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Le armi spuntate dell’Italia contro l’inquinamento: la condanna della corte EDU nel caso Ilva (Cordella ed altri c. italia)

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, Sezione Prima, Sentenza Cordella e altri c/ Italia, 24 gennaio 2019
Ricorsi nn. 54414/13 e 54264/15

Con sentenza del 24 gennaio 2019 (per il cui testo, vedi questa Rivista, ivi), la Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha dato una risposta ai 180 ricorrenti che avevano lamentato la violazione dei propri diritti fondamentali, e specificamente del diritto alla vita (art. 2 della Convenzione), del rispetto alla vita privata (art. 8) e del diritto ad un ricorso effettivo (art. 13), derivante dagli effetti delle emissioni dello stabilimento siderurgico Ilva di Taranto sulla salute e sull’ambiente. La pronuncia della Corte di Strasburgo si pone all’esito di solo una delle tante vicende processuali in cui è coinvolta la società, le quali non saranno oggetto del presente articolo.

I fatti in breve

Lo stabilimento di Taranto è la sede più importante della società italiana Ilva S.p.a., nonché il più grande complesso industriale per lavorazione dell’acciaio in Europa, con un’estensione di circa 1500 ettari e l’impego di circa 11.000 lavoratori.

L’impatto delle emissioni prodotte dalla fabbrica sull’ambiente e sulla salute della popolazione locale, segnatamente degli abitanti del comune di Taranto e di determinati comuni vicini, è stato oggetto di numerosi studi scientifici, che hanno dato origine a relazioni e dossier specialistici a partire dal 1997, anno in cui il Centro Europeo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva evidenziato l’alto rischio per la salute dei cittadini ivi residenti. Già nel 2002 lo stesso organismo riscontrava che il tasso di mortalità maschile per tumori nella zona di Taranto era superiore del 10,6% rispetto alla media regionale, così come  più elevate risultavano le percentuali di mortalità femminile.

Nel 2012 lo Studio Epidemiologico Nazionale del Territorio e degli Insediamenti Esposti a Rischio Inquinamento (SENTIERI) dell’Istituto Superiore della Sanità accertava l’esistenza di un nesso causale tra l’esposizione ambientale a sostanze cancerogene inalabili e lo sviluppo di tumori a polmoni e pleura e di patologie al sistema cardiocircolatorio, evidenziando il maggior numero di ricoveri ospedalieri e di morti dovute a tali cause nella zona di Taranto rispetto alla media regionale.

Anche l’ARPA aveva condotto numerose ricerche nel corso degli anni e nel 2016 segnalava che il livello di diossine nel quartiere di Tamburi (Taranto) era superiore a quello autorizzato. Nel rapporto del 2017, basato sui dati del registro dei tumori di Taranto, registrava il perdurare di una situazione di criticità sanitaria nella zona di Taranto, affermando che le emissioni industriali e il pregiudizio sanitario erano casualmente collegati. Sulla base dei risultati emersi, raccomandava la sorveglianza epidemologica della popolazione e la messa in opera di tutte le misure volte a tutelare la salute, mediante l’utilizzo delle “migliori tecniche disponibili”.

Agli studi e raccomandazioni scientifici si affiancavano le misure amministrative adottate di volta in volta dalle autorità pubbliche al fine di controllare i livelli di inquinamento nella zona classificata “ad alto rischio ambientale” da una deliberazione del Consiglio dei Ministri del 1990. Negli anni 2000 tra la società e le amministrazioni locali intercorsero diversi atti di intesa finalizzati alla realizzazione delle misure atte a ridurre l’impatto ambientale della fabbrica e al controllo del livello di emissione di diossine, che nel 2008 risultava ancora troppo elevato.

La legge regionale n. 44 del 2008 fissava per la prima volta i limiti antro i quali l’emissione di diossine era autorizzata nell’ambito di attività industriali, tuttavia i tagli alle emissioni venivano prorogati da successivi provvedimenti legislativi. Intanto l’ARPA registrava la contaminazione di alcuni lotti di carne animale introdotta nella catena alimentare umana, rapporto che portava al divieto di pascolo e all’abbattimento di numerosi capi di bestiame in un raggio di 20 km dallo stabilimento.

Nel 2011 il Ministero dell’Ambiente accordava all’Ilva una prima Autorizzazione Ambientale Integrata (AIA), fissando alcune condizioni per il controllo dell’inquinamento, poi modificate con una seconda autorizzazione che prevedeva l’obbligo di inviare un rapporto trimestrale relativo all’applicazione delle misure necessaria per il miglioramento dell’impatto ambientale.

Parallelamente venivano radicati diversi procedimenti penali nei confronti dei dirigenti dell’Ilva, ai quali venivano contestate, tra le altre, le condotte di catastrofe ecologica, avvelenamento di sostanze alimentari, omessa prevenzione di incidenti sul luogo di lavoro, danneggiamento di beni pubblici, emissione di sostanze inquinanti ed inquinamento atmosferico.

Nel 2012 il GIP di Taranto, sulla base delle consulenza tecniche di esperti chimici ed epidemiologici, disponeva il sequestro di parchi minerali, cokerie, area agglomerazione, area altiforni, acciaierie e dei materiali ferrosi, affermando nella relativa ordinanza che “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”.

A partire dal 2012, il Governo adottava una serie di provvedimenti legislativi, i cosiddetti decreti “salva Ilva”, che permisero alla società di continuare la propria attività industriale nonostante il perdurare delle emissioni nocive fuori soglia. Tra questi, il decreto legge n. 92/2015 veniva dichiarato incostituzionale con sentenza n. 58 del 2018, in quanto la Corte Costituzionale aveva ritenuto che le autorità erano giunte a privilegiare in misura eccessiva la continuazione dell’attività produttiva a detrimento della protezione del diritto alla salute e alla vita, tutelati dalla Costituzione italiana.

A livello europeo, con sentenza del 31 marzo 2011 la Corte di Giustizia dell’UE accertava che le autorità italiane erano venute meno agli obblighi derivanti dalla direttiva 2008/1/CE sulla prevenzione e la riduzione dell’inquinamento, sottolineando che l’Italia aveva omesso di adottare le misure necessarie affinché le autorità competenti potessero vegliare sul rispetto del sistema di autorizzazioni previsto nella menzionata direttiva da parte degli stabilimenti industriali. Constatando le medesime infrazioni alla normativa europea, nella specie alla direttiva  2010/75/UE, nel 2014 la Commissione UE emanava un avviso motivato richiedendo allo stato italiano di rimediare ai gravi problemi di inquinamento rilevati nella zona dello stabilimento.

Il procedimento avanti alla Corte EDU

I ricorrenti invocavano davanti alla Corte EDU gli articoli 2 e 8 della Convenzione, ritenendo che lo Stato italiano non aveva adottato le misure giuridiche e regolamentari atte a proteggere la loro salute e l’ambiente in cui vivevano, e di avere omesso di fornire loro le informazioni sull’inquinamento e sui rischi alla salute ad esso  connessi. La Corte riteneva doveroso esaminare tale allegazione unicamente sotto il profilo dell’art. 8, che tutela il rispetto della vita privata.

Veniva altresì lamentata la violazione dell’art. 13 della Convenzione, in quanto i ricorrenti ritenevano di essere stati lesi nel loro diritto all’accesso ad un rimedio effettivo di giustizia a fronte delle azioni delle autorità nazionali, potenzialmente illegittime.

Il Governo Italiano sollevava delle eccezioni preliminari, contestando in primo luogo la qualificazione dei ricorrenti quali “vittime”, avuto riguardo del carattere generale delle loro doglianze e della mancata circostanziazione del danno asseritamente subito.

Sul punto la Corte, pur precisando che nessuna disposizione della Convenzione garantisce la protezione generale dell’ambiente in quanto tale, affermava che se dai contestati danni all’ambiente scaturiscono effetti nefasti sulla sfera privata o familiare dell’individuo, entrano in gioco diritti convenzionalmente garantiti e nello specifico l’art. 8 paragrafo 1 CEDU. In via presuntiva, la Corte dichiarava irricevibile il ricorso di 19 ricorrenti che non erano residenti nei comuni “ad alto rischio ambientale” annoverati nella delibera del Consiglio dei Ministri del 1990.

I giudici di Strasburgo dichiaravano altresì che vi erano elementi per sostenere che l’inquinamento nella zona interessata aveva reso inevitabilmente le persone ad esso esposte più vulnerabili a numerose malattie e richiamavano in punto di nesso causale tra l’attività dell’Ilva e la compromissione della situazione sanitaria i risultati degli studi scientifici sopra menzionati, in particolare i dossier SENTIERI e i report dell’ARPA.

In secondo luogo, il Governo italiano eccepiva il mancato esperimento delle vie di ricorso interno, dal momento che erano ancora pendenti in Italia due procedimenti penali nei confronti dei dirigenti Ilva, nell’ambito dei quali i ricorrenti avrebbero potuto costituirsi parte civile. Suggeriva inoltre che essi avrebbero avuto la possibilità di azionare diversi rimedi in sede civilistica, come ad esempio il ricorso ex art. 700 c.p.c. o la class action ex l. 15/2009.

A questa eccezione, i ricorrenti replicavano che lo scopo da essi perseguito non consisteva nell’ottenimento di un ristoro patrimoniale, bensì nella denuncia della mancata adozione da parte dello Stato delle misure amministrative e legislative volte a proteggere la loro salute e l’ambiente, nonché nella contestazione delle misure che avevano permesso la continuazione dell’attività inquinante della società siderurgica. Evidenziavano inoltre che tutti i rimedi interni indicati dal Governo erano risultati nella pratica ineffettivi o non esperibili nel caso di specie.

La Corte, rilevando che le doglianze dei ricorrenti inerivano l’assenza di misure volte ad assicurare il risanamento della zona interessata, affermava che tale obiettivo era stato perseguito per molti anni dallo Stato italiano, tuttavia senza successo. Riteneva inoltre che nessun procedimento interno di natura penale, civile o amministrativa avrebbe potuto raggiungere lo scopo prefissato nel caso di specie e rigettava quindi l’eccezione del Governo.

Conclusioni nel merito

Quanto alla violazione dell’art. 8 CEDU, la Corte ha ricordato i principi generali secondo cui siffatta disposizione è invocabile se il rischio ecologico è di entità tale da diminuire notevolmente la capacità del ricorrente di godere del proprio domicilio, vita privata o famiglia. L’art. 8 pone sullo Stato degli obblighi negativi e positivi, che richiedono un bilanciamento tra l’interesse pubblico e quello individuale. In particolare, con riguardo allo svolgimento di un’attività pericolosa, lo Stato ha l’obbligo di regolamentare dettagliatamente tale attività, disciplinandone i vari aspetti (autorizzazioni, messa in funzione, sicurezza) e imponendo alle persone interessate di assicurare la protezione effettiva dei cittadini.

Venendo al caso specifico, la Corte ha precisato che non le spetta il compito di individuare le misure che lo Stato avrebbe dovuto adottare per ridurre il livello di inquinamento, bensì essa è tenuta a verificare se le autorità nazionali abbiano affrontato la questione con il giusto livello di diligenza e tenendo in considerazione l’insieme degli interessi rilevanti.

A differenza del caso Smaltini c. Italia, ove le ricorrente aveva lamentato il mancato riconoscimento da parte della autorità giudiziarie interne del nesso causale tra l’attività dell’Ilva e la sua patologia, nella fattispecie presente i ricorrenti denunciavano l’assenza di misure statali volte a proteggere la loro salute e l’ambiente.

Di conseguenza, alla luce dei risultati dei vari studi scientifici non contestati dalle parti, del fatto che i vari progetti di risanamento intrapresi non si erano dimostrati efficaci, della procedura di infrazione intrapresa degli organi dell’UE, della situazione di incertezza in cui versa la società, la Corte ha accertato la permanenza di una situazione di inquinamento ambientale atta a mettere in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, di quella della popolazione residente nella zona.

Secondo i giudici di Strasburgo, lo Stato italiano non ha messo in atto le misure atte a proteggere il diritto al rispetto della vita privata dei cittadini, né ha fornito agli stessi un rimedio interno efficace per la difesa di tale diritto, violando con la propria condotta gli artt. 8 e 13 della Convenzione.

La Corte, ritenendo di non dover applicare nel caso di specie la procedura della sentenza pilota, ha incaricato il Comitato dei Ministri il compito di indicare al Governo italiano le misure che dovranno essere adottate al fine di assicurare l’esecuzione della sentenza, sottolineando altresì che l’opera di risanamento della zona Ilva riveste importanza primaria e grande urgenza.

Nessuna somma è stata accordata a titolo di equa soddisfazione ai ricorrenti affetti da patologie connesse all’attività inquinante, né a coloro che a causa delle stesse hanno perso dei congiunti.

Come citare il contributo in una bibliografia:
S. Carrer, Le armi spuntate dell’Italia contro l’inquinamento: la condanna della corte EDU nel caso Ilva (cordella ed altri c. italia), in Giurisprudenza Penale Web, 2019, 2