Consenso del paziente, trattamenti sanitari e pratiche di fine vita (Tesi di laurea)
Prof. relatore: Mario Trapani
Ateneo: Università degli Studi di Roma Tre
Anno accademico: 2016-2017
Il rapporto tra medico e paziente è ormai da tempo inquadrato secondo lo schema dell’alleanza terapeutica, secondo il quale il malato, lungi dall’essere passivo destinatario di scelte imposte paternalisticamente dal depositario del sapere scientifico, diviene parte integrante del percorso terapeutico a lui destinato.
Malgrado l’indiscussa centralità assunta dal consenso del paziente quale necessario presupposto di legittimità dell’attività medico-chirurgica, e il suo riconoscimento all’interno del quadro costituzionale, sono ancora molti i dubbi relativi tanto ai profili di responsabilità penale dell’operatore in caso di trattamento c.d. arbitrario, quanto alla rilevanza del dissenso opposto dal paziente all’inizio o alla prosecuzione di trattamenti sanitari, specie quando si tratti di trattamenti “salva vita”. Il diritto a morire dignitosamente è riconosciuto solo in via indiretta, potendosi esprimere attraverso la rinuncia definitiva a trattamenti sanitari o mediante la somministrazione di cure palliative che abbiano come conseguenza indiretta l’accorciamento della vita.
Inoltre, come reso evidente dai drammatici casi giurisprudenziali presentatisi negli ultimi anni, il riconoscimento del diritto al rifiuto delle cure come correlato “in negativo” del principio del consenso, non ha impedito che si ponessero diversi problemi giuridici, dalla qualificazione dell’interruzione del trattamento medico quando richieda una condotta fenomenologicamente attiva, al problema della rappresentanza e della rilevanza della volontà del paziente in stato di incoscienza, i quali, nella perdurante assenza di soluzioni legislative, sono stati affrontati dalla giurisprudenza attraverso l’applicazione dei principi costituzionali.
Nell’ordinamento italiano sono previste le due fattispecie di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) e di istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), che non sempre, stando ai (pochi) casi giunti all’attenzione della giurisprudenza, riescono a trovare un’agevole collocazione rispetto all’impianto costituzionale.
La questione si è accesa di attualità con l’ordinanza emessa il 14 Febbraio 2018 dalla Corte d’Assise di Milano nel corso del processo a Marco Cappato, imputato per aver aiutato Fabiano Antoniani a raggiungere la Svizzera per ottenere il suicidio assistito, con la quale la Corte ha sollevato la questione di legittimità costituzionale in relazione all’art. 580 c.p., e che ha ripreso in parte le argomentazioni esposte nella richiesta di archiviazione (non accolta) discussa nel corso della trattazione.
L’altro importante elemento di attualità è rappresentato dall’approvazione in via definitiva in Senato del disegno di legge recante “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, discusso nel presente studio, che ha consacrato per la prima volta per via legislativa principi ormai consolidati nell’elaborazione giurisprudenziale, segnando una tappa rilevante nel cammino di valorizzazione della libertà di autodeterminazione nelle scelte terapeutiche.
Se la nuova legge si pone come punto di partenza verso l’effettività del diritto all’autodeterminazione terapeutica nelle scelte di fine vita, può risultare utile, in una prospettiva di ulteriore riforma, tanto il confronto con ordinamenti che conoscono diverse soluzioni normative in riferimento al c.d. testamento biologico e in materia di aiuto al suicidio, quanto il riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Nell’ordinamento tedesco è entrata in vigore nel 2009 la legge che ha introdotto una disciplina specifica della Patientenverfügung (disposizione del paziente), in grado di far valere il diritto di autodeterminazione del paziente, anche nei casi in cui egli non sia in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso al trattamento medico, conciliandolo al tempo stesso con la tutela della vita. Il paziente rimane soggetto, e non mero oggetto del trattamento: la sua volontà dichiarata in precedenza viene verificata in rapporto alle circostanze concrete nella cornice del rapporto dialettico tra rappresentante e medico, cui si aggiunge l’intervento del giudice tutelare ove necessario; qualora tale volontà non sia stata espressa, la disciplina conferisce rilevanza alla volontà presunta, da ricostruire sulla base di criteri determinati. Peraltro, anche in Germania i problemi giuridici legati alle scelte di fine vita sono stati affrontati per via giurisprudenziale dal Bundesgerichtshof: tra di essi il rapporto della disciplina di diritto tutelare con il diritto penale, e i profili problematici derivanti dall’interruzione del trattamento medico. Allo stesso tempo, con l’introduzione al § 217 StGB della fattispecie del c.d. aiuto al suicidio “commerciale”, si registra sul fronte legislativo una controtendenza rispetto alla marcia delle legislazioni europee, che procedono in un percorso di evoluzione verso la concessione di uno spazio sempre maggiore al diritto all’autodeterminazione, collocandolo nella cornice di un controllo pubblicistico sul consenso.
La Corte europea dei diritti dell’uomo, dalla sentenza Pretty fino alla recente decisione sul caso Lambert, è andata assestandosi su un trend di ampliamento del riconoscimento del diritto all’autodeterminazione in relazione a pratiche in senso lato eutanasiche, affermando il diritto dell’individuo a determinare tempi e modi della propria morte, pur sottolineando a più riprese l’ampio margine di apprezzamento concesso agli stati alla luce della particolare sensibilità della materia in questione.