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Della castrazione di un diritto. La negazione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale

in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis – ISSN 2499-846X

Il binomio affettività-carcere stringe a tenaglia un problema intorno al quale è inutile circumnavigare: la possibilità di mantenere dietro le sbarre una relazione amorosa che non sia amputata della propria dimensione sessuale. Problema incandescente, perciò da sempre rimosso nonostante la reiterata richiesta dei detenuti ad avere in carcere, in condizioni di intimità, incontri con persone con le quali intrattengono un rapporto di affetto. È un desiderio legittimo. È anche un diritto?

Fuori dal nostro cortile di casa, certamente sì. Albania, Austria, Belgio, Croazia, Danimarca, Francia, Finlandia, Germania, Norvegia, Olanda, Spagna, Svezia, Svizzera, taluni Paesi dell’Europa dell’est – solo per rimanere in ambito continentale – sono tra gli Stati ove è prevista la possibilità di usufruire di appositi spazi penitenziari all’interno dei quali, sottratti al controllo visivo del personale di custodia, il detenuto può trascorrere diverse ore in compagnia del proprio partner.

Il riconoscimento di un vero e proprio diritto soggettivo all’affettività-sessualità inframuraria è anche l’approdo auspicato da atti sovranazionali in materia penitenziaria: originariamente ignorato, il problema emerge nelle Raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 1997 ed è oggetto di precise linee guida in quelle approvate nel 2006. Ma già il Parlamento europeo nel 2004 annoverava tra i diritti da riconoscersi ai detenuti quello ad «una vita affettiva e sessuale, attraverso la predisposizione di misure e luoghi appositi». Nel tempo, dunque, le fonti europee hanno progressivamente riconosciuto come la tutela dei rapporti familiari necessiti della possibilità di relazioni intime inframurarie (conjugal visits).

Dunque, si può fare. Anche da noi? La risposta è negativa: i detenuti in Italia possono amare solo platonicamente. Dietro le nostre sbarre si assiste alla «innaturale rimozione della sessualità di corpi giovani e meno giovani, ma sempre sottoposti ad astinenze sessuali forzate per lunghi anni, spesso decenni, a volte per sempre». Una sessualità estirpata, che rappresenta «uno dei limiti più evidenti della nostra, peraltro avanzata, legislazione penitenziaria».

È necessario inoltrarsi lungo questo terreno accidentato. Andrà trivellato in profondità, come si fa con i carotaggi, per portare in superficie quello che – come vedremo – è un vero e proprio diritto costituzionalmente fondato eppure castrato dal nostro ordinamento penitenziario. Ci si dovrà, infine, ingegnare su come superare questo illegittimo stato di cose, a rimedio della (più che prevedibile) riluttanza del legislatore a cambiarlo. Ma proseguiamo con ordine.

Come citare il contributo in una bibliografia:
A. Pugiotto, Della castrazione di un diritto. La negazione della sessualità in carcere come problema di legalità costituzionale, in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2-bis