito essa può rilevare come contestazione “chiusa” ovvero “aperta”, a seconda delle risultanze investigative compiute.
La contestazione “chiusa” consiste nella cristallizzazione del capo di imputazione in un lasso temporale ben definito, avente data iniziale e finale espresse, con la conseguenza logica che le ulteriori manifestazioni di condotta non possono né essere automaticamente assorbite nel capo d’imputazione già formulato- salvo ipotesi di contestazione suppletiva ex art. 516 c.p.p. – né tantomeno sfuggire all’azione penale.
Diversamente si sostiene in tema di contestazione “aperta”, in quanto il pubblico ministero, in tal caso, si limita ad indicare la data iniziale della permanenza ovvero dell’accertamento della stessa, tralasciando la data finale evidentemente perché la permanenza non può dirsi ancora cessata.
La giurisprudenza prevalente è ferma nel ritenere che, solo in tale ultima circostanza, le ulteriori manifestazioni di condotta vadano ricomprese nella contestazione aperta, escludendo la necessità di quelle suppletive.
In ogni caso, qualunque sia la tipologia di contestazione adottata dal pubblico ministero, va rammentato che la pronuncia della sentenza di primo grado comporta la preclusione di ulteriori accertamenti e neutralizza il rischio di un doppio giudizio per condotte già contestate.
7. Le conclusioni giurisprudenziali finora riportate sottolineano l’esigenza di non creare una zona franca per delle condotte penalmente rilevanti che, in caso contrario, sfuggirebbero alla minaccia della pena per meri vizi di carattere pratico. Non solo ma un tale meccanismo contraddirebbe la funzione deterrente della pena e indurrebbe ad una libera violazione della legge penale. Ciò lo si evince proprio dalla sentenza della Corte Costituzionale che, in merito alla possibilità di procedere per la condotta successiva alla data finale della contestazione “chiusa” ed anteriore alla pronuncia di primo grado, reputa «egualmente illogico che il reo possa godere di una “franchigia penale” riguardo alla perdurante condotta illecita per il mero fatto che l’accertamento giudiziario abbia riguardato solo un segmento temporale del reato».
Alla luce di quanto detto, deve escludersi la sovrapposizione dei giudicati e di conseguenza la violazione del principio del ne bis in idem visto che le sentenze di condanna in ordine al reato di cui all’art. 570 comma 2 c.p. fanno riferimento a periodi diversi e cristallizzati in contestazioni di tipo “chiuso” (rispettivamente, da marzo a settembre 2008, da ottobre 2008 a marzo 2009 e da agosto 2009 a marzo 2010).
8. Oltre a quanto detto, merita cenno anche il secondo dei due motivi rilevati in seno all’ordinanza di legittimità costituzionale. In particolare, si discute circa l’applicabilità dell’art. 671 c.p.p., disposizione in forza della quale, in caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili oggetto di procedimenti distinti a carico del medesimo imputato, il giudice dell’esecuzione può applicare, ove non escluso in sede cognitiva, la disciplina del reato continuato.
Com’è noto, l’istituto della continuazione postula che la base propositiva dei vari reati commessi sia un medesimo disegno criminoso, tuttavia negato dal ricorrente in favore di un unico reato permanente.
Dapprima viene richiamato l’indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, secondo cui la permanenza subisce un’interruzione giudiziale per cause naturalistiche- ossia l’esaurirsi della condotta tipica- nonché per cause giudiziarie- ossia l’acquisizione graduale di prove. Successivamente, il richiamo del fenomeno di interruzione giudiziale della permanenza, adoperato dal ricorrente, costituisce la prova contraria per negare la configurabilità nel caso specie; a sostegno della tesi, il fatto che la sentenza di condanna è posteriore alla terza ed ultima condotta giudicata con le tre pronunce, di guisa che l’unitarietà non viene intaccata.
Sul punto va doverosamente sottolineato che il ricorrente tralascia un aspetto determinante, chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, in base al quale la sentenza di primo grado non assurge ad indistinto fattore di interruzione giudiziale, bensì si riferisce solo a quelle contestazioni “aperte”. Al contrario, la Corte di cassazione è ferma nel ritenere che per quanto attiene alle contestazioni “chiuse”, l’interruzione della permanenza coincide con la data finale indicata nel capo di imputazione, e conseguentemente causa la frantumazione della condotta.
Così ricostruito il quadro d’insieme con lo scopo di chiarire l’avvenuta interruzione della permanenza, contrariamente a quanto opina il giudice a quo, può dirsi del tutto applicabile la disciplina del reato continuato anche in sede esecutiva. (Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenza 12 luglio-13 settembre 2011, n. 33838; sezione prima penale, sentenza 19 maggio-25 ottobre 2011, n. 38486; sezione prima penale, sentenza 3 marzo-8 aprile 2009, n. 15133; sezione prima penale, sentenza 17 novembre-20 dicembre 2005, n. 46576).
D’altronde, la Consulta afferma che «l’identità del disegno criminoso, richiesta dall’art. 81, secondo comma, c.p. al fine di cementare i vari fatti di reato, è facilmente riscontrabile nella determinazione volitiva che sorregge le singole porzioni temporali di una condotta antigiuridica omogenea, dipanatasi nel tempo senza soluzione di continuità, quale quella integrativa del reato permanente.»
9. Concludendo, la vicenda in parola si risolve in termini di infondatezza rispetto alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 671 del codice di procedura penale sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Chieti, sezione distaccata di Ortona, con l’ordinanza del 9 novembre 2016.
Come citare il contenuto in una bibliografia:
M. Marchetti, Violazione degli obblighi di assistenza familiare: la contestazione del reato permanente al vaglio della Corte Costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, 4