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Amare in carcere. Prospettive di riforma contro il rischio di destrutturazione soggettiva

in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis – ISSN 2499-846X

La riforma dell’ordinamento penitenziario del ’75 fu da più parti salutata con estremo favore, per i numerosi aspetti che ne facevano una riforma intrinsecamente moderna, attenta alle esigenze del tempo e – soprattutto – portatrice di una rinnovata concezione della pena. Con la Legge 26 luglio 1975, n. 354, seguita dalla “legge Gozzini”, in cui si è sancita la necessità di perseguire “il graduale reinserimento del soggetto nella società”, la risposta sanzionatoria dello Stato nei confronti del reo, sino a quel momento innegabilmente ancorata a caratteri di austerità e di moralità, oltre che di precipua afflittività, subì una decisa (seppur non decisiva, v. infra) virata verso il finalismo rieducativo della pena.

L’obiettivo, almeno nell’intenzione del legislatore del tempo, consisteva nella progressiva sostituzione del carcere, in precedenza inteso come luogo impermeabile, isolato dalla società moderna, con una concezione dinamica della funzione riabilitativa intramuraria, in grado – innanzitutto – di fornire adeguato riscontro alle istanze socializzanti, figlie – tra le altre cose – dell’intervenuto avvicendamento tra il modello statuale classico-liberale e sociale. Nondimeno, la riforma offriva finalmente una lettura costituzionalmente orientata, ai sensi innanzitutto dell’art. 27 Cost., dell’istituto della carcerazione, candidandosi quale protagonista del pensionamento – pur tardivo – del regolamento carcerario classe 1931, modellato su concezioni e bisogni risalenti all’epoca fascista, e per questo non più attuali (oltre che, per certi profili, del tutto anacronistici).

Ciononostante, è oggi sufficiente uno sguardo cursorio alla dottrina costituzional-penalistica inerente la tematica dell’attuale condizione individuale nelle carceri per comprendere come la riforma in parola abbia costituito per il nostro Paese, con tutta probabilità, l’ennesimo esempio di occasione persa. Da più parti, infatti, viene ribadita la centralità della funzione rieducativa della pena, della necessità di un ambiente risocializzante per il reo, della valenza sociale che dovrebbe essere propria del percorso detentivo.

Ebbene, l’impressione è che la – persistente – rivendicazione di tali tematiche sottintenda, in realtà, la mancata, piena applicazione pratica dei principi cui la riforma del 1975 si ispirava (anche nella titolazione originaria) e della cui realizzazione effettiva doveva essere, in definitiva, il primo strumento. Che bisogno ci sarebbe, invero, di riaffermare verbalmente i criteri direttivi cui la vita carceraria dovrebbe aspirare (ed ispirarsi), se questi fossero già parte costituente dell’ordinamento penitenziario?

Come citare il contributo in una bibliografia:
M. Baroni, Amare in carcere. Prospettive di riforma contro il rischio di destrutturazione soggettiva, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis