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Malattie professionali ed esposizione ad agenti nocivi. Le motivazioni della sentenza di assoluzione nel caso Pirelli bis.

in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1 – ISSN 2499-846X

Tribunale di Milano, Sezione V Penale, 21 dicembre 2018
Dott.ssa Annamaria Gatto

1. Con la presente pronuncia, il Tribunale di Milano ha mandato assolti nove ex dirigenti di un importante gruppo societario operante nel settore della produzione dei pneumatici, nei confronti dei quali la Procura aveva ritenuto di contestare i delitti di omicidio e lesioni colpose ai danni di una ventina di dipendenti che avevano operato presso tre stabilimenti all’interno del gruppo.

Vediamo da vicino i passaggi significativi della pronuncia.

In prima battuta – a valle di un paragrafo preliminare dedicato alla descrizione degli ambienti di lavoro, dello svolgimento delle attività produttive e degli agenti nocivi qui in contestazione – il Tribunale specifica subito che – per addivenire a un qualunque giudizio in merito a un'(eventuale) sussistenza del nesso eziologico tra evento patologico ed esposizione ad agente nocivo – è indispensabile per il giudice “passare dalle informazioni epidemiologiche probabilistiche al giudizio di razionale certezza proprio dell’imputazione causale” (p. 38).

In particolare, è compito dell’organo giudicante – richiamando l’insegnamento metodologico introdotto dalla sentenza Cozzini (Cass. Sez, IV, 17 settembre 2010, n. 43786) – valutare l’attendibilità di una determinata tesi scientifica, esaminando “gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali su cui essi sono condotti. L’ampiezza,la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio…l’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica nonché il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica“, per poi “tirare le fila e valutare se esiste una teoria sufficientemente affidabile ed in grado di fornire concrete, significative ed attendibili informazioni idonee a sorreggere l’argomentazione probatoria inerente allo specifico caso esaminato” (p. 38).

Quindi, lungi dall’essere espressione di un nomos in grado di definire nel merito comportamenti simili, il Tribunale aderisce al costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale è compito dell’organo giudicante deve limitarsi a  razionalizzare l’intero compendio probatorio emerso in dibattimento (cfr. Cass. Sez. IV, 14 novembre 2017, n. 16715; Cass. Sez. IV, 3 novembre 2016, n. 12175. In dottrina, si veda PULITANO’, Personalità della responsabilità: problemi e prospettive, in Riv.it.dir.proc.pen., 2012, pp. 1231 ss.), privando ogni dimensione naturalistica al nesso di causalità, che viene destinato a una dimensione meramente processuale e che, quindi, potrà essere dichiarato sussistente non in quanto materialmente esistente ex ante, ma solo a posteriori, se suffragato dal materiale probatorio emerso in sede dibattimentale.

2. Delineato così il percorso valutativo da compiere, il Tribunale entra nel merito e analizza, caso per caso, le singole vicende oggetto di impugnazione, distinguendo, in prima battuta, le patologie in ordine alle quali le risultanze dibattimentali non hanno consentito di formulare – già su un piano di causalità generale – un giudizio di certezza razionale in merito alla sussistenza del nesso causale, dai casi in cui dal dibattimento è emerso che le patologie paiono derivate dall’esposizione alle sostanze nocive meglio descritte in sede di premessa (segnatamente, talco, amianto, fenil-betanaftilammina, IPA).

Sennonché, gli imputati devono essere mandati assolti non solo nella prima categoria di casi, ma anche in ordine ai residui casi – prevalentemente ipotesi di asbestosi e mesotelioma – in cui non è stato possibile escludere la sussistenza del nesso causale già sotto un profilo di causalità generale.

Per giungere a tale conclusione, il Tribunale milanese esamina in prima battuta (anche grazie agli esiti di una perizia prodotta in sede dibattimentale ove erano stati esaminati i passaggi societari del gruppo) le realtà societarie del gruppo, individuando così sia le Società che avevano nel tempo gestito i tre stabilimenti – stabilimento pneumatici, stabilimento cavi e stabilimento articoli tecnici – ove lavoravano le persone offese sia coloro che in tali compagini avevano rivestito “ruoli di amministrazione se non di legali rappresentanti e/o titolari della posizione di garanzia” (p. 64).

E a valle di tale disamina, il Tribunale tra le seguenti conclusioni ossia che:

– che nessuno degli imputati aveva mai rivestito qualsivoglia posizione di garanzia nell’ambito della Società che aveva gestito la divisione meccanica;

– che solo due degli odierni imputati aveva assunto la qualità di Legale Rappresentante pro tempore nella Società che aveva gestito la divisione cavi;

– che uno degli odierni imputati era totalmente estraneo ai fatti connessi alla divisione pneumatici, dal momento che, nella Società deputata alla gestione di tale divisione, aveva rivestito esclusivamente la carica di sindaco e, come tale, non era “destinatario delle previsioni della normativa sull’igiene e sicurezza sul lavoro” (p. 66).

2.1. Sotto altro profilo, poi, il Tribunale esclude poi che possano essere attribuite agli odierni imputati le violazioni delle norme cautelari concernenti la non idoneità dei sistemi di aspirazione, la mancata fornitura di DPI o il mancato controllo sul loro utilizzo, le modalità utilizzate per svolgere i lavori di manutenzione degli impianti coibentati con amianto e quelle di raccolta e smaltimento delle fibre e l’omessa informazione ai lavoratori sui rischi specifici derivanti dall’esposizione agli agenti nocivi.

A tal fine, il Giudice richiama (preliminarmente) l’indirizzo della Suprema Corte “che […] quando gli interventi da adottare per eliminare o ridurre il rischio per i dipendenti non hanno natura di “straordinaria amministrazione”, individua nel Cda nel suo complesso il “datore di lavoro” e, sotto il profilo penale, ciascuno dei componenti” (p. 67).

Tuttavia, sottolinea il Tribunale, nel caso che ci occupa “occorre osservare che dall’istruttoria è emerso che erano stati adottati provvedimenti diretti ed idonei a monitorare costantemente tutti i fattori di rischio derivanti dall’attività lavorativa ed a porvi rimedio” (p. 67).

Nello specifico, già dal 1970 – ossia “in un’epoca in cui gli strumenti normativi non erano ancora così incisivi come quelli previsti dall’attuale T.U.” – era stato costituito all’interno del Gruppo il Laboratorio di Igiene industriale ed Ergonomia: un organo avente compiti di costante verifica e controllo (i tecnici intervenivano per “analizzare situazioni che potevano suscitare preoccupazioni” e “partecipavano direttamente alla individuazione delle zone più inquinate e provvedevano alla verifica dell’efficacia delle bonifiche di situazione che si erano presentate, prima alterate“) e che costituiva uno strumento prezioso per il Consiglio di Amministrazione, in grado di consentirgli “di acquisire informazioni necessarie per eseguire anche e ove necessario interventi di straordinaria amministrazione” (p. 68).

E ciò senza tener conto che il CdA aveva comunque rilasciato apposite deleghe in tema di sicurezza sul lavoro, le quali “all’epoca, erano corrispondenti” ai requisiti richiesti “dalla giurisprudenza per affermarne la validità: forma scritta ed attribuzione di un’adeguata autonomia di spesa” (p. 68).

2.2. Da ultimo, poi, il Tribunale dedica le ultime righe della pronuncia all’analisi dell’incidenza dell’esposizione ad amianto nel processo di cancerogenesi del mesotelioma e, in particolare, vengono definite le tre fasi che caratterizzano tale processo, ossia:

– la latenza minima, che si riferisce al periodo di tempo che intercorre tra l’inizio dell’esposizione e il momento in cui il tumore si è sviluppato in maniera irreversibile, anche se non è ancora stato diagnosticato;

– la latenza propriamente detta, riguardante il periodo compreso tra il momento in cui l’induzione è terminata ed il tumore- divenuto irreversibile – rimane tuttavia clinicamente silente;

– la latenza convenzionale, ossia il periodo che intercorre tra l’inizio dell’esposizione e la diagnosi di mesotelioma.

Ciò posto, prosegue il Tribunale, “la scienza che riceve maggiori consensi indica tra i 30 e i 40 anni […] la durata della latenza convenzionale”, mentre la durata della latenza minima “è più difficilmente individuabile e l’unico elemento che incontra un significativo consenso è l’affermazione che per determinare l’inizio dell’induzione si deve fare riferimento alla prima – e quindi più risalente – esposizione all’amianto” (pp. 69-70).

Inoltre, si legge nella sentenza, “incontra un significativo consenso anche l’affermazione che, una volta terminata l’induzione le esposizioni successive non hanno alcuna rilevanza nella storia del mesotelioma“, mentre “diversamente, è ancora molto dibattuta la questione relativa all’effetto acceleratore che possono avere le cd. “dosi cumulative” (p. 70).

Ma se le cose stanno così, non resta che prendere atto che – posto che l’inizio dell’induzione coincide con la prima esposizione, che la latenza minima ha una durata una durata massima stimabile in 15 anni e che le esposizioni successive all’induzione non hanno alcuna rilevanza neppure ai fini di accelerare il processo genetico del tumore (cfr. p. 71) – a nessun imputato può essere ascritto di aver cagionato o contribuito a cagionare il formarsi delle patologie tumorali.

Infatti, “gli imputati hanno fatto parte del CdA delle Società che hanno gestito i siti produttivi a partire dal 1980“, quando ormai “erano decorsi“, in tutti i casi qui esaminati, oltre “15 anni dalla prima esposizione“, dal momento che “i lavoratori che hanno contratto il mesotelioma sono stati esposti per la prima volta all’agente nocivo in tempi risalenti” (pp. 70-71).

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Miglio, Malattie professionali ed esposizione ad agenti nocivi. Le motivazioni della sentenza di assoluzione nel caso Pirelli bis, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 1