Whistleblowing e attività investigativa del dipendente
Cassazione Penale, Sez. V, 26 luglio 2018 (ud. 21 maggio 2018), n. 35792
Presidente Bruno, Relatore Tudino
In tema di whistleblowing (Legge 30 novembre 2017, n. 179), segnaliamo la pronuncia con cui la quinta sezione penale della Corte di Cassazione si è pronunciata sul rapporto tra la tutela degli autori delle segnalazioni e la possibilità, per gli stessi, di compiere attività investigativa finalizzata ad effettuare segnalazioni.
In particolare, i giudici di legittimità erano chiamati a valutare il ricorso di un dipendente che, al fine di raccogliere prove per una successiva denuncia, si era reso responsabile del reato di accesso abusivo a sistema informatico: tale condotta, secondo il ricorrente, non avrebbe rilevanza penale alla luce dell’operatività della causa di giustificazione, anche in forma putativa, dell’adempimento del dovere, fondato sul vincolo di fedeltà che lega il pubblico dipendente all’amministrazione derivante dagli artt. 54 e 54 bis del d. lgs. 165/2001 (disposizioni che prevedono obblighi di informazione finalizzati alla prevenzione di fenomeni illeciti, quali la corruzione, cui è correlata la non punibilità, sotto il profilo disciplinare e antidiscriminatorio, del dichiarante).
La Corte ha ritenuto infondato il motivo di ricorso ricordando come la normativa in tema di tutela del dipendente che segnala illeciti (così come modificata dalla Legge 30 novembre 2017, n. 179) «si limita a scongiurare conseguenze sfavorevoli, limitatamente al rapporto di impiego, per il segnalante che acquisisca, nel contesto lavorativo, notizia di un’attività illecita, senza fondare alcun obbligo di attiva acquisizione di informazioni, autorizzando improprie attività investigative, in violazione dei limiti posti dalla legge».
La mancata previsione di tale facoltà – prosegue la sentenza – «non consente di ritenerne la configurazione neanche in forma putativa, non profilandosi come scusabile alcun errore riguardo l’esistenza di un dovere che possa giustificare l’indebito utilizzo di credenziali d’accesso a sistema informatico protetto – peraltro illecitamente carpite in quanto custodite ai fine di tutelarne la segretezza – da parte di soggetto non legittimato».
L’insussistenza dell’invocata scriminante dell’adempimento del dovere – concludono i giudici – «è fondata sui medesimi principi che, in tema di “agente provocatore”, giustificano esclusivamente la condotta che non si inserisca, con rilevanza causale, nell’iter criminis, ma intervenga in modo indiretto e marginale, concretizzandosi prevalentemente in un’attività di osservazione, di controllo e di contenimento delle azioni illecite altrui».